Il risveglio di Procida, l’isola della giovinezza

Campania - Isola di Procida (Napoli), Marina Corricella, il borgo marinaro più antico dell'isola - Ph. Angela Capurso

Campania – Isola di Procida (Napoli)  – Ph. Angela Capurso | Photo gallery a fondo pagina

“E così in eterno ogni perla del mare ricopia la prima perla, e ogni rosa ricopia la prima rosa”
Elsa Morante, L’isola di Arturo

di Angela Capurso

Graziella e Arturo sono gli archetipi dell’eterno ritorno, della giovinezza che si consuma e si rinnova per Procida, l’isola profusa, levata in superficie dalle profondità del mare. Se nomen è omen, lo è ancor più se osserviamo il profilo delle sue coste, che Cesare Brandi paragona ai tentacoli di un polpo, mentre altri vedono le insenature e le baie racchiuse da chele di granchio, per altri ancora le terre emerse restituiscono la forma guizzante di un delfino. Un antico vulcano ha disegnato la sua forma sinuosa, l’erosione marina ha aperto grotte e risparmiato faraglioni nella marina di Ciraccio, il vento e le tempeste continuano a ricamare intagli e geometrie lungo tutte le pareti a picco sul mare. E la natura spontanea, che trionfa protetta sull’isolotto di Vivara, fa il resto.

Non potevano che essere nati qui Graziella e Arturo, in una terra intima e minima, scontrosa e disordinata come gli adolescenti. “Gli occhi grandi e ovali avevano quel colore indeciso tra il nero cupo e l’azzurro mare… era quel colore celestiale che le donne d’Asia e d’Italia ricevono dall’ardore delle loro giornate di fuoco e dal sereno azzurro del cielo, del mare e della notte” ( A. de Lamartine, Graziella, trad. di M. Albini, Ischia, 2004, p. 59), così Alphonse de Lamartine, scrittore e diplomatico di stanza a Napoli, naufragato a Procida, descrive la ragazza che amò, una corallaia orfana bellissima, prematuramente scomparsa per tisi, prima che il poeta potesse onorare la promessa di sposarla e portarla con sé in Francia. A lei è dedicato nel Conservatorio dell’Orfane, il Museo di Graziella, di cui è imperdibile la visita, anche per il panorama che si gode dalla terrazza a strapiombo sul mare, rivolta verso Capri. Ciascun oggetto di uso comune, oltre a quelli più rari e preziosi, ha da raccontare la sua storia, insieme ai costumi tradizionali procidani d’epoca, con il soprabito rosso per le spose e verde per le più adulte, ricamati con galloni in filo d’oro, come i corsetti, secondo la tecnica antichissima “a cocciola” d’influenza turca e magrebina (Elisabetta Montaldo, Clotilde Sarnico, L’oro del mare. L’antico costume delle donne di Procida, Dante & Descartes, 2009) e gli scialli trasparenti in retina ricamata di bisso, la preziosa seta del mare. I rami di corallo, che ogni ragazza portava in dote nel suo corredo, rappresentano il ramo d’oro, viatico augurale per la nuova vita coniugale, simbolo come il “creaommini”, ossia il letto, di fecondità prolifica.

Sono arrivata a Procida spinta dal richiamo letterario. In valigia il romanzo di Elsa Morante, L’isola di Arturo, pubblicato e vincitore del Premio Strega nel 1957, zeppo di appunti sulle cose che avrei voluto vedere e riconoscere dall’incanto delle descrizioni che contiene, ma sono trascorsi sessant’anni dal soggiorno della scrittrice nell’isola, mi sono auto-consolata dalla delusione di non riuscire a individuare la Casa dei Guaglioni, perché forse molte delle grandi case assomigliano al palazzo dei Gerace, o il punto sul porto dove Arturo aspettava suo padre. L’isola di Arturo è l’isola di ogni bambino che aspetta eternamente il ritorno del padre lontano. Ci sono andata a Procida per questo. Le mie gambe conoscevano quella corsa dietro le gambe robuste e abbronzate nel tentativo di tenere il passo del padre amato.

