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di Alessandro Novoli
Uno dei primi esempi di presenza tradizionale della zucca nelle festività dei morti celebrate in Italia tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre, è localizzato in Calabria ed è citato dall’antropologo Luigi M. Lombardi Satriani nel suo notissimo libro Il Ponte di San Giacomo. Nel fortunato volume, dedicato al tema della morte nell’ambito della cultura popolare, lo studioso si sofferma sulla presenza ancora viva a Serra S. Bruno (Vibo Valentia), della secolare tradizione del “Coccalu di muortu”, denominazione dialettale del teschio.
Ci troviamo nella regione delle Serre preaspromontane, terra di monti impervi, di freddi corsi d’acqua e di boschi secolari, dove Brunone di Colonia, celebre monaco e santo tedesco, fondatore dell’Ordine dei Certosini, decise di trascorrere la sua vita dopo aver fondato in Francia la Gran Certosa di Grenoble. Quella calabrese fu la seconda di una serie di certose, molte delle quali presenti in Italia, ma soprattutto fu il luogo dove il Santo scelse di condurre la sua vita eremitica dopo aver malsopportato l’ambiente della curia romana e rifiutato l’arcivescovato di Reggio Calabria. Preferì infatti la vita contemplativa in un territorio assegnatogli da Ruggero il Normanno a 790 metri di altitudine, nel cuore della Calabria centro-meridionale, dove fondò l’eremo di Santa Maria e, poco meno di 2 km più a valle, il monastero certosino di Santo Stefano del Bosco. Nei pressi poi nacque il borgo di Serra S. Bruno, oggi formato dal centro storico, detto Terra Vecchia, e da Spinetto, il quartiere nato dopo il terremoto del 1783 che distrusse anche alcuni edifici della Certosa, fra cui la Chiesa conventuale di cui oggi resta solo la cinquecentesca facciata in granito in stile palladiano.
Anche qui, come in altri luoghi del Sud e del resto d’Italia, è diffusa fra il popolo la credenza che nei giorni tra fine ottobre e primi di novembre si apra un varco fra l’Aldilà e il mondo dei vivi: nella cultura popolare calabrese questo varco è il Ponte di S. Giacomo di Compostela (lo stesso citato da Lombardi Satriani nel titolo del suo libro), un ponte mitico forse così chiamato in memoria di antichi pellegrinaggi nel celebre santuario spagnolo, un ponte che assolve alla funzione di soglia, una sorta di stargate fra mondo dei vivi e Oltretomba. Si ritiene che questo ponte debba necessariamente essere oltrepassato dal morto, pena una permanenza ambigua e innaturale nel regno dei vivi, e che sia nuovamente percorso ad ogni suo ritorno nei luoghi d’origine, come appunto si crede accada ad Ognissanti.
Ogni anno i ragazzini di Serra S. Bruno, il 31 ottobre, intagliando e modellando grosse zucche gialle riuscivano (qualcuno lo fa ancora) a riprodurre veri e propri teschi che venivano poi portati in giro per le vie del paese. Reggendo questi macabri simulacri illuminati all’interno da una candela, bussavano agli usci delle case oppure si rivolgevano direttamente alle persone che incontravano per strada, formulando la frase interrogativa rituale “Mi lu pagati lu coccalu?” (“Me lo pagate il teschio?”) volta ad ottenere una qualche forma di gratificazione – in genere una piccola somma di denaro oppure dei dolci – implicitamente rivolta in omaggio alle anime del Purgatorio, in modo non dissimile dalle questue che ritroviamo in altri luoghi, nella stessa occasione festiva. Non ci sono maschere o orpelli orrorifici come nell’Halloween americana, ma solo la creativa semplicità di ragazzi portatori inconsapevoli di una tradizione dal forte significato antropologico.
Qui, come nel resto della Calabria, la ricorrenza di Ognissanti la si ritrova accompagnata da pasti frugali e simbolici come insalate di lattuga o erbe miste (le ‘Nzalate di muorti, tipiche un tempo di Cosenza) o lagane e ceci (fettuccine fatte in casa con i ceci), o dolci come le Dita di Apostolo (preparati con pasta di mandorle dalla tipica forma allungata), Ossa ‘e mortu (in forma di tibia, tipici del vibonese ), Morticeddri (fruttini di pasta reale, tipici del reggino, destinati ai bambini come dono dei defunti) e dolci di grano che, abbinati alla pasta fatta in casa, erano tipici del reggino grecofono. Così come diffusa è anche l’usanza di imbandire la tavola per i defunti: a tal proposito, riferendosi all’area aspromontana nel suo insieme, Domenico Zappone – giornalista e scrittore di Palmi (Reggio Calabria) appassionato di demologia, nato agli inizi del ‘900 – racconta come ogni sera, per tutto il mese di novembre, venissero “lasciati sul tavolo un piattello ricolmo di cibo, di pane, la bottiglia del vino, l’orcio con l’acqua. Qualcuno lascia anche un mazzo di carte da giuoco. Altri stacca dal chiodo la chitarra e la pone da presso, su una sedia. All’alba, quando si va a vedere se le cose sono intatte, sempre sorgono discussioni specie per il livello dell’acqua che non è mai quello della sera precedente”.
