di Margherita Corrado*
La stampa locale ha dato ampio risalto al breve soggiorno (dall’1 al 18 aprile) della statua in marmo di Apollo Aleo (440-430 a.C.) nel Museo Civico di Cirò Marina (KR), sottolineando l’eccezionalità di un ritorno a casa che segue di quasi cent’anni la partenza per Reggio Calabria dei manufatti di cui l’opera oggi si compone: la testa, la mano sinistra mutila ed entrambi i piedi (fig. 1). Nel 1924, quando Paolo Orsi la trovò nel corso della prima campagna di scavi a Punta Alice, dove la bonifica della palude aveva fortuitamente intercettato il più celebre santuario di Krimisa (fig. 2), limite sacro del territorio di Kroton in direzione nord ma preesistente (come l’heraion del Capo Lacinio) alla fondazione della colonia achea, il museo di Reggio avocava a sé tutti i reperti di valore scoperti nella regione. In precedenza, questi venivano inviati a Napoli, e più tardi a Taranto, come capitò alle vasche monumentali in marmo estratte per prime dal relitto romano di Punta Scifo.
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Gran parte dei Cirotani ignora, però, che prima della temporanea chiusura per ristrutturazione dell’edificio progettato dall’architetto Piacentini per accogliere le glorie calabresi della Magna Grecia, e ormai in procinto di essere riaperto al pubblico, la ‘Sala Cirò’, contenente la statua di Apollo e i più pregevoli materiali dello scavo condotto dall’Orsi, era inaccessibile ai visitatori già da alcuni decenni. Ci vollero le esposizioni calabresi collegate alla grande mostra veneziana del 1996 dedicata ai Greci in Occidente per rivedere – a Crotone, nelle vetrine allestite temporaneamente in Palazzo Morelli – i preziosi oggetti rinvenuti a Punta Alice (Apollo escluso), e la mostra sulla Magna Grecia svolta nel 2005 a Catanzaro perché l’acrolito percorresse per la prima volta a ritroso parte della strada che a metà degli anni Venti lo aveva condotto a Reggio.
Tra la seconda occasione espositiva citata e l’odierna sono passati altri anni, gli ultimi dei quali l’Apollo ha trascorsi in trasferta, addirittura oltreoceano (al Princeton University Art Museum), perché inserito nel 2007 tra le opere d’arte antica che l’allora Ministro dei Beni Culturali, Francesco Rutelli, concordò di inviare per tre anni negli USA. S’intendeva così ‘compensare’ la perdita di alcuni capolavori di provenienza italiana che, dimostrato l’acquisto illegale, i musei americani erano stati costretti a restituire al nostro Paese. Anche quell’operazione riguarda da vicino il Crotonese: l’eccezionale vaso in bronzo per profumi modellato a forma di sirena (fig. 3) che dalle Murgie di Strongoli (KR) era finito in Florida, a Malibù, nelle vetrine del Paul Getty Museum, rientrò in Italia ed è ora esposto a Crotone proprio grazie agli accordi internazionali citati. Di ritorno dagli USA dopo un soggiorno ben più lungo del previsto, la statua di Apollo Aleo fa dunque tappa a Cirò Marina prima di essere ricollocata definitivamente nel museo di Reggio, dov’è parte integrante delle collezioni storiche.
Lo stupore e la suggestione che oggi suscita la grande testa marmorea esposta temporaneamente nel museo di Palazzo Porti in sostituzione del consueto calco in gesso è però un clamoroso esempio di quella “bellezza involontaria”, per usare una felice espressione di Marguerite Yourcenar, che,“associata ai casi della Storia, dovuta agli effetti delle cause naturali e del tempo”, si aggiunge “alla bellezza come l’ha voluta un cervello umano, un’epoca, una particolare forma di società”. Poche statue antiche, se si escludono quelle più gravemente mutilate, sono lontane dall’aspetto primitivo quanto gli acroliti (e in specie le loro teste). Si tratta, infatti, di una tipologia statuaria particolare che ha proprio in Magna Grecia gli esempi più antichi ma non trova riscontro ai giorni nostri, benché i più tardi epigoni si possano rintracciare nelle “Madonne vestite”: statue processionali prodotte dal XVII a tutto il XIX secolo specialmente ma non solo nel Sud Italia. Queste consistono in un manichino snodabile coperto con vesti sontuose e accollate dalle quali fuoriescono, modellate con cura, dipinte e lucidate ad arte, impreziosite inoltre da capigliature naturali, occhi di vetro e gioielli, solo la testa, le mani e (a volte) i piedi.
