Iniziamo dal sommo poeta latino Virgilio (70-19 a.C.) il cui destino lo avrebbe legato indissolubilmente alla Puglia, essendo egli morto a Brindisi di ritorno da un viaggio in Grecia. La tradizione vuole che proprio a Taranto, sulle sponde del Galeso, il poeta mantovano abbia composto le Egloghe e abbia tratto ispirazione per le Georgiche, l’opera poi composta a Napoli tra il 37 ed il 30 a.C. e suddivisa in quattro libri: un poema didascalico sul lavoro dei campi, sull’arboricoltura, sull’allevamento e sull’apicoltura come metafora di un’ideale società umana. Questa dimestichezza di Virgilio con la città di Taranto è confermata dal coevo poeta umbro Properzio (47-14 a.C.) che in una delle sue Elegie, scrive: “Tu canti (o Virgilio) per i boschi di pini dell’ombroso Galeso Tirsi e Dafne con le loro vecchie canne”, un chiaro riferimento a figure pastorali virgiliane che sembrerebbero riportare a Taranto e al Galeso anche la composizione delle Bucoliche o almeno di parte di esse.
Ecco dunque una scena virgiliana, De Coricio sene, tratta dal Libro IV delle Georgiche e ambientata lungo le rive del Galeso, dove il poeta incontra un vecchio contadino, in una zona che potrebbe corrispondere a quella oggi chiamata Citrezze per la presenza nelle vicinanze di alcune sorgenti d’acqua dolce, detti “citri”:
“…sotto le torri, ricordo, della rocca Ebalia, ove ombroso irriga biondeggianti campi coltivati il Galeso, conobbi il vecchio Coricio, che aveva pochi iugeri di un terreno abbandonato da altri, non fertilizzabile con buoi, non adatto a bestiame per l’erba né comodo a Bacco. Eppure costui, radi fra gli sterpi i legumi e intorno candidi gigli e verbene piantando, e l’esile papavero, pareggiava le ricchezze dei re in cuor suo e rincasando a tarda notte ingombrava la sua mensa di cibi non comprati. Era il primo a cogliere la rosa in primavera, ma anche i frutti in autunno; e quando un fiero inverno ancora col gelo i sassi spezzava, e il ghiaccio arrestava i corsi dell’acqua, egli la chioma del delicato giacinto già recideva, rimproverando la lenta estate e gli zefiri indugianti. Dunque era il primo anche ad abbondare di api feconde e numeroso sciame ed era il primo a raccogliere miele dai favi spremuti; aveva tigli e rigogliosi pini, e il fertile albero di quanti frutti si era rivestito nella nuova fioritura, altrettanti ne possedeva maturi in autunno. Quello anche dispose in filari vecchi olmi, peri ben duri, innestati spini carichi di prugne e il platano che ormai provvedeva all’ombra dei bevitori. Ma io stesso, impedito dal poco spazio qui a disposizione, passerò oltre e lascio che altri facciano menzione di queste cose, dopo di me.”
