di Redazione FdS
Il nostro viaggio nel Sud delle tradizioni legate alla commemorazione dei defunti non poteva non approdare anche in Basilicata terra dalla storia plurimillenaria, gelosa custode di tradizioni sopravvissute alle contaminazioni della modernità e, in quanto tali oggetto – soprattutto nei decenni passati – di indagini antropologiche che hanno fatto epoca. Molti sono i tratti comuni con le tradizioni sui defunti riscontrate nelle altre regioni del Mezzogiorno, a cominciare dall’idea che il periodo a cavallo tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre (con appendice fino all’Epifania) sia caratterizzato dal rarefarsi del ”diaframma” che separa il mondo dei morti da quello dei vivi e quindi dalla necessità, da parte di questi ultimi, di prepararsi con una serie di ritualità al misterioso “incontro” con i propri cari estinti. Ritroviamo così la tradizione della “capu du mortu” (testa del morto) a Rotonda (Potenza), la consueta zucca intagliata e illuminata dall’interno con una candela, di cui si conserva memoria anche in altre località come ad es. a Montescaglioso (Matera); testimonianze che con tutta evidenza attestano un uso ancestrale della zucca che prescinde dalla moderna diffusione di Halloween. A Montalbano Jonico (Matera), come in diversi altri paesi della provincia lucana, si ricorda invece soprattutto l’usanza della questua, ossia la richiesta di doni alimentari da parte dei bambini – ma la pratica era diffusa anche tra gli adulti più poveri – formulata “per le an’m a’l muort” (per le anime dei morti) durante il giro fatto casa per casa con in mano un sacchetto riempito via via con mele, fichi e altra frutta secca, oppure con dolcetti e monetine. Non può non ravvisarsi in questa usanza un’antica versione italica dell’anglosassone “dolcetto o scherzetto”, come dimostra l’analogia per cui all’eventuale rifiuto del dono seguivano irriverenti imprecazioni e burlesche risate rivolte al malcapitato.
L’offerta di cibo (tipico a Matera il piatto di legumi destinato ai poveri) e, in epoche più recenti, anche di vestiti e denaro, in memoria delle ”anime del purgatorio”, si praticava – anche a prescindere dalla questua – quale gesto benefico del tutto volontario compiuto dai vivi per accelerare il processo di espiazione delle anime purganti. Oltre alla citata zuppa di legumi, ricorrente i vari paesi lucani è la preparazione di piatti a base di grano e legumi come la crapiata, un antichissimo piatto contadino tipico dei Sassi di Matera, a base di numerose varietà di legumi e cereali, che ricorre anche in altri momenti dell’anno sebbene gli ingredienti di cui si compone lo pongano in stretta correlazione con le pratiche alimentari funerarie pagane e cristiane. Condivisa con altri luoghi del sud e portatrice di analoghe valenze simboliche legate al ciclo di vita, morte e rinascita, è la cuccìa, un composto dolce a base di grano, frutta secca, vincotto e melagrane, particolarmente in uso a Irsina (Matera) per la ricorrenza del 2 novembre..
Il cibo e l’intimo significato di cura e accoglienza sotteso alla sua preparazione è alla base di un’altra tradizione lucana condivisa con le altre regioni limitrofe, ovvero quella di predisporre per i defunti più cari, delle porzioni extra per la cena del 1° Novembre, e di lasciarle coperte sulla tavola imbandita nella previsione del loro passaggio quali graditi ospiti presso la casa di famiglia. Il cibo era rigorosamente accompagnato da acqua e vino serviti nelle bottiglie, o direttamente nei bicchieri. A indirizzare i defunti verso “la strada di casa”, in una dimensione ormai non più la loro, era invece la luce dei ceri posti accanto alle finestre socchiuse, uno per ciascun defunto atteso; dai tempi e dalle modalità di combustione dei ceri si ricavavano poi interpretazioni sullo stato d’animo dei defunti rispetto all’omaggio ricevuto. Il tutto avveniva in un’atmosfera solenne, di rispetto verso i morti, fatta di dialoghi a bassa voce e di alimentazione spartana da cui era bandita la carne (riccorrenti i già citati piatti a base di legumi e cereali, come nella ”mensa per i defunti” di Ferrandina, nel materano). Una versione più essenziale di questo “incontro” conviviale con i defunti era data dalla consuetudine di predisporre per la notte sulla “boffetta” (termine dialettale per tavola) un semplice catino di acqua fresca con del pane.
Accanto alle celebrazioni liturgiche dei vivi, spesso tenute presso le capelle di cimiteri, a volte di primissima mattina e precedute da processioni e lamentazioni funebri rituali, una diffusa credenza faceva riferimento a una leggendaria “processione dei morti” che si narrava avvenisse nella notte tra l’1 e il 2 novembre lungo un percorso che andava dal cimitero alle principali chiese dei paesi. Una manifestazione soprannaturale riguardante i soli defunti e pertanto assolutamente preclusa ai vivi; l’eventuale trasgressione avrebbe esposto il malcapitato al rischio della vita, evenienza su cui si sprecano racconti popolari dalle tinte macabre e testimonianze di chi riferiva di essere riuscito, non visto, a scorgere le anime dei defunti in processione avvolte in un saio bianco reggendo una candela in mano. Il tempo della memoria dei propri cari si allarga così fino in inglobare un più vasto immaginario sulla morte che attrae e al tempo stesso incute timore perché ci ricorda l’estrema fragilità dell’uomo.
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Bibliografia:
– Maruzza Fittipaldi Mainieri, Memoria e sentimento: usi, costumi e tradizioni della gente del Pollino, Moliterno, 2000
– Giovanni B. Bronzini, Vita tradizionale in Basilicata, E. Montemurro, Matera, 1961
– Gea De Leonardis, La cuccìa irsinese, in Ilcuoreingola.it, 2015
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