a cura di Kasia Burney Gargiulo
Correva l’anno 1895, quello della pubblicazione a Napoli di un delizioso libricino dedicato alle “Leggende Napoletane”, raccolte e reinterpretate dalla giornalista e scrittrice Matilde Serao, celebre per essere stata la prima donna in Italia a fondare (insieme al marito Edoardo Scarfoglio) e a dirigere un quotidiano, Il Mattino di Napoli; la sua è un’opera che precede di anni la più nota “Storie e leggende napoletane” di Benedetto Croce. Nel più umile ma non meno appassionato testo della Serao ho scovato un racconto che, fra anacronismi tipici della novella di matrice popolare, colloca in un’aura sospesa fra sogno e magia la nascita di uno dei piatti-icona della cucina napoletana. Quale? Scopritelo leggendo qui di seguito il racconto, che mi sono limitata a rimodernare lievemente dal punto di vista linguistico. Buona lettura!
IL SEGRETO DEL MAGO
“Nell’anno 1220 della salvifica Incarnazione di Nostro Signore, regnando in Palermo ed in Napoli il grande e buon re Federico II° di Svevia, accadde in Napoli un bellissimo caso che non vi dispiacerà ascoltare, trattandosi di un gradevole argomento. Simile novella non troverete riportata nè dagli storici, né da eleganti narratori; io stessa la raccolsi rozza ed informe dalla tradizione popolare e voglio, narrandovela, consacrarla in questa scrittura, affinché ne possano avere scarna ma chiara notizia i posteri, per cui lavora e s’affatica ogni scrittore disdegnoso della facile appovazione contemporanea. Ma senza più trattenervi in preliminari, avendo spiegato chiaramente la mia intenzione, passo a narrarvi il fatto.
Nello stretto vico dei Cortellari, che come ognuno sa, apparteneva al seggio di Portanova, v’era una casetta stretta ed alta, dalle piccole finestre, con i vetri sporchi e piombati. La porta d’entrata era bassa e oscura; sporca e ripida la scala; di rado se ne vedevano aperte le finestre. La gente vi passava dinanzi frettolosa, dando uno sguardo fra il collerico ed il pauroso, e borbottando fra i denti non so se una preghiera o una maledizione. In verità, nella casetta abitava gente malfamata; al primo piano v’era un giudeo considerato maledetto e degno discendente di coloro che crocifissero nostro signore Gesù Cristo, un giudeo ladro che dava il denaro ad usura ed estorceva monete d’oro; al secondo abitava una giovane bella, di quelle che sono la tentazione e la dannazione dell’uomo; al terzo un marito ed una moglie, brutti ceffi che il giorno erano fuori di casa per compiere qualche ignoto ed equivoco mestiere e quando rincasavano, a notte fonda, si picchiavano battendosi come si batte la lana. Quello che generava lo sgomento dei viandanti non era però l’ebreo strozzino, lo sguardo provocante della donna o gli strilli della moglie bastonata dal marito, ma era tutto questo insieme e soprattutto il pensiero che all’ultimo piano della casa indiavolata abitava Cicho il mago. Le anime timorate di Dio si facevano il segno della croce e passavano oltre; gli spiriti più disinvolti facevano le corna con la mano, si tastavano il ginocchio, pronunciavano qualche scongiuro e facevano cose di quelle che volgarmente si credono idonee a disperdere il malocchio. Sebbene Cicho uscisse molto raramente e raramente spalancasse le imposte della sua finestrella, il popolo sapendo della sua magia, del suo potere sovrumano, ne aveva un timore grandissimo.
