di Redazione FdS
Nel cuore delle Serre calabresi, a poco più di mille metri d’altezza, c’è un luogo misterioso; qualcuno direbbe spettrale, se anziché trovarci nel soleggiato cuore del Mediterraneo fossimo nelle brumose lande di Scozia. Ma anche qui la natura, quando vuole, sa creare atmosfere nordiche e rarefatte e allora il labile confine fra verità e leggenda si popola di fantasmi, uno dei quali è quello di Maria Enrichetta Scoppa, Baronessa di Badolato, ricca proprietaria terriera realmente esistita a cavallo fra Otto e Novecento. A evocarlo è ciò che resta del Castello della Lacina, un piccolo e affascinante maniero di origini cinquecentesche ubicato in Chianu da Jannara, nel territorio di Cardinale (Catanzaro). Data la sua posizione elevata, un tempo il castello era visibile dalla Provinciale che da Brognaturo (Vibo Valentia) porta a Santa Caterina dello Jonio (Catanzaro) ma oggi è ben nascosto allo sguardo dalle folte foreste di abeti che lo circondano. Del castello persistono i resti dei torrioni angolari e delle mura perimetrali, essendo stato sottoposto in tempi non troppo lontani a una vera e propria spoliazione, come del resto può dedursi da un’immagine del secondo dopoguerra col castello ancora in discrete condizioni (v. foto in basso).
LA LEGGENDA NERA
Da oltre un secolo una leggenda locale ha reso la Baronessa Scoppa protagonista di vicende degne del famigerato Gilles de Rais. La Baronessa “storica”, nata nel 1831 e morta nel 1910, è in realtà nota alle cronache come una donna nubile di fervente religiosità che viveva nel borgo di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio (Catanzaro) dove nel 1897 fece costruire il collegio e la chiesa della Congregazione del Santissimo Redentore, supportò diversi seminaristi, elargì doti a fanciulle povere, fece restaurare la chiesa madre e l’acquedotto di Niforio e lasciò il palazzo di famiglia in eredità alle Suore Riparatrici del Sacro Cuore, con l’impegno di fondarvi un Orfanotrofio. Tuttavia la leggenda le attribuisce un lato oscuro che proprio nel Castello della Lacina, indicato come sua residenza estiva, avrebbe trovato efferato sfogo. Si racconta infatti che la nobildonna, sebbene da giovane avesse fatto voto di verginità, andasse segretamente alla continua ricerca di esperienze erotiche e che allo scopo attirasse nel suo castello fra i boschi giovani e prestanti uomini dei dintorni con cui consumava torridi rapporti carnali. Fin qui nulla di eclatante, solo una storia di ordinaria ipocrisia, se non fosse che i suoi occasionali amanti pare venissero fatti puntualmente sparire nelle sabbie mobili presenti nel territorio circostante, affinché non rimanesse traccia delle inconfessabili abitudini della donna. Nei paraggi vi sarebbero infatti ampie zone paludose coperte di giunchi secchi, dette nel dialetto locale vizzichi o uocchie e mare perché si credeva fossero in comunicazione col Mar Jonio.
Questi pericolosi tratti di terreno ricorrono nei racconti di contadini e boscaioli della zona, che ne riferiscono la presenza in più punti, fra cui il pianoro detto “Chianu di la Lacina” dove oggi risplendono le acque dell’omonimo lago, posto a poche centinaia di metri dal Castello e ottenuto negli anni ’80 dallo sbarramento del torrente Alaco, un corso d’acqua che dai monti di Brognaturo (VV) scende a valle serpeggiando fra massi di roccia granitica e formando a tratti suggestive cascatelle.
Si racconta che un tempo nell’area ci fossero colture di grano e che quindi non fosse raro il passaggio di carri trainati da buoi, a taluno dei quali pare sia capitato di finire risucchiato in queste subdole torbiere. Pertanto la massima cautela è d’obbligo per chi decidesse di fare trekking in questa zona (Per ulteriori informazioni è possibile contattare il trekker Antonio Aricò, autore delle immagini qui pubblicate: 348/0028998 – antonio-arico@alice.it)
IL CASTELLO E IL SUO TERRITORIO
Del Castello della Lacina si sa ben poco, a parte il fatto che Maria Enrichetta Scoppa, Baronessa di Badolato, ne è stata l’ultima proprietaria. Ogni altra informazione che è stato possibile reperire proviene per lo più da tradizioni orali finora insuscettibili di una documentata verifica: dalla sua presunta fondazione intorno al 1580, alla sua struttura originaria, oggi pressoché irriconoscibile e pur tuttavia ricostruibile, almeno nell’aspetto esteriore, grazie ad alcune foto degli anni ’50. Quanto alle funzioni dei due piani che lo componevano, si dice che nel superiore vi fossero le stanze della baronessa e dei suoi ospiti, mentre in quello inferiore gli alloggi di alcuni coloni e di una guarnigione che presidiava il luogo anche d’inverno, oltre a un locale di deposito per le provviste e a una piccola stalla per il ricovero dei cavalli della nobildonna. Si racconta inoltre che nei pressi del Castello ci fosse una chiesetta, forse sorta su un antico tempio rurale intitolato alla dea greca Hera Lacinia (più notoriamente venerata nel grande santuario di Capo Colonna, a Crotone), il che forse spiegherebbe il toponimo Lacina, ma si tratta di mere illazioni perché della chiesa, come del presunto tempio, non c’è alcuna traccia.
