di Redazione FdS
“Gli alberi ci nutrono, ci coprono, ci difendono, ci ispirano”, scrive saggiamente Tiziano Fratus, moderno cantore di foreste e alberi monumentali, o ”dendrosofo” come ama definirsi; ma per parlarvi di un albero ”speciale”, proprio in questi giorni candidato per l’Italia al concorso europeo Tree of the Year, la citazione che ci viene innanzitutto in mente è “gli alberi fermano il tempo” del compianto scrittore e ambientalista britannico Roger Stuart Deakin. E in effetti il tempo sembra essere una dimensione trascurabile per il grande platano (Platanus orientalis) che da almeno 1000 anni svetta a Curinga (Catanzaro), in località Vrisi, al centro di un fertilissimo territorio che dalle falde delle Preserre catanzaresi occidentali (Monte Contessa, metri 881 s.l.m.) digrada dolcemente ad ovest verso il litorale tirrenico. La sua specie è tipica dell’Asia Occidentale e del Mediterraneo orientale, ma da tempo ormai immemorabile si è ambientato anche nell’Italia meridionale fino alla Sicilia. L’esemplare di Curinga, nella sua unicità, ha l’aspetto di una monumentale scultura vegetale che sfruttando la felice esposizione e la straordinaria ricchezza di acque del territorio in cui cresce, ha raggiunto l’altezza di 31,5 m. per una circonferenza di 14,75 m. e un’età stimata di mille anni. Il tronco presenta un’ampia cavità la cui apertura è larga più di 3 metri e sulle cui pareti alcune carie hanno prodotto delle finestrelle naturali. Tali caratteristiche – accertate con misurazioni scientifiche in treeclimbing dalla fondazione friulana GTF (Giant Trees Foundation) lo scorso 28 gennaio 2021 – lo rendono il Platano più grande e più vecchio d’Italia.
Legato molto probabilmente alla storia di questo patriarca verde è quella del Cenobio di S. Elia Vecchio, uno dei più interessanti complessi dell’architettura monastica calabrese. L’edificio è ciò che resta di un eremo con chiesa annessa sorto nel luogo dove si ritiene sia esistita una precedente struttura fondata nel X secolo da monaci basiliani provenienti dall’oriente bizantino. Le prime notizie sarebbero però da ricondursi al periodo normanno, con citazione del luogo in un controverso documento del 1062. Il monastero ricompare quindi in una bolla di papa Alessandro VI Borgia del 31 maggio 1493, che lo definisce “basiliano” e lo assegna in commenda a Lodovico Serra, mentre da altri documenti si apprende che nel XVII sec. fu rimaneggiato e ampliato diventando un monastero carmelitano, rimasto attivo dal 1632 al 1662 quando fu abbandonato. Da quel momento nella chiesa, il cui titolo di S.Elia venne dismesso, si continuò a celebrare di tanto in tanto “per divozione”. Tra le parti più antiche della struttura oggi identificabili figura la Cappella di Sant’Elia che si fa risalire al XIV secolo. La parte meglio conservata del sito che vediamo oggi, riferibile alla sua fase più tarda, è il cosiddetto Sancta Sanctorum, un vano absidale a pianta quadrata un tempo collegato alla chiesa e i cui muri perimetrali sostengono un tamburo circolare coperto da un cupola con oculo centrale in origine sovrastato dalla lanterna. II monastero si trova a 400 m. d’altezza, in località Corda, su uno sperone sovrastante l’abitato di Curinga, antichissimo borgo ricco di chiese e palazzi storici, i cui abitanti sono legati a questo luogo dal culto della Madonna del Carmelo la cui effigie, ogni 15 luglio, viene portata in processione fino al monastero. Sul lato nord è fiancheggiato da una fitta pineta, mentre dagli altri lati si affaccia su una verde e profonda vallata nella quale scorre il fiume Turrino. Dall’eremo la vista spazia fino alle Isole Eolie e domina ampia parte del golfo di S. Eufemia e della piana di Lamezia, un’area ritenuta strategica da millenni essendo ubicata in corrispondenza del punto più stretto (circa 30 km) di attraversamento della Calabria dallo Ionio al Tirreno. A 150 metri dal monastero si trova il platano millenario che secondo una tradizione leggendaria sarebbe stato portato dall’Armenia e piantato proprio dai monaci.
Il Platano millenario è raggiungibile dalla SP91 scavalcando il guardrail e imboccando un sentiero sterrato che attraversa un bosco di pini neri. Dopo una decina di minuti di cammino l’albero appare in tutta la sua mole con l’imponente struttura del tronco che alla base si divarica e sembra ”afferrare” il terreno come le dita di una gigantesca mano [nella foto seguente è possibile percepire la relazione proporzionale tra una persona e una parte del tronco].
I suoi rami si protendono vigorosi verso il cielo a dispetto di quella vera e propria caverna lignea aperta nel tronco, che lungi dall’essere un vulnus fatale per la pianta offre riparo da secoli a contadini e pastori. Anche in questo caso le leggende aggiungono fascino al luogo raccontando di gente nascostasi in quell’insolito ma capiente rifugio per sfuggire alle scorrerie dei pirati saraceni a lungo sbarcati sul vicino litorale terrorizzando le popolazioni locali.
In mille anni questa meraviglia della natura ha attraversato indenne l’inimmaginabile ed oggi è diventata il simbolo di una terra che di anni, anzi di millenni, ne ha molti più di lui. L’albero si trova infatti un angolo di Calabria che le speculazioni erudite e controverse di Armin Wolf, docente di Storia medievale presso l’università di Heidelberg, identificano con la leggendaria terra dei Feaci di omerica memoria: proprio sulla vicina spiaggia tirrenica Ulisse sarebbe approdato e vi avrebbe incontrato Nausicaa, pronta a condurlo a Scheria, da suo padre, il re Alcinoo, che in seguito lo avrebbe aiutato a ritornare ad Itaca. Ma al di là delle suggestioni mitologiche, Curinga e il suo territorio di storia da raccontare ne hanno davvero tanta.