Senza dubbio i misteriosi comportamenti di Cicho davano atto di verità a quanto di lui si diceva. Chi fosse non si sapeva, né da dove venisse; stava sempre chiuso in casa; in apparenza privo di amici e di parenti: curvo nell’incedere, lento il passo, l’occhio fisso a terra mormorando parole greche, latine o di qualche lingua demoniaca; parco nel conversare, ma non aspro nei modi, anzi sorridente nella fluente barba bianca; scuri ma puliti i vestiti. Invano, quando venne ad abitare nel vico Cortellari, le donnette del vicinato s’informavano di lui, chiesero, osarono interrogarlo, fermarono il suo servo e impiegarono i mille mezzi che sempre, maestra e signora, la curiosità suggerisce alla donna. Nulla però riuscirono a sapere su Cicho, per cui la sua origine, la sua famiglia, la sua vita rimasero nelle tenebre dell’ignoto. Ma in seguito, spiando, osservando, escogitando, si seppe che Cicho era intento in opere magiche; durante la notte, mai si spegneva la lampada della stanzetta dove egli studiava su grossi volumi di manoscritti prelevati da un polveroso scaffale, mai cessava d’uscire dalla cappa nera del suo focolare un filo di fumo e la sua stanza era piena di storte, alambicchi, fornelli, singolari coltelli di tutte le forme e di altri strumenti in ferro destinati ad usi paurosi.
Si diceva che spesso Cicho passava ore intere curvo sopra un pentolino che bolliva e bolliva, e dove sicuramente danzavano le maledette erbe infernali che cagionano malattia, follìa e morte, sebbene in realtà il servo non comperasse in piazza che le solite erbe di cucina, come maggiorana, pomodori, basilico, prezzemolo, cipolle, aglio ed altro. Ma si sa che gli stregoni vanno sui prati nella notte del sabato, incantano la luna, chiamano il diavolo e colgono le erbacce malefiche. Si diceva altresì che Cicho venisse fuori sul suo piccolo terrazzino, scuotendo dalle mani e dall’abito una polvere bianca che certo doveva avvelenare l’aria; che spesso andasse a lavarsi le mani macchiate di rosso in un tinello la cui l’acqua si avvelenava. Quelle mani macchiate di rosso davano adito a orribili sospetti; tanto più che si aggiungeva esservi spesso, nel laboratorio di Cicho, sul pavimento, delle larghe macchie rosso-brune, simili a pozze di sangue e che quello sciagurato stregone si occupasse, nella notte, di tagliare coi sottili coltelli, sopra una grande tavola di marmo bianco, non so che di delicato. Membra di bambini, o zampe di rana, o pelli di serpentelli – ripeteva la gente. E quando camminava lungo la via, le comari ammiccavano e si davano delle gomitate nei fianchi, dicendo:
– Cicho il mago, Cicho il mago!
– Cerca il modo di ridiventare giovane!
– Vuol trovare l’oro, forse.
– O quella pietra che procura virtù, saggezza e lunga vita.
– Che!! Chiama il diavolo per diventare sempre più potente!
Cicho ascoltava e tirava avanti sorridendo. In fondo le comari, avendone paura, non osavano maledirlo che sottovoce; a ammonivano i bimbi ad usargli rispetto. Lo stregone, malgrado le voci temerarie, aveva rispetto di galantuomo e quella tale aria di soddisfatto raccoglimento di chi medita una qualche bella e feconda idea. Pareva dicesse: verrà, verrà il mio giorno, o gente ingrata.
Per chiarirvi un poco il mistero e per spogliare la sua vita di quella parte sovrumana che Dio non permette più sulla terra, poiché Dio fa miracoli solamente per l’anima e non più per il corpo, vi dirò quanto segue. Cicho era stato a suo tempo ricco e gagliardo e un bel giovanotto: aveva saputo goder bene della sua salute, della gioventù e della ricchezza; aveva amato ed era stato amato; aveva avuto palazzi, cavalli purosangue, pietre preziose, vestiti intessuti d’oro; aveva goduto di feste, conviti, balli, giostre; aveva assaporato col più vivo piacere baci di donne, colpi di spada di cavaliere e vini poderosi. Quando la sua ricchezza cominciò a dileguare, come sempre accade, si allontanarono donne ed amici; ma Cicho che aveva fatta sui libri degli scrittori antichi una buona e larga provvista di filosofia, non si lasciò abbattere. Sibbene rimasto solo, con nessuna opera da compiere, gli venne il desiderio di rendersi utile agli uomini. E dopo aver escogitato tutti i mezzi, ricordando i suoi godimenti ed i suoi piaceri, si convinse di dover lui trovare qualche cosa che concorresse specialmente alla felicità dei suoi simili, alla cui felicità instabile e passeggera egli voleva dare un qualche solido fondamento. Fermo in questo suo proposito comperò pergamene e volumi, studiò lungamente, tentando e ritentando ogni giorno prove nuove, sbagliando, ricominciando da capo, consumando le sue notti, il suo denaro ed il carbone dei suoi fornelli. Per molto tempo la mala sorte lo perseguitò e i suoi esperimenti risultarono sempre fallaci, ma non per questo venne meno la sua costanza. Egli lavorava per la felicità dell’uomo e tale altissimo scopo gli era sempre presente come una visione animatrice; alla fine, dopo molti anni di travaglio, poté dire di aver raggiunto la sua meta, gridando anche lui la parola “Eureka” del greco Archimede, di fronte alla sua scoperta. Poi, come usano fare gli inventori, si impegnò a perfezionare sua scoperta, a carezzarla, a darle forme variate e seducenti, in modo da poter dire agli uomini: Eccola qui; io ve la dono bella e completa.
