di Kasia Burney Gargiulo
Lo scorso agosto ci siamo occupati di quella che si prospettava come una delle notizie più eclatanti della “stagione” archeologica 2015, ossia il ritrovamento in Sicilia di un monolito lavorato di 12 metri di lunghezza e 15 tonnellate di peso, con fori regolari su alcuni dei suoi lati ed un foro che lo attraversa per intero. Il reperto è stato ritenuto testimonianza della presenza e delle abilità tecniche di antiche popolazioni nella zona sud occidentale dell’isola intorno a 9500 anni fa, quando il livello globale del mare era più basso di oltre 40 metri, profondità alla quale il reperto si trova oggi adagiato. Ad occuparsene è stato uno studio effettuato da Emanuele Lodolo, ricercatore dell’OGS (Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale, con sede a Trieste) e Zvi Ben-Abraham, professore di scienze della terra all’Università di Tel Aviv, e pubblicato di recente sul Journal of Archaeological Science: Reports. Nello studio si parla di un arcipelago di isole che già nel Mesolitico furono abitate e che fino a circa 9000 anni fa costellavano il settore nord-occidentale del Canale di Sicilia facendo da “ponte” tra le coste della Sicilia e l’Isola di Pantelleria (Trapani): sarebbe questo il territorio abitato dal popolo ritenuto autore del monolito sommerso. Ad un mese dalla divulgazione della notizia che ha fatto il giro del mondo, ci è giunta in redazione una nota stampa firmata da tre noti studiosi italiani, i quali contestano l’interpretazione che gli autori del citato studio hanno dato dell’oggetto litico e sostengono che esso sia di origine naturale. Ovviamente il tutto viene argomentato in chiave scientifica e non è da escludere che intorno al misterioso reperto finirà presto con aprirsi una vera e propria querelle fra scienziati.
Ecco di seguito la lunga e dettagliata nota intitolata Il presunto “monolite mesolitico” dello Stretto di Sicilia a firma di Sebastiano Tusa, Paletnologo e Soprintendente del Mare della regione Siciliana, Fabrizio Antonioli, geomorfologo e Dirigente di Ricerca Enea, e Marco Anzidei, geofisico e Primo Ricercatore INGV (nelle foto seguenti):
“A proposito della notizia riportata da alcune agenzie e organi di stampa sulla presunta scoperta di un “monolite” attribuito ad opera umana e datato all’epoca mesolitica (ca 9000 anni fa) sul fondo del mare presso il Banco di Pantelleria a ca m 30-40 di profondità, è bene fare alcune considerazioni chiarificatrici sulla base di quanto riportato dagli Autori nell’articolo pubblicato sul Journal of Archaeological Science 3 (2015), alle pp.398-407, ad opera di Emanuele Lodolo e Zvi Ben-Avraham, dal titolo “A submerged monolith in the Sicilian Channel (central Mediterranean Sea): Evidence for Mesolithic activity”.
Gli Autori asseriscono che il “monolite” non sia una formazione naturale, ma artificiale, creato dall’uomo circa 9500 anni fa. Gli elementi su cui si basano le loro interpretazioni sono:
– la forma regolare;
– la presenza di tre fori regolari di diametro simile che lo attraversano superiormente e lateralmente, di origine umana in quanto non sono noti processi naturali capaci di creare tali fori;
– roccia differente dal contesto e posizione quasi isolata;
– datazione della roccia simile a quella del vicino ridge che chiude la baia.
Quindi, concludono gli autori, la presenza del “monolite” suggerisce che circa 9500 anni fa esisteva una estensiva attività umana capace di estrarre un singolo blocco roccioso rettilineo e di trasportarlo a circa 300 m dalla zona di supposta estrazione per poi porlo possibilmente in posizione eretta.
Al di la delle notizie stampa, al fine di valutare la presunta scoperta del “monolite” in seguito alla lettura dell’articolo in oggetto e sulla base dello stato dell’arte delle conoscenze archeologiche e geologiche, si è giunti, invece, alla conclusione che il presunto “monolite” non sia da attribuire ad opera umana. Bensì sia il prodotto di una formazione naturale ben nota nel Mediterraneo e definita dai geologi “beachrock”. Tali formazioni sono tipiche di ambiente litorale e spesso si staccano dal bacino roccioso di origine per effetto dell’erosione costiera, depositandosi nel mare Mediterraneo tra +1 e -5 metri rispetto alla linea di costa (sono note e datate fino alla profondità di 60 metri in Sardegna, Turchia, Sicilia, Grecia, Croazia e Liguria). Queste si formano spesso su coste sabbiose, le quali cedendo ne favoriscono la frammentazione, anche nella forma di apparenti monoliti.