Basta spostarsi di una sessantina di chilometri da Serra S. Bruno, sul versante tirrenico, per raggiungere la cittadina di Nicotera (Vibo Valentia) e trovare una analoga tradizione. Qui infatti si serba ancora memoria della questua che il 1° novembre veniva fatta dai bambini in giro per le case del paese portando una zucca svuotata e lavorata in forma di teschio, nel cui interno era accesa una candela, chiedendo regali in denaro e dolciumi attraverso la domanda “ndi dati i benedetti morti?” (ce li date i morti benedetti?), così come persiste l’usanza di preparare con le mandorle dei dolci chiamati “ossa di morto”. Fino a non molti decenni fa, infine, nella notte tra l’1 e il 2 novembre si usava mettere sui davanzali delle finestre un secchiello d’acqua con una tovaglietta: un modo familiare per accogliere gli spiriti dei defunti. Un’usanza, quest’ultima, non dissimile da quella registrata a Zaccanopoli (Vibo Valentia) dall’antropologo Lombardi Satriani: “alla fine degli anni Settanta, l’ultimo giorno di ottobre si riempivano di acqua le bottiglie fino all’orlo perché si riteneva che la notte passassero i morti, bagnandovi le dita o, secondo altre fonti, il dito mignolo. L’usanza, diffusa fino a una quarantina di anni fa, è ancora conosciuta ma praticata molto raramente. Secondo un’altra versione di questa stessa pratica, si riempivano fino all’orlo i bicchieri per far bere i morti.” La presenza della zucca la ritroviamo anche a Limbadi (Vibo Valentia), dove la sera di Ognissanti gruppi di ragazzi portavano nelle case zucche vuote scolpite in forma di teschio chiedendo offerte per i defunti e ricevendo soldi, frutta secca e dolciumi. In questo stesso borgo vi era poi anche l’usanza di riempire fino all’orlo delle brocche d’acqua perchè le anime potessero dissetarsi.
Ovviamente le usanze delle provincia vibonese non potevamo non trovarle anche nel capoluogo, Vibo Valentia, l’antica Hipponion: da un anziano del posto apprendiamo che un tempo i morti venivano celebrati dai bambini come oggi Babbo Natale o la Befana, in quanto portatori di doni, fra cui i dolcetti detti ‘ossa di morto’. Si usava che i piccoli andassero a letto presto perchè sarebbero arrivati i morti a lasciare dolci e cioccolatini nelle scarpe dei più buoni e neri carboni in quelle dei bambini cattivi. Anche a Vibo ritroviamo la zucca, acquistata o rubata nei campi da adulti e ragazzi e poi scavata, intagliata e illuminata con una candela. Spesso i ragazzi, per spaventare i passanti, solevano legare una corda al picciolo della zucca per poi appenderla ad una vecchia finestra facendola andare su e giù mentre nascosti emettevano lamenti e grida strazianti da far accapponare la pelle. Diffusa a Vibo anche la significativa usanza, negli stessi giorni, di consumare fave abbrustolite (le fave nell’antichità pagana erano il cibo dei morti). Tradizione analoga si segnala anche a Nicastro (l’odierna Lamezia Terme), nel catanzarese. Spostandoci infine molto più a nord, a S. Giacomo di Cerzeto, piccolo borgo del cosentino, scopriamo che vi si conserva memoria dell’uso, in voga fra i ragazzi almeno fino agli anni ’50, di scolpire zucche in forma di teschio illuminate dall’interno con una candela e disposte la notte di Ognissanti sopra il parapetto di un ponte. Anche per la città di Cosenza esistono testimonianze in proposito, come quella proveniente dal quartiere Colle Triglio, dove ogni autunno i ragazzi giocavano a intagliare le zucche al cui interno accendevano un cero, per poi collocarle in zone buie per cercare di spaventare i passanti. Racconti analoghi sono inoltre riferibili alla Sila e databili agli anni ’60 del Novecento. Sempre in provincia di Cosenza, l’usanza è attestata per il passato anche a Casole Bruzio (ora Casali del Manco).
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Bibliografia:– Alfredo Cattabiani, Florario, Mondadori, Milano 1996
– Luigi M. Lombardi Satriani, Il ponte di San Giacomo, Sellerio, Palermo 1996
– Luigi M. Lombardi Satriani, Dai fuochi dei defunti alle zucche di Halloween, in ‘Ossimori’, rubrica settimanale del Quotidiano della Calabria del 1 Dicembre 2009
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