di Kasia Burney Gargiulo
La metà dell’Ottocento fu per il territorio di Santa Maria Capua Vetere (l’antica Capua, città campana che con una storia di oltre ventotto secoli è stata osca, etrusca, sannita e romana) un periodo ricco di scoperte archeologiche con il ritrovamento di necropoli che datano dal IX sec. a.C. fino all’età romana. E’ difficile oggi conoscere con esattezza gli esiti di diversi di tali ritrovamenti mancando adeguate documentazioni di scavo: del resto era un periodo in cui a dominare la scena erano soprattutto trafficanti più o meno astuti di antichità e collezionisti non sempre in buona fede. Una normativa lacunosa permetteva a chiunque di ottenere licenze di scavo finalizzate al ritrovamento e al commercio di antiche vestigia, avendo come unico obbligo, raramente mantenuto, di dare comunicazione alle Autorità dell’esito delle ricerche. Molti ritrovamenti avvennero soprattutto durante i lavori di costruzione della Real Ferrovia Borbonica che collegava Caserta a Capua; questi si svolsero sui versanti sud e ovest di S. Maria Capua Vetere (Caserta) e intercettarono diverse necropoli fra cui quelle di Cappella dei Lupi, databili fra il VI e il IV sec. e rimarchevoli per ricchezza dei corredi funerari. Da una di queste proviene il meraviglioso Lebete Barone (oggi al British Museum) che, come scrisse un contemporaneo, superava gli altri per maestosità delle proporzioni e bellezza della forma.
Era il 22 ottobre 1847 quando lo splendido vaso in bronzo fu ritrovato da Giuseppe Della Valle presso il villaggio di S. Erasmo, nel fondo del sign. Pacconi. Di quello, come di altri reperti involatisi senza le necessarie autorizzazioni, fece generica relazione all’ispettore degli scavi un tal Vincenzo Caruso, uno fra i più attivi scavatori e mercanti di antichità della zona. La collezione di oggetti fu da lui acquisita ma finì presto nelle mani del commerciante di antichità Raffaele Barone: lo si apprende dal fatto che a distanza di appena un anno dal ritrovamento, gli oggetti menzionati dal Caruso, compaiono nella collezione Barone pubblicata da Giulio Minervini. Quest’ultimo parla di un’urna cineraria sistemata in un gran pezzo di tufo scavato e dipinto di rosso all’interno e chiuso da un “coverchio piano”. Si trattava dunque di una sepoltura “a ricettacolo di tufo” che insieme al lebete in bronzo (poi venduto dallo stesso Barone al museo inglese) conteneva anche una kylix attica a figure rosse attribuita al Pittore di Euergides (anch’essa oggi al British Museum) e un’anfora attica a figure nere del Pittore di Diosphos (oggi custodita al Cabinet des Médailles, a Parigi), sebbene Minervini, in una pubblicazione successiva sostituisca quest’ultimo vaso con un’anfora panatenaica a figure nere.
A tal proposito, lo studioso Flavio Castaldo rileva come – al di là dei fattori culturali individuali che spesso conferivano a una sepoltura elementi di specificità – il corredo, così come il rituale e la tipologia funeraria, fossero comunque da inquadrarsi nell’ambito di un comune bagaglio di tradizioni e di religiosità, come testimonia la ricorrenza di certi modelli. Nel caso della sepoltura del lebete Barone, si può parlare di una tipologia sepolcrale d’élite basata sul sistema lebete in bronzo-anfora panatenaica. Castaldo evidenzia come in questo caso un tratto caratteristico sia il tema della pratica atletica dei giovani: dalla scena di palestra che compare su parte del fregio del lebete (insieme ad altre con cacce di animali, corse di bighe e l’avventura mitologica di Ercole, Caco e i buoi di Gerione, che secondo una certa tradizione avrebbe avuto scenari campani), alla kylix con un giovane atleta fra cavalli e sfingi, all’anfora panatenaica.
LA DECORAZIONE PLASTICA DEL COPERCHIO
Non disgiunta dai temi della decorazione sul corpo del lebete Barone è, secondo gli archeologi, l’affascinante decorazione plastica presente sul suo coperchio. L’intero complesso iconografico alluderebbe infatti ad un modello educativo di stampo aristocratico basato sui valori ideali della giovinezza, nel quale la pratica agonistica evocata nel fregio, costituisce un momento essenziale nella formazione dei giovani, una sorta di premessa dell’attività militare a cui in particolare rimanda la scena del coperchio (di questo come di altri vasi con scene analoghe). L’allusione è a rituali di passaggio che i giovani devono superare per accedere alla condizione di adulto, e la si scorge nella contrapposizione fra un mondo selvaggio, popolato di satiri e menadi danzanti (come le due figure del gruppo al centro del coperchio) e i giovani travestiti da cavalieri sciti intenti a svolgere la funzione militare, caratteristica del loro apprendistato, di “guarnigione di confine (peripoloi)” in difesa da un mondo selvaggio evocato dalla coppia satiro-menade.
I BRONZI CAMPANI
I lebeti, di cui il Barone è uno degli esempi più pregiati – insieme ad altri custoditi a Copenaghen, Chicago, ecc. – erano fra i prodotti più caratteristici della bronzistica campana. Costituiti da un corpo sferoidale poggiato su un piedistallo e da un coperchio ornato da statuine, erano un tipo di contenitore che se nelle sepolture conteneva le ceneri del defunto, nella vita quotidiana serviva invece per riscaldare l’acqua, cuocere le vivande, per abluzioni rituali o come premio per giochi ginnici. Nell’antichità i lebeti di Capua, la cui fattura risentiva di influssi etruschi ed ellenici, godettero di quella fama che in generale accomunava i bronzi campani: è noto come Catone apprezzasse gli “aenea vasa” di Capua, Orazio la “campana suppellex” e come il grammatico Porfirione, ancora ai suoi tempi (III sec. d.C.) riferisse di pregevoli “aenea vasa” prodotti a Capua. Anche Plinio parla del bronzo di Capua menzionando una particolare lega detta cadmia, usata per i più pregiati oggetti. Lo storico Svetonio, a sua volta, ricorda come i coloni inviati da Cesare nel 59 a.C. , scavando fra antichi sepolcri, rinvennero la tomba del mitico fondatore Capys (un troiano al seguito di Enea, secondo Virgilio), contenente una “tabula” in bronzo con una profezia scritta in greco.
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Riferimenti bibliografici:– Flavio Castaldo, Le necropoli dell’antica Capua e la sepoltura del lebete Barone, in “Gli Etruschi e la Campania settentrionale”, Atti del XXVI Convegno di studi etruschi ed italici, Caserta, Santa Maria Capua Vetere, Capua, Teano, 11-15 novembre 2007, Pisa, ed. Fabrizio Serra, 2011, pp. 720
– Bruno D’Agostino, Luca Cerchiai, Il mare, la morte, l’amore: gli Etruschi, i Greci e l’immagine, Donzelli editore, Roma, 1999, pp. 220