“Qui lavate le mani, ovunque la coscienza”
Un amore finito è un santuario sconsacrato, mi viene da pensare quando vedo i battenti di una chiesa a lungo serrati. Inaspettatamente un pomeriggio la Chiesa di S. Rocco è aperta e riconosco nel sacrestano che armeggia con un mazzo di chiavi sulla soglia l’occasione per conquistarmi un accesso privilegiato. Non ricordo più com’è fatto l’interno, né perché il prospetto appaia monco, come se la navata sinistra sia stata sacrificata e inglobata dall’imponente edificio contiguo: sono motivi sufficienti per suscitare nella cortese guida il compiacimento di rendermi partecipe delle sue conoscenze e di appagare le mie curiosità.
La facciata, moderna e spoglia, è il risultato di un radicale rifacimento del 1937-38, e l’interno è buio e con vistose tracce di umido, percepibili anche all’olfatto. Le tele sugli altari di destra sono poco visibili e la mia guida preferisce che mi soffermi a contemplare un gruppo statuario di cartapesta della Madonna bambina e S. Anna, commissionato a Lecce dalle Suore di S. Anna che facevano assistenza ai degenti, quando lì accanto c’era l’Ospedale. Si appresta a farmi visitare il giardino, così che conservi un’immagine meno cupa della chiesa, a cui tanto tiene. Ma prima ha in serbo una sorpresa: una fontana – così la chiama – di ceramica dipinta. Ci riesce a sorprendermi, eccome. Mentre scatto alcune foto, ho la certezza di avere dinanzi un prezioso gioiello di maiolica laertina rimasto in situ.
È un raro retablo di maiolica lo spettacolare Lavabo della sacrestia della Chiesa di S. Rocco di Matera. L’eco della cultura e della sensibilità artistica spagnola raggiunge la Terra d’Otranto, dove si reinterpreta l’impiego vivacemente cromatico degli azulejos e la sintassi compositiva del re(tro)abulum altaris polittico, costituito da tavole dipinte, incorniciate da scomparti lignei intarsiati, che realizzavano un insieme decorativo tridimensionale di sicuro effetto scenografico.
Ripercorro a ritroso la storia del contesto monumentale in cui è collocato il pregevole manufatto, attraverso le tappe della destinazione d’uso dell’antico complesso conventuale di S. Rocco. Si affaccia sulla Piazza S. Giovanni Battista il frontale della Chiesa di S. Rocco, con l’imponente edificio contiguo, oggi destinato a una delle sedi dell’Università degli Studi di Basilicata, dopo i recenti lavori di consolidamento e restauro. Negli anni ’90 accoglie il Liceo Artistico Statale; dal 1962 al 1987 ospita la Biblioteca Provinciale e il Provveditorato agli Studi; fino al 1961 Ospedale civile, dopo il rifacimento della struttura e l’adeguamento alle funzioni di un moderno nosocomio, inaugurati durante la visita del 1926 di Vittorio Emanuele III e completati negli anni 1929-1934, su progetto dell’ing. De Martino, cui si deve l’elevazione di due piani della struttura coincidente con l’antico chiostro del convento secentesco preesistente e l’ampliamento delle pertinenze con la sistemazione di un giardino nella zona retrostante la chiesa, tuttora esistente. Sin dagli ultimi decenni del sec. XIX, torna a fungere da Ospedale, con una capienza limitata a dodici letti, sotto l’amministrazione della Congregazione di Carità, che tanto si era prodigata negli anni della prima guerra mondiale.
