Molti anni fa, nel percorrere i fitti e scoscesi boschi della media valle del fiume Lese, mi capitò di imbattermi in una bizzarra creatura arborea. Un secolare Carpino nero (Ostrya carpinifolia) dalle strane forme, dominava una scarpata all’interno di una fitta foresta di caducifoglie, dove mi ero portato per cercare uno dei più temuti predatori alati delle selve silane: l’Astore (Accipiter gentilis). Ciò che mi colpì più di ogni altra cosa, furono i fusti della pianta, incredibilmente intessuti di pietre della più svariata forma e dimensione.
Con sontuosa delicatezza, quei massi si erano conficcati e amalgamati all’interno del legno al punto tale che nessuna sofferenza sembrava trasparire da parte dell’albero. La vecchia pianta, ricoperta di muschi e licheni, rappresentava una sorta di baluardo in uno degli ultimi lembi del Parco Nazionale della Sila, situato al confine tra le province di Cosenza e di Crotone. Durante le mie tante scarpinate per monti e per valli della Sila non avevo mai visto niente di simile. Per ore rimasi ammaliato dalla forza e dalla dignità suprema di quella creatura.
Nel silenzio e nella riflessione a cui invita il luogo, ho cercato a lungo di trovare una risposta ai miei interrogativi, convincendomi alla fine che non sempre c’è un perché ai misteri della natura. Quel vecchio Carpino era nato tanti anni prima, elevandosi faticosamente da una densa sassaia. Aveva inghiottito le tante pietre della scarpata e mi chiedevo se fosse stato un fatto necessario all’ecosistema del bosco oppure se quell’albero, in una sorta di mitica metamorfosi, avesse voluto quasi crearsi uno scudo, mutandosi in un “guerriero” a difesa della foresta.
Conclusi che fossero semplicemente ammirevoli la tenacia e la pazienza che aveva impiegato nei secoli per superare innumerevoli difficoltà come siccità, gelo, vento e le tante minacce umane tipiche del nostro tempo, offrendoci un chiaro e grande esempio della forza suprema di Madre Natura. Un religioso silenzio accompagna ancora oggi quel bosco appartato, l’albero “mangia-pietre” è ancora lì e domina la valle sembrando osservare scrupoloso ogni evento e proteggere la foresta con audacia. Forse la vera funzione dell’albero che mangia le pietre è quella di essere un faro per illuminare l’unica strada percorribile da noi umani, ossia nient’altro che quella del rispetto verso la natura. Khalil Gibran diceva: “Gli alberi sono liriche che la terra scrive sul cielo. Noi li abbattiamo e li trasformiamo in carta per potervi registrare, invece, la nostra vacuità”:chissà il vecchio albero “mangia-pietre” quante storie ci potrebbe raccontare e quante cose saprebbe insegnarci, se solo ci impegnassimo a entrare in armonia con tutto ciò che ci circonda e a comprendere il legame ancestrale che da sempre intercorre tra l’uomo e la natura. Che il cielo possa assicurare a questa magnifica e misteriosa creatura la pace e la forza necessarie per continuare a essere un simbolo di resistenza contro le asperità della vita.
Gianluca Congi *
*Ornitologo e coordinatore del Gruppo Locale di Conservazione-Sila; noto appassionato e divulgatore di tematiche legate alla natura, conduce da tanti anni osservazioni e ricerche in particolare sull’avifauna del territorio calabrese e silano ed è organico in numerosi gruppi di ricerca. Oggi presta servizio per la difesa del territorio nel Corpo della Polizia Provinciale di Cosenza.
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Leggere Gianluca Congi è come leggere un’enciclopedia aperta ma allo stesso tempo introvabile se non fosse per la sua volontà di fare conoscere i misteri della natura della Sila. L’amore e la passione di questo grande giovane studioso non ha eguali. Grazie per queste note di poesia e per il profondo messaggio che si cela dietro, il rispetto per la natura deve essere davvero la nostra priorità.