Un acrolito non era che la trasposizione in marmo o avorio degli stessi principi, applicati però a figure rigide di dimensioni pari o superiori al vero, come nel caso dell’Apollo, non per ridurne il peso e renderlo maneggevole in vista di riti processionali ma per risparmiare sui costi, soprattutto in regioni (come la Calabria) avare o prive di marmo. Una struttura in legno, argilla o altro materiale di poco pregio costituiva dunque il corpo, nascosto alla vista da stoffe e accessori sontuosi. L’uso della pietra pregiata o dell’avorio, di preferenza associato all’oro come nei celebri Apollo e Artemide del Museo di Delfi (fig. 4), per scolpire separatamente e poi assemblare le estremità scoperte mediante un sapiente gioco di incastri e opportune imbottiture garantiva un risultato ottimale, niente affatto viziato dalle lacune ’nascoste’. Il marmo era dipinto in modo da simulare il colorito naturale – uno strato di cera e pece impermeabilizzava le superfici così trattate – e completato, nel caso della testa, da una capigliatura in oro/bronzo o in stucco dorato su armatura lignea (con eventuale aggiunta di una corona di alloro, un diadema, un copricapo o un elmo a seconda dell’identità del ritratto), da ciglia finissime ritagliate all’estremità di lamine metalliche inserite sotto bulbi oculari in calcedonio, ad esempio, o in avorio, associati a pietre diverse per rendere colore e lucentezza dell’iride e della pupilla. In caso di divinità femminili, dai lobi potevano pendere gioielli.
Al confronto, le grandi orbite vuote del ‘capoccione’, il pallore giallognolo dell’incarnato, le serie di fori praticati nel cranio solo parzialmente lisciato, nulla lasciano intuire, oggi, dell’antica espressività di quel volto, al quale sia l’Orsi nella pubblicazione del 1932 sia, più di recente, Elio Malena hanno cercato di ridare vita (fig. 5). Molta della distanza dal mondo dei mortali che alcuni studiosi gli attribuiscono, credendo di cogliere uno sguardo assorto del dio, potrebbe dunque essere frutto della suggestione dettata dal regresso della testa marmorea ad uno stadio ‘primitivo’ decretato dal trascorrere del tempo e forse da antiche manomissioni, subite all’atto della deposizione nella cella del tempio arcaico destinata ad essere sigillata dal basamento del periptero ricostruito all’inizio del III secolo a.C.
Inimmaginabile, al di là dei particolari espressivi, è specialmente il tripudio di colori, scintillii e giochi di luce/ombra assicurato all’intera figura dalla combinazione di metalli, pietre colorate, stoffe di diversa fattura e trasparenza che caratterizzava tutte le statue di culto. Il confronto più stringente, oggi, è offerto dalle rutilanti immagini scolpite delle divinità indù (fig. 6 – v. photogallery a fondo pagina), ‘abituate’ anch’esse da sempre alle ghirlande floreali non meno che ai bagni, alle unzioni e alle vestizioni rituali consuete anche nella pratica cultuale ellenica.
Gli elementi acrolitici superstiti dell’Apollo Aleo ci assicurano, comunque, che l’ipotesi di Paolo Orsi, il quale, suggestionato dall’idoletto d’oro trovato anch’esso a Punta Alice, supponeva un Apollo in piedi, con arco e piatto per le offerte (fig. 7), deve essere respinta. Madeleine Mertens Horn si è invece pronunciata, una ventina d’anni fa, per un’immagine del dio seduto, in atto di suonare il suo strumento preferito, la cetra da concerto, reggendolo con la mano sinistra e impugnando il plettro con la destra. Le gambe si intuiscono inclinate e divaricate, il piede destro poco più avanzato del sinistro. Il tipo dell’Apollo citaredo è del resto piuttosto frequente nella scultura greca e romana, sia e più spesso in nudità eroica sia, com’è giocoforza nel nostro caso, abbigliato in modo solenne e splendido.Tra gli esempi più noti si ricorda la statua colossale in porfido (originale) e marmo bianco (sostituto del bronzo) conservata nel Museo Nazionale di Napoli, risalente al II secolo d.C. (fig. 9) Ben più calzante, anche sul piano cronologico, è il paragone con una statua meno nota e piuttosto malconcia dei Musei Vaticani.