La Terra Murata, rocca non elevatissima, ma difesa naturalmente ad eccezione della porta d’accesso, ha ospitato un penitenziario imponente, ora deserto, protagonista di alcune delle pagine più dense di umanità del romanzo. Il rispetto di Arturo per i carcerati e le loro sofferenze, che gli rendeva impossibile sostenere e fissare i loro sguardi dalle celle, è lo stesso che ho provato dinanzi al complesso dimesso e lacero della prigione, nel suo richiamo alla tragedia dell’errore, alla colpa della debolezza umana. I galeotti si erano distinti nella loro attività di tessitori di tele per vele e biancheria; le donne del paese si recavano il lunedì mattina alla Murata, quando il carcere si apriva alla vendita dei tessuti da utilizzare per il corredo.
“Su per le colline verso la campagna, la mia isola ha straducce solitarie chiuse tra muri antichi, oltre i quali si stendono frutteti e vigneti che sembrano giardini imperiali” (E. Morante, L’isola di Arturo, Torino 2014, p. 12). In uno di questi giardini imperiali, un limoneto, risiedeva la scrittrice con Alberto Moravia: era la pensione Eldorado, poi divenuta sede del Parco letterario, che organizza ogni anno il Premio Procida-Elsa Morante.

Letteratura e cinema si contendono l’isola: decine di film girati a Procida, insieme all’istituzione del Procida Film Festival, da Graziella di Giorgio Bianchi (1954), L’isola di Arturo di Damiano Damiani (1962), Vaghe stelle dell’Orsa di Luchino Visconti (1966), Il talento di Mr Ripley di Anthony Minghella (1999), Francesca e Nunziata di Lina Wertmuller (2002), Fuoco su di me di Lamberto Lambertini (2006), fino al più poetico di tutti, Il Postino, l’ultimo film di Massimo Troisi e Michael Radford, girato nel 1994. La Locanda del Postino alla Corricella mostra con orgoglio la bicicletta nera e si ispira a Beatrice Russo (Maria Grazia Cucinotta) per le sue prelibatezze a base di pesce freschissimo. La baia di Pozzo Vecchio, dove il Postino registrava i suoni del vento sulla scogliera, ora ribattezzata Spiaggia del Postino, è uno dei luoghi più suggestivi dell’isola. Proprio sotto il cimitero, le ultime cappelle spuntano sul profilo del costone e sulla lingua di sabbia scura, un unico stabilimento offre servizi d’altri tempi: pare proprio che i Procidani abbiano voluto consacrare la spiaggia più bella ai loro morti. Al rientro, lungo la risalita, ho avvistato la lucertola blu, una specie che esiste solo a Procida e a Capri. Non l’ho fotografata, perché schiacciata al suolo da un motorino.

Oltre alle spiagge e alle cale, come Chiaia, da cui si risale con un allenamento di 186 gradini, Chiaolella, Chiaiozza e la più lunga di Ciraccio- Ciracciello, la “gita al Faro” merita tutta la fatica per raggiungere la Punta del Pioppeto: il faro, ormai res nullius, va salvato. Da lì si guarda Pozzuoli e un fondale blu popolato da posidonie.

Veniamo all’abitato “diffuso” dell’isola, cresciuto per grancìe, le contrade. Sotto la maestosa cittadella della Terra Murata, varcata la stretta Porta di mezz’omo, ci si ritrova nel medioevo, all’epoca di Giovanni da Procida, medico della Scuola Salernitana, consigliere di Federico II e animatore della rivolta anti-angioina dei Vespri siciliani (1282). Il borgo costituì l’insediamento originario dell’isola fino al XVI secolo, con il complesso conventuale di S. Margherita Nuova, il Palazzo Reale e l’Abbazia di S. Michele, difensore dei Procidani dagli attacchi saraceni. L’ampliamento dell’abitato, dal Seicento all’Ottocento, si estende a sella d’asino lungo il declivio della dorsale ai piedi della rocca. Un lembo pittoresco, Corricella, dominato dalla cupola bianca di S. Maria delle Grazie, rappresenta un esempio pressoché inalterato di architettura spontanea nelle minuscole case dei pescatori color pastello, così abbracciate l’una all’altra, con arco e scala rampante a dorso d’asino che porta al vefìo, il terrazzino.