Oggi i resti del Castello ricadono nell’ambito del Parco Naturale regionale delle Serre, mentre il Lago della Lacina è sito di interesse comunitario (SIC) essendo una delle poche zone umide montane meridionali, ad alta concentrazione di biodiversità con più di 300 specie di flora, molte delle quali rare, fra cui l’unica popolazione calabrese della bellissima Menyanthes trifoliata.
LA LEGGENDA: UNA POSSIBILE LETTURA
Per concedere il beneficio del dubbio a una donna la cui memoria, sia pure a distanza di un secolo, è costretta a convivere con una leggenda così truce, vogliamo soffermarci su alcune fonti che parlano del contesto familiare da cui la Baronessa Scoppa proveniva e del suo modo di essere, soprattutto nel rapporto con le persone umili, aspetti in cui potrebbe forse celarsi la vera chiave di tanta oscura fama. Tolta infatti l’ipotesi, peraltro non inverosimile, che le nefaste azioni a lei attribuite siano in realtà da ricondursi a qualche ava vissuta secoli prima, ma appioppate a lei per ironia della sorte, resterebbe l’ipotesi della calunnia, ossia quel “venticello sottile”, che lentamente “va scorrendo, va ronzando, nelle orecchie della gente s’introduce destramente…”, messo in musica da Rossini. Consideriamo questa ipotesi chiedendoci cos’altro ci venga raccontato di Donna Maria Enrichetta Scoppa. Che era discendente di un nobile cavaliere latifondista di Badolato ed era l’unica figlia nubile delle quattro avute da Giuseppe Scoppa (1794-1857) e Saveria Greco. Rimasta ad abitare nel palazzo padronale di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio, ricavato da un suo avo nella Grancia che i monaci Certosini di Serra S. Bruno possedevano in quel borgo, la donna ebbe in lascito tutte le proprietà di Isca sullo Ionio e di Sant’Andrea appartenenti agli Scoppa. Per la cronaca la sua fu dunque una vita da ricca latifondista, oltre che da donna afflitta da una esasperante forma esteriore di devozione religiosa, come tale vissuta fino a quel febbraio 1910 quando spirò a Villa Condò, non prima di aver lasciato i suoi beni alla nipote Enrichetta Di Francia, sposa del marchese Armando Lucifero. Una vita a cui si è ispirato il romanzo “La Lacina e il casino della baronessa” della scrittrice calabrese Rosina Andreacchi.
Paradossalmente pare però che vivesse nel terrore di finire all’inferno perché la sua famiglia si era impossessata dei beni della Chiesa. Un’ossessione che la portò a far coprire gli affreschi della cappella del Palazzo appartenuta ai Certosini, come le ricordavano appunto le immagini di S. Bruno di Colonia e i suoi confratelli. La tinteggiatura però si screpolò e lei finì col far picconare gli affreschi. Quella stessa ossessione la portò peraltro a scrivere in Vaticano per sapere come avrebbe potuto riparare il danno provocato dalla sua famiglia: e proprio da questa iniziativa deriverebbero tutte le opere pie di cui fu promotrice, piuttosto che da un sincero spirito di liberalità. Fece celebrare numerose messe al giorno, dotò a sue spese le chiese di paramenti preziosi ed arrivò addirittura a inviare a papa Pio IX un anello nuziale perché la dichiarasse ”sposa di Gesù”, grottesco tentativo di accaparrarsi i favori di quel Cielo che supponeva offeso dagli Scoppa. Fece inoltre allontanare dal paese un padre Liguorino che osò negarle l’assoluzione perché non aiutava i poveri, mentre riuscì a farne eleggere vescovo un altro che invece le elargiva assoluzioni a piene mani. Se tutti questi aneddoti riportati da Mongiardo sono autentici, possono forse spiegare perché ad un certo punto sul conto della Baronessa siano cominciate a circolare certe voci.
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Bibliografia:Rosina Andreacchi, La Lacina e il casino della Baronessa, Falco editore, Cosenza, 2015, pp. 272
Salvatore Mongiardo, Ritorno in Calabria, ed. Pellegrini, Cosenza, 2003, pp. 216
Loredana Turco, Silvana Franco, Legendabria, leggende di Calabria, ed. Publigrafic, Cotronei, 2018, pp. 160
Articolo che denota la passione dello scrittore per la sua terra.
Lo scritto e’ equilibrato e il taglio di tipo investigativo.Complimenti