Vediamo l’interpretazione che l’accademico pugliese Vito Antonio Sirago, esperto di storia romana, dà di questo passo virgiliano:
“Alla prima lettura dell’episodio di Coricio, il vecchio tarantino contento del suo orto che fa fruttificare al massimo grado, senza levar mai lo sguardo al di là dei propri confini, in disegni ambiziosi, può sembrare una fantasia arcadica o, in maggior profondità, l’espressione del senso di evasione che il poeta ha sentito nel suo intimo e ha voluto concretizzare nel concepire quell’episodio di pace e serenità, secondo le aspirazioni del suo cuore. In realtà non dobbiamo allontanarci da questo senso di evasione, per stabilire il motivo lirico dell’episodio e degli episodi tutti delle Georgiche e della ideazione stessa dell’Eneide, con lo scenario dei tempi mitici dell’Italia più antica. Ma resta sempre da chiedersi perché Virgilio abbia scelto per la sua fantasticheria un angolo del territorio tarantino e non un altro dell’Italia, egli che dell’Italia conosceva, e li ha indicati nelle Georgiche, tanti posti degni di rappresentare il suo sognato paradiso terrestre. E qui dobbiamo rifarci alla tradizione preesistente. In Virgilio stesso Taranto è ricordata sempre come un posto di tranquillità e tepore ideale, col suo ubertoso retroterra. La leggenda della ricchezza tarantina risaliva almeno ai primi contatti fra Taranto e Roma, quando, nei racconti più antichi, alla frugalità romana si contrapponeva il lusso e la mollezza tarantina. E di questo lusso, ancor prima dei Romani, parlavano le fonti greche, cui si riconnette perfino la leggenda di Arione (…) Virgilio ha preso dalla tradizione e vi ha infuso la sua anima, le sue aspirazioni: ma ha rispettato il fondo storico perché l’ha ritenuto il più adatto a rappresentare il paradiso terrestre dei suoi sogni, affinché riuscisse ovvia ai lettori la sua rappresentazione. La felicità e serenità del vecchio Coricio, inquadrata nella tradizionale felicità tarantina, è una raffigurazione naturale, di facile comprensione agli intellettuali, già informati delle tradizioni preesistenti. Insomma ci troviamo di fronte a un fenomeno importante nella letteratura antica, ed evidente specialmente in Virgilio: l’influenza del mondo esterno, del folklore sulle stesse creazioni poetiche.” (fonte: wikisource)
Contemporaneo di Virgilio, anche il grande poeta venosino Quinto Orazio Flacco (65-8 a.C-) cita il fiume Galeso in una sua opera. Lo fa nell’Ode 6 A Settimio del II libro delle Odi. Il poeta si augura, se non gli sarà dato di finire i suoi giorni nell’amata Tivoli, di poter andare presso il Galeso tanto caro:
“E se il destino avverso mi terrà lontano [da Tivoli – NdR] , allora cercherò le dolci acque del Galeso caro alle pecore avvolte nelle pelli [l’autore si riferisce qui alla tradizione di rivestire ciascuna pecora con pelli di altri animali, a mo’ di cappottino, per preservarne l’integrità della lana], e gli ubertosi campi che un dì furono di Falanto lo Spartano. Quell’angolo di mondo più d’ogni altro mi sorride, là dove i mieli gareggiano con quelli del monte Imetto e le olive eguagliano quelle della verdeggiante Venafro; dove Giove regala primavere lunghe e tiepidi inverni, e dove Aulone [secondo alcune ipotesi, forse Monte Melone, una piccola altura nei pressi della marina di Pulsano] caro pure a Bacco che tutto feconda, il vino dei vitigni di Falerno non invidia affatto. Quel luogo e i colli felici chiedono che tu ci vada insieme a me; lì tu, con le dovute lacrime, spargerai la cenere calda del tuo amico poeta.”
Rileggiamo la scena avvalendoci ancora una volta delle riflessioni di Vito Antonio Sirago:
“Contemporaneamente a Virgilio, o quasi, anche Orazio ricordava Taranto negli stessi colori e linee della leggenda. Nell’esprimere a Settimio in quale posto vorrebbe passare gli ultimi anni, egli ricorda dapprima Tivoli, ove sorgeva la sua villa, ma subito dopo sceglie Taranto, se Tivoli non gli sarà concessa. Nella descrizione della ricchezza del territorio e del tepore del clima si diffonde per largo tratto, fino alla chiusa dell’ode, tanto che il più delle immagini che colpiscono il lettore riguarda Taranto, e non Tivoli. Anzi a Taranto egli pone il meglio della produzione italica: il suo vino può gareggiare col Falerno e le ulive possono competere finanche con quelle delle immense colline piantate ad uliveti che circondano Venafro” (fonte: wikisource)
Anche il poeta Marco Valerio Marziale (40-104 d.C.) cita il Galeso in alcuni dei ben 17 passi dei suoi celebri Epigrammi Libri XV, in cui vi sono accenni a luoghi, persone o cose di Puglia. Tanti i riferimenti alla lana, dato che la regione fin dai tempi più remoti fu, per abbondanza di pascoli e mitezza di clima, molto adatta all’allevamento delle greggi. Canosa e Taranto erano i luoghi che primeggiavano in materia di produzione della lana, e a Taranto pascevano le pellitae oves ricordate nella bella ode oraziana.
