di Redazione FdS
La morte può attendere, è il caso di dire, visto che mai cadavere umano vi è stato deposto all’interno. Ma a quello sarebbero serviti – non prima di essere stati abbelliti con fregi e bassorilievi da qualche esperto marmorario – se solo fossero giunti a destinazione, probabilmente a Roma. E invece da oltre 1700 anni un gruppo di 20 sarcofagi marmorei d’età imperiale (III sec. d.C.), noti come ‘Sarcofagi del Re’, giace a 4-6 metri di profondità nel mare salentino di San Pietro in Bevagna, frazione marittima di Manduria (Taranto); una località nota per i suoi bianchi e ampi arenili considerati fra le spiagge più belle d’Italia. Su questo sito archeologico subacqueo, ben noto ai locali e agli addetti ai lavori, si sono riaccesi i riflettori di recente dopo la pubblicazione di alcune belle immagini riprese col drone dal fotografo salentino Cosimo Trono.
Non è difficile osservare i massicci manufatti in marmo bianco,il cui peso va da una a sei tonnellate: basta immergersi con pinne e maschera nelle acque cristalline del tratto di mare che fronteggia la foce del Chidro, leggendario fiume del versante jonico salentino il cui tratto finale è oggi tutelato da una Riserva Naturale. Dei sarcofagi in realtà si favoleggiava già agli inizi del ‘900 in opuscoli di eruditi locali, ai quali si deve l’originario epiteto di ‘vasche del Re’, ma la scoperta ufficiale risale al 1964 ed è da attribuirsi a un giornalista americano, Peter Throckmorton, esperto subacqueo con la passione per l’archeologia, che tracciò anche una prima mappatura del sito. Vani furono invece i tentativi di trovare i resti della nave che li trasportava e che qui fece naufragio. Gli studiosi ipotizzano che questa avesse una lunghezza di circa m. 20-22, per una larghezza di m. 5-6, e trasportasse appunto sarcofagi di marmo, diversi per forma, dimensioni e peso, provenienti dall’Egeo e dall’Asia Minore. Si suppone altresì che fossero destinati alla capitale dell’Impero, dove sarebbero stati sbarcati nella Statio Marmorum di Ostia, per poi raggiungere via fiume, a bordo delle naves caudicariae, la Ripa Marmorata, presso il monte Testaccio, e quindi il Campo Marzio, dove lavoravano i marmorari, presso la Statio Rationis Marmorum.
I sarcofagi presenti nel sito di S. Pietro in Bevagna sono di diverse tipologie: da quelli con cassa rettangolare (la maggior parte) a quelli del tipo a vasca (lenòs) con i lati brevi arrotondati, che derivavano la loro forma dal tino per la pigiatura dell’uva, in un gioco di rimandi simbolici a Dioniso e ai valori escatologici del suo culto, come del resto si può chiaramente notare su oggetti analoghi presenti a Roma fin dal II sec. d.C. Quelli rettangolari presentano sul lato lungo, destinato a rimanere visibile, uno spessore maggiore necessario a ricavarne la decorazione a rilievo che veniva solitamente scolpita nel luogo di destinazione. Ad accogliere teste scolpite di animali o umane serviva a sua volta la coppia di sporgenze presenti sui sarcofagi a vasca.
Circa la provenienza dei manufatti, si ritiene che essi presentino caratteristiche tipiche delle cave della Valle del Meandro, nell’odierna Turchia, di Afrodisia, in Asia Minore, o delle isole egee. Come mostra chiaramente il sito pugliese, i sarcofagi venivano trasportati in blocchi monolitici semilavorati, alcuni con doppia cavità per ricavarne due sarcofagi e, per occupare meno spazio sulla nave, alcuni più piccoli venivano impilati all’interno di quelli più grandi. La datazione alla prima metà del III sec. d.C. è stata suggerita oltre che dalla forma dei reperti, dalle caratteristiche della ceramica imbarcata e dal confronto con il coevo relitto di Methoni, in Grecia.
L’Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro e la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia, che collaborano da anni per la protezione dei Beni sommersi disseminati lungo le coste della regione, nel 2009, con il progetto ‘Restaurare sott’acqua’, hanno attivato un cantiere finalizzato alla creazione di un piccolo (148 mq.) ma prezioso parco archeologico sommerso, il secondo della Penisola, dopo quello di Baia in Campania. Gli archeologi e i restauratori hanno redatto una scheda informativa sullo stato di conservazione dei sarcofagi, mentre ai biologi dell’Istituto è spettato il compito di studiare le forme di vita marina presenti sui reperti. Grazie a pannelli informativi appositamente posizionati accanto ai manufatti marmorei facenti parte del carico della nave naufragata, i visitatori possono fruire di una escursione di alto contenuto culturale. Nel video (v. in alto) divulgato da Dive in History – consorzio europeo che riunisce soggetti pubblici e privati di Grecia e Italia e collabora con la Commissione Europea nel progetto “Underwater cultural route in classical antiquity” per la creazione di prodotti e pacchetti turistici innovativi – si vedono i tecnici subacquei dell’Unical (Università della Calabria) impegnati in un accurato lavoro di drenaggio della sabbia – per rendere il sito archeologico più visibile – oltre che di rimozione delle incrostazioni e di studio dei reperti finalizzato ad una rielaborazione in realtà virtuale dei rilievi effettuati sul sito.
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