Costellato di boschi di faggi, lecci, querce e abeti, e con un secondo primato arboreo – quello del pioppo nero più grande dItalia (circonferenza del tronco 10,8 m.) rimasto in vita per 300 anni alle porte del borgo ma crollato nel 2018 – il territorio Curinga presenta tracce di insediamenti umani che ci riportano alle età più antiche della storia mediterranea. Le indagini condotte negli anni ’70 dall’archeologo americano Albert J. Ammerman e, successivamente, da suoi colleghi italiani, hanno infatti permesso di individuare a pochi chilometri dal borgo (duna fossile di Prato S. Irene – Rina) resti di numerosi abitati di una fase evoluta del Neolitico antico, con tracce di capanne, focolari, accette levigate, ceramiche e ossidiana delle Isole Eolie, reperti oggi custoditi parte al Museo Archeologico di Lamezia Terme e parte al Museo Pigorini di Roma.
Anche la presenza ellenica è documentata, sebbene non sia chiaro a quale insediamento antico sia riferibile: due colonne, conservate nel giardino di Villa Cefaly nella vicina frazione di Acconia sarebbero riferibili ad un tempio di Castore e Polluce, così come di matrice tardo-ellenica sono le suppellettili ritrovate in una necropoli della zona. E ancora di Magna Grecia parla un tesoretto di circa 300 stateri greci arcaici (VI secolo a.C) in argento, ritrovato nel 1916 in buono stato di conservazione, in un contenitore di ceramica, durante operazioni di bonifica del torrente Turrino, e pubblicato l’anno dopo dall’archeologo Paolo Orsi; parte di quegli stateri, così come il contenitore, furono dispersi dagli operai, ma 193 monete – provenienti da città come Taranto, Crotone, Metaponto, Sibari, Caulonia – sono oggi custodite al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Marcata è l’impronta ellenica anche in una serie di toponimi come Lacconia, Calavrici, Malia, Argò, Argadi, ecc., indizi che sembrano suggerire la necessità di ricerche archeologiche più approfondite nell’intera area tra le colline e il mare.
A connotare però Curinga dal punto di vista archeologico è soprattutto il complesso termale romano di località Mura Ellene (altro toponimo emblematico), monumento nazionale, riconducibile a una grande villa rustica che sorgeva a breve distanza dalla Statio di Aque Ange, segnalata nella Tabula Peutingeriana, e dalla Statio Ad Turres menzionata in altri itinerari romani, entrambe ubicate lungo il tragitto della via Popilia. I romani si erano dunque insediati nella stessa area frequentata dai più antichi coloni greci, lasciandoci questo impianto termale che è l’unico in tutto il sud Italia a conservare l’alzato fin quasi all’altezza della copertura (circa 5 m. fuori terra). Risalente al I-II sec. d.C., il complesso è composto da un atrio-ginnasio, il frigidarium, un piccolo tepidarium-spogliatoio, due grandi calidaria, un laconicum, alcuni ambienti di servizio e un complesso sistema di canali che consentiva la circolazione dell’acqua. Il ritrovamento di una moneta riferibile al tempo dell’imperatore Diocleziano testimonia il funzionamento del luogo ancora nel III-IV secolo, mentre è certo che l’edificio abbia cessato le sue funzioni termali tra la metà del IV e gli inizi del V secolo.
Dopo questa breve panoramica sulle principali vestigia storiche di Curinga, torniamo alla natura che in quest’area vanta anche altre risorse oltre allo spettacolare platano millenario. A cominciare dai cinque km di spiaggia libera con un vasto arenile di sabbia silicea e dune marine dove prosperano colonie di piante psammofile e una folta macchia mediterranea con mirti e ginepri e dove sono state avvistati esemplari di tartaruga Caretta caretta: caratteristiche che sono valse a quest’area, nota come Dune dell’Angitola, la qualifica di sito di interesse comunitario (S.I.C.). Sempre lungo la stessa linea costiera, al termine di una folta pineta, si trova una zona umida, la Palude di Imbutillo, anch’essa riconosciuta sito di interesse comunitario. La natura spontanea lascia quindi spazio al paesaggio agrario che dalla fertile pianura adiacente alla pineta costiera sale verso le colline costellato di agrumeti, uliveti e, a quote più elevate, anche vigneti, tra case coloniche e vecchi casini di campagna.
E mentre lentamente si vanno disvelando i ”tesori” nascosti della regione meno conosciuta d’Italia, il Platano di Vrisi si fa materia di romanzo, tra storia e leggenda. Ad esso e al territorio di Curinga è infatti dedicato l’omonimo libro di Franco Fruci nel quale si raccontano le vicende di un miniatore che dalle montagne dell’Armenia arriva al monastero basiliano sulla collina di Curinga, in quella Calabria istmica dove, sulle terre della circoscrizione bizantina di Maida e dintorni, tra la prima e la seconda metà dell’XI secolo, si sarebbe consumato quel processo di “ricattolicizzazione” voluto dai Normanni che avrebbe portato al declino del monachesimo orientale, sostituito da quello latino, e al consolidamento del potere dei nuovi conquistatori.
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Francesco Cuteri, Come sul Monte Carmelo, l’eremo di Sant’Elia a Curinga, in Esperide nn.3-4, gennaio-dicembre 2009, pp. 33-40
Tiziano Fratus, Ogni albero è un poeta. Storia di un uomo che cammina nel bosco, Mondadori, Milano, 2015, 237 pp.
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