Nell’epigramma XXVIII del Libro VIII, l’autore chiama in causa Partenio, favorito di Domiziano e poeta anch’egli, ma più fortunato quanto ad agiatezza dello stesso Marziale, costretto a mendicare ora la veste, ora un invito a pranzo, ora l’amore di allegre fanciulle; Partenio gli aveva regalato una magnifica toga, diventata ormai vecchia, e a questa Marziale così si rivolge con licenza poetica: “Dimmi, o toga, dono a me gradito del generoso amico,di quale gregge vuoi tu essere onore e fama? A te fiorirono i pugliesi prati del Ledeo Falanto, dove il Galeso i campi sazia con calabra onda?…[il Salento anticamente si chiamava Calabria – NdR]”. In altri quattro punti ritorna il Galeso che, com’è noto, gli antichi credevano avesse, al pari dello spagnolo Baetis e dell’umbro Clitunno, la proprietà di rendere più candide le lane delle greggi che vi si bagnavano. Fra questi ricordiamo l’epigramma 43° del Libro II, nel quale Marziale prende di mira un certo Candido che sguazzava nelle ricchezze e non dava nulla agli amici, e a lui chiede: “A vestirti è una toga lavata nel Lacedemonio Galeso, o quella che di un scelto gregge produsse Parma…?” Nell’epigramma 28 del Libro IV protagonista è una certa Cloe in intima relazione con il giovane Luperco, e a lei chiede: “Donasti, o Cloe, al tenero Luperco mantelli spagnoli e tirii tinti con la cocciniglia, e una toga lavata nel tiepido Galeso, e sardonici indiani, e smeraldi sciitici…”. Nell’epigramma 37 del Libro V, Marziale ricorda invece con tenero affetto la piccola schiava dal dolce nome di Erotion, nata nella sua casa e morta a sei anni non ancora compiuti: “Bimba più dolce a me di vecchi cigni, più morbida d’una agnella del Galeso Falantino, più delicata della conca del Lucrino…”
Il Galeso fu poi celebre per gli accampamenti che vi stabili Annibale, allorché aspettava la resa della rocca Tarantina. “Profectus cum caeteris copiis ad Galaesum flumen, quod abest quinque milita ab urbe, posuit castra”: così scrive lo storico Tito Livio (59 a.C. – 17 d.C.) che in questo passo della sua “Storia di Roma” fu preciso nel descrivere la distanza di questo fiume da Taranto. Esso difatti, com’è noto, scorre al nord della città nella notata distanza, e dopo brevissimo corso si perde nel Mar Piccolo, ossia nel porto interno di Taranto. L’episodio è confermato dallo storico greco Polibio (205- 125/120 a.C): costui nel Libro VIII, 35 delle sue “ Storie” narra di Annibale che nel corso della seconda guerra punica tra Roma e Cartagine, giunge con il suo esercito a Taranto nel 207 a.C. e, avendo “lasciato sufficiente numero di soldati e i necessari cavalli a guardia della città e a difesa del mare, pose gli accampamenti in un luogo discosto dalla città quaranta stadi, presso il fiume chiamato da alcuni “Galeso” ma dalla maggior parte “Eurota” [come quello] che bagna la Laconia e corre presso Sparta: ed ha molta somiglianza la campagna e la città dei Lacedémoni, con quella dei Tarentini, perciocché questi sono, a detta di tutti, coloni ed anche congiunti di sangue dei primi”
Fra gli autori antichi il Galeso è stato poi cantato anche dal poeta Claudio Claudiano (370-404 d.C.), mentre in secoli più recenti le sue acque hanno ispirato autori come Iacopo Sannazzaro (1457-1530) che nelle sue Elegie (Libro III, I, 73-74) scrive: “(…) E subito andrai di là a segnare i confini delle terre salentine per dove il Galeso bagna con la sua acqua gli ebalici (tarantini) campi fecondi…”; o come Angelo Poliziano (1454-1494) poeta umanista toscano che al v. 110 di Manta (del 1482), una delle sue 4 Sylvae in latino, così lo cita: “Già risuonano, o Titiro, i boschi di pini del falanteo Galeso, mentre tu ne ascolti il mormorio nel vuoto antro, e già le amabili selve decantano la tua Amarilli“; oppure infine Ludovico Ariosto (1474-1533) che nel suo Orlando Furioso (1531) nomina il Galeso nel Canto 31, 58.