Pur ammettendo che il fondale in questione sia stato emerso in quel periodo il presunto manufatto è, anche per le sue caratteristiche morfologiche, non attribuibile ad opera umana. Sia la forma arcuata, sia la morfologia degli spigoli, sia il contesto escludono una sua attribuzione ad opera umana. Inoltre anche il foro descritto nel suddetto articolo come opera dell’uomo è del tutto naturale. Simili fori, ancorché molto regolari, sono comuni in molteplici formazioni rocciose e sono l’effetto di erosione naturale. Non è quindi corrispondente alla casistica quando gli Autori asseriscono che “non sono noti processi naturali capaci di creare tali fori”. Ad es., fori perfettamente cilindrici, lunghi anche oltre 5 m e di sezione compatibile con quelle mostrate, si rinvengono in gran numero lungo le coste del Mar Nero, su litologie simili a quella del “monolite” (ad es vedi Erginal, A.E., Kiyak, N.G., Ekinci, Y.L., Demirci, A., Ertek, T.A., Canel, T., 2013. Age, Composition and paleoenvironmental significance of a Late Pleistocene eolianite from the western Black Sea coast of Turkey. Quaternary International, 296: 168-175). Tali morfologie sono create dall’azione di piante capaci di dissolvere rocce calcaree, in ambiente subaereo e in presenza di acqua.
Pur ammettendo, in conclusione, che è probabile che in quella zona potessero essere presenti tracce della presenza umana in epoca preistorica non è questo il caso poiché le caratteristiche dell’oggetto e l’assenza di un contesto antropizzato plausibile di riferimento escludono la sua natura di manufatto. Al contrario confermano la sua naturalità.
Inoltre c’è da considerare il contesto geografico più generale entro cui tale presunta scoperta si collocherebbe. Chi conosce la preistoria maghrebina e siciliana sa che il megalitismo ebbe poca incidenza negli sviluppi culturali rispettivi. In Sicilia la religiosità dei popoli pre- e protostorici fu sempre legata all’ipogeismo che ha generato per millenni una ricca produzione architettonica rupestre costituita dall’evoluzione della tomba a grotticella scavata nella roccia nelle sua svariate forme ed articolazioni. L’unico episodio megalitico è da collegare con l’arrivo del popolo del Bicchiere Campaniforme dalla Sardegna che avviene sul finire del III millennio a.C., pertanto ben lungi dal mesolitico cui si riferirebbe il presunto “monolite” dello Stretto di Sicilia. Anche in Nord-Africa, nelle odierne Tunisia, Libia e Algeria il fenomeno megalitico è marginale e, comunque, tardo riferendosi al III, II ed addirittura I millennio a.C. Situazione diversa si verifica in Sardegna dove il fenomeno è molto diffuso, ma comunque risalente ad un epoca non anteriore al IV-III millennio a.C. Anche i confronti con la vicina Malta non reggono per una chiara contraddizione cronologica. La nascita del fenomeno megalitico maltese inizia nel IV millennio a.C., anche in questo caso ben lungi dal mesolitico.
Gli autori mettono in relazione il presunto “monolite” con il fantastico monumento megalitico di Gobekli tepe (Turchia sud orientale, provincia di Sanliurfa). In effetti la datazione del complesso megalitico di Gobekli tepe è pressoché contemporanea con quella del presunto “monolite” dello Stretto di Sicilia poiché collocabile intorno a 9500 anni a.C., pertanto addirittura precedente di oltre 2000 anni. Tuttavia è bene ribadire che il contesto geografico di riferimento è completamente diverso trovandoci già in alta Mesopotamia dove le dinamiche culturali sono state sempre completamente diverse da quelle mediterranee. E’ assolutamente errato metodologicamente, pertanto, confrontare dinamiche storiche lontane ed indipendenti per giustificare presunte presenze di manufatti assolutamente ingiustificabili nel loro corretto contesto geografico di riferimento.
Per quanto riguarda le datazioni al radiocarbonio del presunto “monolite”, queste risultano chiaramente ai limiti del metodo. Inoltre gli Autori indicano dati già calibrati (tra 44 e 37 anni cal BP), sebbene nel testo riportino anni BP, creando confusione nel lettore. E’ prassi normale che la data al radiocarbonio, quando molto più antica dei limiti del metodo, dia questi risultati. A nostro parere sarebbe stato meglio effettuare datazioni sui gusci di conchiglia, sebbene si tratti di piccoli dettagli.
