di Enzo Garofalo
La chiave è una di quelle cose che quotidianamente portiamo con noi, utilizziamo, dimentichiamo, consegniamo, togliamo. Un oggetto che per noi ha la banalità dell’ovvio e dello scontato. C’è invece qualcuno nel mondo per cui quell’oggetto ha un ben più importante valore materiale e simbolico: materiale perchè è lo strumento che gli consentiva di accedere a una casa, la propria, il più delle volte assente – perchè confiscata o distrutta – e simbolico, perchè quella chiave è stata eletta ad emblema di un “ritorno” da troppo tempo agognato, fra speranze e disillusioni. E’ la chiave che tanti palestinesi custodiscono gelosamente nelle loro tasche, da quando cioè è iniziato il lungo esodo che ha portato centinaia di migliaia di loro a emigrare verso i campi profughi allestiti (spesso in malo modo) nei paesi arabi vicini a quell’area che dal 1948 è sede dello Stato di Israele.Quella stessa chiave è diventata un monumento raffigurato nel manifesto della mostra “Palestina, un carcere a cielo aperto”, che la fotografa tarantina Anna Svelto ha in corso a Bari presso il Fortino Sant’Antonio in occasione della Settimana della Palestina indetta nell’ambito dell’Anno Internazionale della Solidarietà al Popolo Palestinese. La mostra, che espone 50 scatti in b/n, realizzati nell’aprile 2013 durante un viaggio nei Territori Occupati e a Gerusalemme, è visitabile a ingresso libero fino al prossimo 30 marzo.
E’ una convivenza difficile, a tratti impossibile, quella fra palestinesi e israeliani, che da oltre sessan’tanni si trascina nel vano tentativo di trovare soluzione ad un conflitto che spesso e volentieri si tinge di sangue innocente a causa di violentissime operazioni militari o di devastanti attentati terroristici, che non fanno altro che rallentare il sempre più difficile processo di pace. Mentre le grandi ”mosse” della politica si giocano sullo scacchiere internazionale – ed è questo ciò di cui più spesso si parla sui media, così come si parla dei momenti di più acuta crisi militare – esiste anche una “silenziosa” vita quotidiana fatta di disagi, ristrettezze, limitazioni, negazioni e anche gravi violazioni dei più elementari diritti che, in nome della sicurezza, scandiscono l’esistenza di questo popolo trovatosi, ironia della sorte, a vivere in conflitto con un altro popolo che a sua volta ha sperimentato per secoli sulla propria pelle il dramma della diaspora e del genocidio. Ecco che allora una dinamica perversa, a cui la comunità internazionale stenta a trovare una soluzione, fa sì che volta per volta le vittime si trasformino in carnefici e viceversa. Tutto ciò rende la vita in quei luoghi un’esistere carico di tensione, nel quale anche il gesto più insignificante rischia di scatenare un inferno.
A quella vita quotidiana, pressochè sconosciuta in Occidente, la fotografa Anna Svelto ha voluto dedicare i suoi scatti, adempiendo alla promessa, fatta ai tanti palestinesi conosciuti durante i suoi viaggi in Medio Oriente, che avrebbe parlato del loro silenzioso dramma quotidiano. “Queste mie foto – dice l’Autrice – raccontano la vita quotidiana dei palestinesi, una vita molto dura ma vissuta anche con coraggio, sorrisi e tenacia.” Lungo i pannelli scorrono infatti tanti piccoli ”spaccati” di vita che restituiscono in modo efficace il senso di un luogo, la Palestina, che Anna definisce “un carcere a cielo aperto”. Tale infatti emerge dalle immagini con i suoi muri di separazione, i checkpoint, le recinzioni in rete o filo spinato, elementi che stridono bruscamente con i murales dipinti dalla gente comune in cui si celebra la libertà, la vita, la speranza.
“Quello che in Occidente sappiamo della Palestina è veramente poco – aggiunge la fotografa. “Un conto è sapere, un altro è vedere con i propri occhi quello che è la negazione dei diritti civili elementari di un popolo. In Palestina mi hanno fatto promettere che non avrei lasciato nel silenzio la mia testimonianza della loro tragedia e questo mi ha determinato a volere questa mostra. La serie di fotografie scelte testimoniano gli incontri con coloro – palestinesi ed italiani, religiosi e non – che aiutano il popolo palestinese ad affrontare le gravi difficoltà del vivere nei territori occupati dagli israeliani ed anche, la paura degli israeliani, vittime della stessa loro politica aggressiva di insediamenti, di demolizioni, di espulsioni. E su tutto, il muro della prigione: perché elevare muri di separazione sicuramente esclude l’altro ma fatalmente esclude se stessi, non fa entrare ma nemmeno uscire. Dove c’è un muro c’è il fallimento del dialogo e della politica, come ci insegna la storia.”
Questa mostra è dunque un’occasione per riflettere sul dramma di un popolo del quale spesso e volentieri si conosce solo ciò che viene raccontato nei momenti di maggiore tensione e non di rado frutto di un punto di vista parziale, dimenticando che quello vissuto dai Palestinesi è uno stillicidio quotidiano fatto di negazione di diritti basilari, all’interno di un’esistenza in cui la tensione e l’umiliazione vanno di pari passo col respirare. E’ quanto traspare, oltre che dalle immagini fotografiche, soprattutto parlando con chi ha vissuto o ha avuto modo di osservare direttamente ciò che accade nei territori occupati e a Gerusalemme. Anna Svelto ha infatti cercato di cristallizzare nelle foto ciò che direttamente ha conosciuto ed esperito. E lo fa con sguardo sensibile e appassionato mostrandoci una realtà di cui normalmente i programmi scolastici di Storia tacciono.
La Settimana della Palestina, promossa dalla Comunità Palestinese di Puglia e Basilicata e dal Comitato Tadamon Filastin, riserva a Bari anche vari altri appuntamenti fra cui alcuni incontri-dibattito, proiezioni di film e documentari e presentazioni didattiche. Una settimana inaugurata l’altro ieri nel migliore dei modi, in una sala gremitissima di pubblico, fra i sublimi versi di Mahmoud Darwish letti dall’attrice Loredana Bagnato, le parole accorate di Mai Alkaila, ambasciatrice dello Stato di Palestina oggi riconosciuto da 136 Paesi, la musica e il canto di Nabil, voce e autore dei Radiodervish, e la presenza di una nutrita schiera di palestinesi (intere famiglie con stuoli di vivacissimi bambini) che – spesso a nostra insaputa – condividono con noi la vita cittadina per motivi di lavoro o di studio. L’occasione ha permesso al pubblico anche di assaggiare la cucina palestinese, un vero concentrato di Mediterraneo. Ad ogni assaggio è stato come gustare un sorso di “umanità”, perchè in quei piatti si avverte sedimentata la forza di millenni di identità, un’identità che qualcuno vorrebbe disconoscere se non addirittura cancellare. E allora non si può fare a meno di pensare quanto sia triste ed umiliante che un intero popolo sia costretto ad “elemosinare” l’attenzione del mondo per vedersi riconoscere ciò che gli spetterebbe di diritto per il fatto stesso di esistere.
Images: Courtesy of Anna Svelto