Il tarantino Tommaso Niccolò D’Aquino (1665-1721) nelle sue Deliciae Tarantinae, pubblicate postume nel 1771 dall’umanista Cataldantonio Artenisio Calducci, scrive:
“…Qui tuttavia prenderò a cantare cose mirabili,
dirò dei nicchi neri tarantini il cui seme,
dono del Cielo, insegnò ad un tizio del luogo
il Galeso che i campi coltivati bagna
nel suo breve percorso, un dio che
quelle acque presiede…
…E repentinamente quel dio ad Antigene che molto
teme e che ha paura così gli parla: ‘O pescatore
Antigene non andare via; io sono il Dio
del fiume; io sono che rendo, con le onde,
sempre più ubertosi i campi che bagna il Galeso.’
Giovanni Pascoli nel testo latino Senex Corycius (1902, dal Liber de poetis), ispirandosi all’episodio virgiliano del vecchio contadino che aveva i suoi orti nei pressi del Galeso, scrive:
“…Vide un’ape Virgilio quando fra sé e sé rattristato
diceva: “È questo dunque, Taranto, il tuo inverno tiepido? È
questo l’angolo che sopra ogni altra terra a me sorride? È
questo il dolce fiume Galeso, ora sbarrato dal gelo? …”
Infine, in tempi ancora a noi più vicini, lo cantò Adolfo Gandiglio (1876-1931), allievo di Giovanni Pascoli, in Prope Galaesum (ed. Zanichelli, Bologna), componimento che vinse la Magna Laus nel Certame poetico Hoeufftiano di Amsterdam rispettivamente nel 1913 e nel 1928:
“…Di lontano brillano di contorno al sole
le torri di Taranto sopra la pineta del
Galeso che di luci risplende.”
(E.G.)
B I B L I O G R A F I A
-Orazio, “I Carmi”, Felice Le Monnier, Firenze, 1965, XVII edizione.
-Pausania, “Periegesi della Grecia”, Libro X, Classici della BUR, Milano, 1997, 2a ed.
-Tito Livio, Storia di Roma, Mondadori 2007
-Polibio, “Le Storie”, U.T.E.T., Torino, 1885.
– D’Aquino N.T., “Delle delizie Tarantine”, Raimondiana, Napoli 1771.
-Giovanni Pascoli, “Poesie Latine”, a.c. di M. Manara Valgimigli, Milano 1970.
-Adolfo Gandiglio, “Presso il Galeso”(“Prope Galesum”), a cura di Paolo De Stefano, Scorpione Editrice, Taranto, 1993.
-Andrea Martini, “Breve storia di Taranto”, Jonica editrice, Taranto,1969
-Antonio Rizzo, da la “Voce del Popolo”, anno LXXXVIII, n.14, 10 aprile 1971
-De Vincentiis D. L., “Storia di Taranto”, presentazione di Cosimo Damiano Fonseca, Mandese Editore, Taranto, 1983
-Hooker J.T., “Gli Spartani”, Bompiani, Milano, 1984
-Paolo De Stefano, “Il Galeso nella poesia latina”, PR.A.SS.I. s.r.l., Taranto, 1999
-Nicola Gigante, “Dizionario della Parlata Tarantina”, Mandese editore, Taranto 2002
-Felice Presicci, “Falanto e i Parteni”, Pietro Lacaita Editore, Manduria (Taranto), 1990
-“La città antica di Taranto”, Mandese Editore, Martina Franca (Ta), 1989.