In quegli anni di partenze e dolorosi lutti, proprio nella Chiesa di S. Rocco è collocata la statua veneratissima di S. Espedito, in veste di guerriero, protettore dei soldati spediti al fronte, presto rimossa perché il culto del santo, non incluso nel Martirologio romano, non era riconosciuto dalla Santa Sede (M. Morelli, Storia di Matera, 1971, p.282-3). Mentre da un lato la devozione e la frequentazione della Chiesa non subisce interruzione, soprattutto per la presenza prima di un celebre quadro di S. Anna, poi di una statua di cartapesta, eseguita a Lecce su committenza delle Suore di S. Anna, oggetto di culto fervido e costante da parte delle donne non ancora madri, il Convento dei Padri Osservanti Riformati Francescani viene soppresso il 25 gennaio 1865, dopo che la comunità religiosa vi aveva dimorato per oltre duecentocinquanta anni. In quella occasione p. Luigi Cifarelli da Matera riuscì a salvare dalla dispersione parte dei documenti conventuali (B. F. Perrone, I Conventi della Serafica Riforma di S. Nicolò in Puglia (1590-1835), Galatina 1981, v. III, Matera- S. Rocco, p. 24-37).
I frati minori nel 1702 promuovono una ricostruzione dalle fondamenta della Chiesa di S. Rocco, ormai tanto danneggiata da rischiare il crollo. I documenti non registrano il nome del progettista, probabilmente lo stesso della Chiesa di S. Rocco di Santeramo in Colle, di cui ripropone il disegno a pianta quadrata a due navate, tre cappelle e nove altari con tele e statue venerate, tra cui un S. Eustachio, protettore della città (F. P. Volpe, Memorie storiche profane e religiose sulla città di Matera, 1818, rist.anast. 1979, pp. 244-248). La cultura cattolica controriformata aveva inciso profondamente e trasformato gli assi di crescita urbana, costellando il perimetro poligonale della città di aree conventuali.
Per restare solo in ambito francescano, la rete dei due conventi dei Frati Conventuali e dei Frati Cappuccini si completa con l’arrivo dei Frati Minori Riformati, che nel 1604 s’insediano nelle pertinenze dell’antico Ospedale dei Pellegrini e degli Infermi e della Chiesa di S. Rocco, entrambi eretti in occasione della peste del 1348, come segno di gratitudine del popolo, ad opera dell’Università, che ne deteneva lo jus patronatus. Nel contratto del notaio Flaminio D’Ercole del 23 ottobre 1604, i governatori, a nome della città di Matera, cedono al commissario p. Luigi di S. Pietro di Galatina “Ecclesiam ipsius Universitatis sub vocabulo Sancti Rocci, sitam in Civitate Matherae in Saxo Barisano in plano Sancti Blasij, et Sanctae Mariae de Nova”, dotata di suolo edificatorio “cum iardeno, et alijs necessarijs”. L’Università pone la condizione che il numero dei frati non divenga inferiore a dodici e rappresenti per la comunità cittadina un Convento Provinciale, sede di Studio. In quegli ambienti gli Osservanti Riformati eserciteranno, infatti, attività di insegnamento di Teologia con due Lettori, in qualità di docenti. La consegna della sede del trecentesco complesso di S. Rocco ai frati minori, pone il problema di edificare un altro in zona: nel 1610, sulle rovine del monastero delle monache di Santa Maria delle Nove, contiguo alla Chiesa Parrocchiale di S. Giovanni Battista, s’inaugura il nuovo Ospedale di S. Rocco.
Complemento dell’arredo liturgico, come specifica la denominazione, derivata da un versetto dei Salmi, 25, 6 (Lavabo inter innocentes manus meas, “Laverò tra gli innocenti le mie mani”), il Lavabo materano di S. Rocco ha assolto alla funzione di fonte lustrale per le abluzioni del clero, propedeutiche ad ogni atto liturgico. Tra i numerosi esempi di lavabi artistici nei chiostri e nelle chiese italiane del Rinascimento e del Barocco, il pensiero corre al lavabo di maiolica di Giovanni della Robbia nella sacrestia di S. Maria Novella a Firenze, con il quale il nostro non ha punti di contatto, mentre risultano più vicine le ascendenze spagnole, in special modo favorite e veicolate dai Padri Riformati.