Accadde ad un certo punto che sul terrazzino del mago Cicho s’aprisse anche la porticina di una stanzetta dove abitava con suo marito una certa Jovannella di Canzio. Era costei maliziosa, astuta e linguacciuta quanto mai femmina possa essere; e sua dilettevole occupazione era conoscere i fatti del vicinato, o per trarne personale vantaggio o semplicemente per malignarvi su. Sebbene la malvagia Jovannella spiasse continuamente Cicho il mago, s’arrovellava di giorno e non aveva tregua fra le lenzuola la notte, per via della sua inappagata curiosità; e più non riusciva a saper nulla, più, per dispetto, faceva a pezzi la reputazione delle vicine o tormentava il marito Giacomo, sguattero di cucina a Palazzo Reale. Poichè però, come saggiamente sostiene il detto popolare, la donna ottiene sempre quello che vuole, ecco che malgrado le precauzioni di segretezza adoperate da Cicho il mago, malgrado le porte chiuse, le finestre sbarrate, la Jovannella riuscì alla fine a scoprire il segreto dello stregone. Non saprei dirvi se ciò avvenne attraverso un buco di serratura, una fessura di porta, un foro nel muro, o in altro modo. Ma è certo che un giorno la trionfante Jovannella disse al marito sguattero:
– Giacomo, se hai un po’ di coraggio da vero uomo, la fortuna nostra è fatta.
– Sei per caso diventata una strega? Me lo aspettavo!
– Mannaggia a quella tua bocca sconsacrata! Ascolta. Vuoi tu dire al cuoco di palazzo che io conosco una pietanza di così nuova e tanto squisita fattura da meritare l’assaggio del Re?
– Femmina, tu sei pazza?
– Dio mi sradichi questa lingua che ho tanto cara, se io ti mento!
E con sottile opera di persuasione lo indusse a parlarne col cuoco di casa reale, che a sua volta ne discusse col maggiordomo, il quale ne riferì ad un un conte, che osò parlarne al re.
Al re la cosa piacque non poco e dette ordine che la moglie dello sguattero si recasse nelle reali cucine e componesse il prelibato piatto: infatti la Jovannella accorse subito e in tre ore fece tutto. Ecco come: prese prima del fior di farina, lo impastò con poca acqua, sale e uova, maneggiando la pasta lungamente per raffinarla e per ridurla sottile sottile come una tela; poi la tagliò con un suo coltellaccio in piccole strisce, queste arrotolò a forma di piccoli cannelli e fattane una grande quantità, essendo morbidi ed umidicci, li mise ad asciugare al sole. Poi mise in tegame dello strutto di maiale, cipolla tagliuzzata finissima e del sale; quando la cipolla fu soffritta vi mise un grosso pezzo di carne; quando questa si fu rosolata bene ed ebbe acquistato un colore bruno-dorato, la donna vi versò dentro il succo denso e rosso dei pomodori che aveva spremuto in uno straccio; coprì il tegame e lasciò cuocere, a fuoco lento, carne e salsa.
