Una storia antica e sempre attuale: il trionfo delle apparenze sulla verità. Il realismo dello scultore pugliese non fu apprezzato nella Bologna dei Bentivoglio. Le avventure del capolavoro misconosciuto di Niccolò dell’Arca
di Rita Guastamacchia
La par omna dal Marì d’la Vetta. È così brutta che “pare una Maria della Vita”, si usava dire nella Bologna fin-de-siècle, quando non si voleva fare un complimento a una signora. Secoli di oblio e di disprezzo per il genere realistico dell’opera, unitamente al cambiamento dei rituali liturgici della Passione, hanno confinato il Compianto sul Cristo morto di Santa Maria della Vita a Bologna, capolavoro di Niccolò dell’Arca, a opera minore di scarso valore, tanto nella fantasia popolare quanto nella critica d’arte.
“Opus Nicolai de Apulia” è la sua firma, elegantissima, sul cuscino dove posa il capo il Cristo: Niccolò di Puglia. La vita dello scultore rimane avvolta nel mistero. Le testimonianze contemporanee lo ricordano come pugliese o barrensem, approdato e vissuto nella fosca Bologna dei Bentivoglio e morto lì “et in miseria” senza lasciare dietro di sé una scuola. Uomo “fantasticus et barbarus moribus adeo agrestis”. Lo dipingeva così un suo contemporaneo, il domenicano Borselli, accentuandone il carattere duro e scontroso: “Caput durum habens”, una capa tosta, come i Pugliesi veraci, tanto da non volere accettare consigli da chicchessia, da non aver mai voluto allievi nella sua bottega.
La prima volta che Niccolò compare in documento è per un contratto di affitto del 5 aprile 1462, per una bottega presso la Fabbriceria di San Petronio, pagato per lui dall’Ospedale di Santa Maria della Vita. Nel documento è citato come Niccolò de Apulia.
Lui stesso si firmò più volte come Niccolò de Apulia. Fonti di poco posteriori al Maestro lo indicano come Schiavone o Dalmata, dunque potrebbe essere stato di famiglia oriunda della Dalmazia, giunto giovanissimo o nato in Puglia. Anche se la maggior parte della sua produzione artistica si sviluppa a Bologna, tutto fa supporre che la sua formazione si sia compiuta prima, e che sia avvenuta a Napoli, il più vitale centro culturale dell’Italia Meridionale e punto d’incontro di influssi italiani e stranieri.
Se Niccolò legherà il suo nome all’Arca, committenza di prestigio affidatagli dai Padri Domenicani per dare un nuovo basamento all’Arca contenente le reliquie di San Domenico, la feroce naturalezza del Compianto sul Cristo Morto rimane però il suo testamento spirituale e il momento più alto della sua espressione artistica.
La gestualità esasperata, le grida e la mimica dei personaggi evocano gli atteggiamenti del lutto della conclamatio pagana, cui le stesse lamentazioni su Cristo Morto attinsero nei rituali della Passione, prima che le gerarchie ecclesiastiche le annacquassero, imponendo la necessità di trattare il tema sacro con rassegnazione e dominio delle passioni. Riconosciamo la menade scatenata nella danza bacchica, con le vesti che le tratteggiano il corpo e ne seguono i movimenti, nella figura della Maddalena, cui, data la sua condizione di peccatrice pentita, si concedeva una maggiore violenza nella espressione dei sentimenti di dolore. Una danza tanto simile a quella, più vicina a noi e quanto mai struggente e liberatoria, quando non sia ridotta a mero folklore, come quella della pizzica, delle donne possedute dal morso della taranta.
Un urlo più contenuto quello di Maria di Cleofa, nel suo porre le mani in avanti, in bilico tra il vedere e non voler vedere, tra l’avanzare e il voler ritrarsi, per allontanare la vista dall’immagine di Gesù morto.
Niccolò consegnò l’opera, sembra, il Venerdì Santo del 1463. Sull’ubicazione originaria del Compianto poco si sa, ma era comunque un luogo nascosto, sepolcrale, con quel senso di sotterraneo che animava i rituali liturgici della settimana di Passione, ove la lamentazione aveva luogo. La “grotta” architettonica, suggerendo di fatto una limitazione scenica, favoriva tale fruizione, nel gioco delle luci e delle ombre, entro cui si consumano sussurri e grida. Anche la violenza cromatica di cui le terrecotte erano vestite ne animava i gesti alla luce delle candele e delle fiaccole, suscitando il coinvolgimento dei fedeli.
Ma se queste erano le suggestioni quattrocentesche e cinquecentesche, così drammatiche e così simili a quelle delle Natività in pietra, ad opera di artisti quali Stefano da Putignano e Altobello Persio, che si impongono nelle cattedrali pugliesi e lucane, come ad evocare la chiusura di un cerchio, i Compianti, così come le Natività, nel ‘700 erano ormai considerati inutili, e superati, perché il fervore religioso della liturgia della Passione, come quella del Natale, faceva leva ormai sull’esteriorità, basata sulle complicatissime macchine dei Sepolcri che si montavano e si smontavano annualmente nelle Chiese, facendo il paio con i Presepi, che addirittura, dall’essere un elemento di religiosità corale, diventavano una proprietà “privata” custodita nelle teche di famiglia, da montare e smontare in date prestabilite.
Sopravvissuto quasi per miracolo a una serie di mortificanti trasferimenti e di mancate distruzioni, grazie anche a un errore di valutazione sulla attribuzione dell’opera ad Alfonso Lombardi da Ferrara, nel 1779, il Compianto di Niccolò viene sbattuto “in luogo pubblico decente” nei pressi delle Pescherie. E l’anno dopo, nel 1780, la Congregazione di Santa Maria della Vita finanzia uno spettacolare apparato di Sepolcro, caratterizzato da una sovrabbondanza di decorazioni a finti marmi, finte statue, finte figure allegoriche. Un trionfo di falsità per enfatizzare la Passione di Cristo. Le disavventure del capolavoro misconosciuto non finirono lì.
Dovendosi fare un nuovo mercato coperto nella via delle Pescherie, il Compianto fu riportato nella penombra della Chiesa, confinato alla destra dell’altare, sopra un rozzo basamento di mattoni, con ulteriore tributo di rottura delle terrecotte, rozzamente e frettolosamente riparate da mani svogliate e inesperte.
Un secolo dopo, ancor di più i rituali non sapevano riconoscere nell’opera di Niccolò alcun valore, tesi solo a creare un’atmosfera di raccolta pietà e di contemplazione, che i gesti sgraziati delle Marie andavano a turbare. E il povero grande Niccolò de Apulia finì per diventare, e rimane ancor oggi, nel dialetto stretto di alcune mamme bolognesi, un inconsapevole spauracchio per zittire i capricci dei bambini: “S’t-n brisa bon, at porta dall Marì d’la Vetta”. Se non stai buono, ti porto dalla Maria della Vita.
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