Lungo la marina, i ristoranti all’aperto servono il pescato; lì vi attraccano le imbarcazioni per la piccola pesca con la lampara, praticata ancora, insieme all’avvistamento e alla cattura di polpi e ricci. Il lembo opposto è il porto di Marina Grande, con la darsena degli antichi cantieri navali Lubrano, il fronte di facciate variopinte e di S. Maria della Pietà dei Pescatori, il mercato pomeridiano del pesce direttamente dalle barche e la brulicante Via Roma. Tra l’uno e l’altro estremo, un intreccio labirintico di strade longitudinali e di stradine trasversali, dove il sole fa fatica a entrare e il visitatore a uscire.

Le sirene della mondanità non hanno sedotto Procida, che conserva un volto autentico, senza le superfetazioni ingombranti delle comodità e del lusso. Non ci sono boutique griffate, come nelle isole vicine. In questa scelta “anti-turistica” risiede, per me, il valore aggiunto dell’isola. Più volte mi è parso di respirare l’aria di un’Italia che non c’è più. I negozi e le attività sono modesti, le vetrine riportano indietro a qualche decina d’anni fa. La smania del rinnovamento non ha attecchito, mi conferma un’anziana signora dal suo balconcino in Via S.Rocco, mentre sono intenta a fotografare una minuscola loggetta con due busti sette-ottocenteschi bifronti, uno femminile in stile neoclassico a fronte di un enigmatico giano dai tratti nordafricani. Il proprietario è passato a miglior vita, mi dice, e la casa è chiusa. Ammette di non saper sciogliere il mistero del significato di quel preciso gesto architettonico. E dire che di misteri è piena l’isola. I membri della Congregazione dei Misteri, incappucciati interamente di bianco o coperti da una mantellina azzurra, berretto bianco e guanti neri, organizzano il venerdì santo la processione dei Dodici Apostoli, traportando il Pallio nero, la Madonna Addolorata e la veneratissima statua lignea del Cristo deposto dalla croce.

L’interno di Procida è un susseguirsi di campagne e orti di pomodori S. Marzano, melanzane, zucchine, di frutteti e profumatissimi alberi di limoni; una volta raccolti, fanno bella mostra dai fruttivendoli dell’isola. Ho visto un anziano pescatore preparare i filetti crudi di melanzane sott’olio, che accompagnano di solito il pesce azzurro. Al mattino si fa la fila dai forni per conquistare una lingua di bue che, a dispetto del nome, è una prelibatezza di sfoglia piatta farcita di crema piuttosto solida, come quella catalana. Viaggia anche così la storia.

“Non dimentichiamo che viviamo in un paese meraviglioso”, traduco così il monito insistente del canto del gallo nella casa che abito all’interno dell’isola. Riecheggia instancabile dalle prime luci dell’alba fino al tramonto, e l’accompagna lo stridìo dei gabbiani lungo le marine. Sono suoni che benedico perché sovrastano a tratti gli altri rumori che violentano l’isola, come a voler mitigare i rombi delle marmitte d’auto e lo sfrecciare fastidioso delle motorette. Troppe, troppe davvero. Percorrere a piedi le strette strade non sarebbe difficile se non ci si dovesse fermare per appiattirsi lungo i muri che le chiudono. Nonostante si estenda per meno di 4 kmq, quello della circolazione e del traffico è uno dei problemi che affronta l’amministrazione di Procida, con provvedimenti restrittivi, così mi informa una signora durante la lunga attesa dei mezzi pubblici urbani in Piazza Olmo, “noi dobbiamo campare, i giovani andare a lavorare”, prova a giustificare, rimarcando l’appartenenza dell’isola ai suoi abitanti, come è sacrosanto, mentre noi ospiti vagheggiamo il risveglio di Procida avvolta dai suoi profumi e dal silenzio. Solo i gatti sono dalla nostra parte. E non sono i soli in cerca di ospitalità e riposo, se persino Giovenale (Sat. III, v. 5 ) consigliava ai Romani un soggiorno sull’isola per ritemprarsi dal caos e dagli affanni della città.

Un’isola che ho amato prima di conoscerla, ancor più per le dolorose piaghe che le infliggiamo.

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Il risveglio di Procida, l’isola della giovinezza

Ph. Angela Capurso

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