Sulla base della profondità alla quale è stato rinvenuto il frammento roccioso, in assenza di dati archeologici oggettivi, gli autori lo attribuiscono al periodo Mesolitico. Questi non si pongono il problema che il “monolite” possa essere di origine naturale e non effettuano alcuna considerazione sulla geomorfologia del sito e sulle variazioni di livello del mare in atto 9500 anni fa. Si deve tenere presente che le coste dei mari del nord (Danimarca, Olanda, Estonia, Svezia, Germania) presentano molti siti costieri di epoca mesolitica che si trovano oggi a profondità comprese tra 5 e 3 metri, a causa dei movimenti isostatici dovuti al sollevamento della piattaforma continentale in seguito allo scioglimento della calotta glaciale che ha coperto interamente quei mari durante l’ultimo periodo glaciale (circa ventimila anni fa). Al contrario, il mare Mediterraneo non è oggetto di tali sollevamenti, ma di subsidenza causata dallo stesso fenomeno. Pertanto le paleolinee di riva Mesolitiche si trovano oggi sommerse tra 50 e 45 metri di profondità. Nel Mesolitico e per tutto il Neolitico (7 mila anni fa) il mare si sollevava per lo scioglimento dei ghiacci a velocità altissime: fino a 2, 3 metri al secolo, allagando rapidamente tutte le coste basse e impedendo di fatto insediamenti costieri stabili. E’ per questo motivo che nel Mediterraneo non sono stati ancora rinvenuti insediamenti Mesolitici costieri.
Infine, osservando la posizione geografica del “monolite” nello Stretto di Sicilia, come descritto dagli Autori nel lavoro, si nota come il sito indagato fosse una sorta di isolotto (in un’area che oggi raggiunge i -130 metri). Nel periodo Mesolitico era quindi separata dalla terraferma e, nel caso fossa stato antropizzato, doveva essere raggiungibile con imbarcazioni. Si ricorda che i primi eventi di navigazione nel mediterraneo vengono fatti risalire solo al successivo periodo neolitico. Sicuramente molti ponti continentali avvicinavano la Sicilia, la Sardegna ed altre grandi isole mediterranee al continente europeo ed africano, ma la rapidità con il quale il mare risaliva ed allagava le coste dovrebbe avere impedito la costituzione di siti costieri stabili.
Circa il fatto che possa esistere una debole differenziazione litologica tra la roccia costituente il “monolite” e quella costituente le aree prossimali, si può ragionevolmente ritenere che ciò rientri nella variabilità della composizione delle unità geologiche all’atto della loro formazione, come si può osservare in molte zone della terra.
Per quanto riguarda il computo sulla variazione del livello marino durante gli ultimi 10.000 anni, gli Autori citano correttamente i risultati della pubblicazione di Lambeck and Purcell (2005). Tuttavia valutano in maniera erronea gli effetti causati dalla tettonica verticale che può avere prodotto valori diversi di variazione locale di livello marino da quelli indicati da Lambeck and Purcell (2005), i quali non trattano questo effetto nei loro calcoli visto che il loro studio si concentra solamente sugli effetti conseguenti la deglaciazione seguente l’ultimo massimo glaciale (circa 20.000 anni fa).
Infatti gli Autori tentano di correggere le loro osservazioni batimetriche per i movimenti verticali della crosta terrestre per gli ultimi anni (citando Serpelloni et al., 2005). Si riferiscono alle conoscenze per aree lontane da quelle indagate (isole Egadi e Sicilia occidentale), non rappresentative dell’area in studio, la quale si trova in prossimità dell’isola di Pantelleria, caratterizzata da vulcanismo attivo. Quindi anche la datazione del “monolite”, fatta sulla base della posizione prevista dal modello di Lambeck and Purcell (2005), è approssimativa e quindi decade anche in mancanza di vere evidenze archeologiche.
In sintesi, dunque, molteplici considerazioni sia di ordine squisitamente geologico, sia intrinseche alle caratteristiche morfologiche dell’oggetto, sia inerenti il contesto immediato di giacitura, sia in riferimento al contesto cronologico e geografico più vasto, ci portano alla naturale conclusione che non trattasi di manufatto, bensì di prodotto naturale.
Purtroppo tale svista è dovuta al fatto che la ricerca cui fa riferimento il summenzionato articolo e le notizie stampa derivate sono state prodotte senza alcun riscontro da parte di specialisti del settore archeologico. Si auspica che in futuro siffatte interessanti e utili ricerche vengano effettuate con maggiore accuratezza scientifica in un’ottica di sano e indispensabile confronto tra specialisti dei settori disciplinari di riferimento.”