Quando arrivò l’ora di pranzo, ella preparò una pentola di acqua bollente dove rovesciò i fili di pasta: nel frattempo che cuocevano, grattugiò una grande quantità di quel dolce formaggio il cui nome deriva da Parma. Cotta a puntino la pasta, la separò dall’acqua ed in un vassoio di maiolica la condì mano mano con una cucchiaiata di formaggio ed un cucchiaio di salsa. Fu così che la famosa pietanza segreta andò innanzi al grande Federico, il quale ne rimase meravigliato e compiaciuto; e chiamata a sé la Jovannella di Canzio, le chiese come avesse potuto immaginare un connubio di sapori così armonioso e stupendo. La femmina colpevole disse che ne aveva avuto una rivelazione in sogno, da un angelo: il gran re volle che il suo cuoco apprendesse la ricetta e donò alla Jovannella cento monete d’oro dicendo che era molto da ricompensarsi colei che per una così grande parte aveva concorso alla felicità dell’uomo. Ma non fu questa solamente la fortuna di Jovannella, poiché ogni conte ed ogni dignitario volle avere la ricetta e mandò il proprio cuoco ad impararla da lei, dandole un grosso premio; e dopo i dignitari vennero i ricchi borghesi e poi i mercanti e poi i lavoratori di giornata e poi i poveri, dando ognuno alla donna quel che poteva. Nel corso di sei mesi tutta Napoli si cibava dei deliziosi maccheroni – da macarus, cibo divino – e la Jovannella divenne ricca.
Intanto Cicho il mago, solo nella sua cameretta, modificava e variava la sua scoperta. Pregustava il momento in cui, reso noto agli uomini il suo segreto, gliene sarebbe venuta gratitudine, ammirazione e fortuna. Del resto, non vale forse più la scoperta di una nuova pietanza che quella di un teorema filosofico? che quella di una cometa? o quella di u nuovo insetto? Bene, dunque: lodato senza fine sia l’uomo che la fa. Ma il giorno in cui arrivò il grande momento della rivelazione, Cicho il mago uscì a respirare per la via del Molo: arrivato presso la porta del Caputo, un odore a lui noto gli ferì le narici. Tremò ma si rincuorò pensando che fosse un inganno. Ma roso dall’ansia, entrò nella casa da cui proveniva l’odore e domandò ad una donna che badava ad un tegame:
– Che cosa stai cucinando?
– Maccheroni, vecchio.
– Chi ti insegnò a farlo, donna?
– Jovannella di Canzio.
– E a lei chi lo ha insegnato?
– Un angelo, dicono. Ella ne cucinò per il re; ne vollero i principi, i conti, tutta Napoli. In qualunque casa entrerai, o vecchio pallido e morente, troverai che vi si cucinano maccheroni. Hai fame? Vuoi anche tu cibartene?
– No. Addio.
Entrato in varie case, trascinandosi a stento, Cicho il mago ebbe certezza dell’accaduto e del tradimento di Jovannella; il custode del palazzo reale gli ripeté la stessa storia. Allora, disperato, tornatosene nella sua casetta, rovesciò alambicchi, storte, tegami, forme e coltelli; ruppe, fracassò tutto; bruciò i libri di chimica. E se ne partì solo ed ignorato, senza che mai più fosse visto ritornare.
Come è naturale, la gente disse che il diavolo aveva portato via il mago. Ma morta Jovannella dopo una vita felice, ricca ed onorata, come per lo più accade ai malvagi, malgrado i proverbi dicano il contrario, nella disperazione della sua agonia la donna confessò il suo peccato e morì urlando come una dannata. Cicho il mago non ebbe neppure la soddisfazione di una giustizia tardiva: la leggenda aggiunge soltanto che nella casa dei Cortellari, dentro la stanzetta del mago, nella notte del sabato, Cicho il mago ritorna a tagliare i suoi maccheroni, Jovannella di Canzio gira il mestolo nella salsa di pomodoro ed il diavolo con una mano gratta il formaggio e con l’altra soffia sotto la caldaia. Ma diabolica o angelica che sia la scoperta di Cicho, essa ha regalato la felicità ai napoletani e nulla indica che non continui a farlo nei secoli dei secoli.”
Finisce così – con questa filosofica, ma veritiera, riflessione di Matilde Serao – il racconto della leggendaria nascita dei maccheroni al ragù di carne. Considerata però l’esperienza che di questo piatto può farsi a Napoli, c’è da dire che nei secoli molti altri alchimisti sono intervenuti sulla folgorante invenzione di Cicho il mago, se è vero, com’è vero, che a Napoli, di ricette per questo piatto ne circolano davvero tante, a testimonianza della sfrenata fantasia del popolo partenopeo.