Nel 2009, quando la piccola società chiamata “Sette Soli”, poi regredita ad associazione, tentava di proporre a musei e biblioteche locali ricostruzioni a scopo didattico del proprio patrimonio storico-archeologico, fu offerto gratuitamente al Museo Nazionale di Crotone, a scopo promozionale, e illustrato in un catalogo stampato dalla Camera di Commercio, un percorso espositivo integrato in quello permanente e teso a valorizzare le testimonianze del sacro trovate entro le mura di Kroton. Si scelse, in tale occasione, di spiegare al pubblico il tipo statuario dell’acrolito, documentato in città da una testa di Atena (fig. 9), mediante un’ipotesi ricostruttiva dell’Apollo Aleo realizzata, in scala ridotta, grazie all’abilità di Elio Malena. Due le versioni proposte, volutamente accostate entro una teca di vetro: una con le singole componenti della statua ancora da assemblare (fig. 10) e l’altra completa (fig. 11). Il risultato, nonostante l’inevitabile fissità del manichino e la resa approssimativa dei particolari consentita dai materiali poveri utilizzati (gesso, rame ecc.) (fig. 12), è l’unico tentativo fatto fin qui, a mia conoscenza, di restituire un’immagine a tutto tondo del dio di Punta Alice.
Altrove, per esempio nella non lontana Sicilia, le cose vanno diversamente. Penso al Museo Archeologico Regionale di Aidone (En), dove, dopo il rientro dagli USA, insieme alle straordinarie argenterie del “Tesoro di Morgantina” (III secolo a.C.) finite al MET, degli acroliti arcaici in marmo di Demetra e Kore trovati nel 1979 da tombaroli e acquistati da un collezionista di New York che nel 1986 li prestò al Paul Getty Museum per l’esposizione, è bastato un briciolo di coraggio e di inventiva per restituire alle due spettacolari dee arcaiche la monumentalità originale. Mediante calchi e intelaiature metalliche sagomate a mo’ di manichini, parzialmente coperte, poi, da drappi leggeri (figg. 13-14), gli allestitori hanno ottenuto risultati di ben più intensa suggestione rispetto alla mera esposizione in vetrina delle componenti originali isolate (fig. 15). L’operazione è stata premiata da un notevole successo anche economico, come dimostrano, per fare l’esempio più immediato e banale, i magneti (fig. 16) subito messi in vendita per assecondare le richieste dei tanti visitatori che si spingono nell’Ennese ad ammirare opere certamente eccezionali in sé ma che gli addetti ai lavori hanno saputo, una volta tanto, valorizzate al meglio.
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*Margherita Corrado, calabrese, è nata a Crotone nel 1969. Si è laureata in Lettere Classiche (indirizzo archeologico) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e specializzata presso la Scuola di Specializzazione in Archeologia di Matera. Romanista di formazione, ha prestissimo orientato i propri interessi verso l’età post-classica, con particolare riferimento all’alto Medioevo di marca bizantina. Dopo un lungo tirocinio nel volontariato archeologico, dal 1996 lavora come collaboratrice esterna per la Soprintendenza Archeologica della Calabria. Negli anni, è stata incaricata della catalogazione di migliaia di reperti di diversa origine e cronologia ed ha operato sul campo in tutte le provincie calabresi (saltuariamente anche in Puglia), affiancando la Direzione Scientifica nell’indagine stratigrafica di siti databili dall’età arcaica fino al XIX secolo, compresi importanti cantieri di archeologia urbana, aree santuariali magnogreche ed edifici di culto cristiani. Ha collaborato con l’Amministrazione anche per l’allestimento di mostre temporanee e di esposizioni museali permanenti. E’ autrice di un centinaio di pubblicazioni, una decina delle quali monografiche, eterogenee per impostazione, cronologia e contenuti ma con una spiccata predilezione per la cultura materiale e le arti minori (in particolare l’oreficeria), molte delle quali edite negli atti di convegni nazionali e internazionali. E’ membro della Società degli Archeologi Medievisti Italiani, dell’Istituto per gli Incontri di Studi Bizantini, del Circolo di Studi Storici Le Calabrie e dell’Istituto Italiano dei Castelli. Collabora con l’Ufficio Beni Culturali dell’Arcidiocesi di Crotone-Santa Severina. Referente del Gruppo FAI di Crotone dal 2013, è anche socia fondatrice di un paio di associazioni culturali a carattere locale per conto delle quali svolge attività didattica nelle Scuole e cura visite guidate gratuite tese ad avvicinare la cittadinanza ai temi dell’archeologia e della storia calabrese.