La struttura muraria della nicchia dove è collocato il Lavabo, ubicata sulla parete perimetrale sinistra della sacrestia della chiesa, richiama la tipologia dell’armadio delle reliquie, la lipsanoteca: il lavabo presenta strombature laterali poco accentuate ed è incorniciato da stipiti modanati; le pareti interne sono rivestite di piastrelle attribuite da Guido Donatone (Un’opera di cultura controriformata: il lavabo maiolicato della Chiesa di S. Rocco in Matera, in “Quaderno”, 1996, p.13-32) alle fornaci di Laterza. Lo studioso riconosce per la sua unicità le mani di un “Maestro del Lavabo di S. Rocco”, che realizza nel 1633 il manufatto intitolato al Santissimo Sacramento, come si legge nel riquadro centrale raffigurante l’ostensorio e, all’interno del medaglione, la scena della Crocifissione, intorno a cui corre la dedica “Sia laudato il Santissimo Sacramento Anno D(omini) MDCXXXIII”, tra Gesù e la Madonna. Sul prospetto si contano nove riquadri: nell’ordine superiore ritratti di santi con la mitra affiancano uno stemma araldico, probabilmente del committente; nell’ordine inferiore tra due medaglioni con santi francescani si legge l’invito rivolto al celebrante nell’imminenza del suo ufficio sacro “Hic manus lavate / co(n)scientia(m) ubique” (qui lavate le mani, ovunque la coscienza), mentre lungo le superfici laterali si fronteggiano sei ritratti di santi e sante appartenenti all’Ordine francescano.
L’opera, realizzata da piastrelle quadrate di circa 12 cm, pur nella sua semplicità strutturale, ha un deciso impatto cromatico e scenografico, sintatticamente vicino ai retablos di azulejos spagnoli, come quello coevo di San Juan de Sehagùn, del Convento di Santa Marìa del Pòpulo di Siviglia. Guido Donatone (La ceramica di Laterza nella Collezione Tondolo, Catalogo della Mostra, Galatina, 2015, pp. 11-14) sostiene che il Lavabo risponde a un preciso programma iconografico molto probabilmente redatto dal Frate Riformato Francesco da Martina Franca, attivo fino al 1643 nei più importanti centri religiosi del suo Ordine, autore, tra l’altro, nella stessa chiesa, della pala con l’Annunciazione e della tela con S. Anna, datata 1629. Pittore celebre in area ionica, alla sua scuola si deve la formazione di tre pittori laici, che vi appresero le tecniche della prospettiva. Dal Volpe (op.cit., p. 66) apprendiamo che una fervida attività artistica era alimentata dai frati: “istoriche dipinture” fregiavano le mura del cortile del Convento, ai piedi delle quali “ci restano le spiritose massime” di Giovanni Baccaro, sacerdote di S. Pietro Barisano, professore di Belle Lettere nel Seminario cittadino, “dolce, vivo ed elegante versificatore”.
Il Lavabo di maiolica non è l’unico manufatto laertino conservato in situ a Matera. In una abitazione secentesca a corte, in Via S. Rocco nel Sasso Barisano, sulla chiave di volta di un ambiente è murata una targa di censo nello stile istoriato laertino su fondo bianco, contrassegnata in alto dalla datazione in cifre arabe “1668” e, in basso, dal nome e qualifica del committente, un ecclesiastico cui si attribuisce l’abitazione, dipinti in caratteri maiuscoli con abbreviazioni e legature: “Abbas Nicolaus Barberius a Latertia”. Si tratta dello stemma appartenuto probabilmente ad uno degli Abati della vicina Parrocchia di S. Pietro Barisano, in cui figura l’emblema di un leone rampante su tre colli, in atto di levare la spada vittoriosa con cui ha tagliato una testa umana, al centro di uno scudo sormontato da angeli ai lati di una mitra e circondato da tralci e grappoli d’uva. Ai fini dello studio della produzione delle fornaci di Laterza gli esemplari materani hanno il duplice valore aggiunto della datazione e della permanenza nel contesto per cui sono stati realizzati.
© RIPRODUZIONE RISERVATA