di Redazione FdS
In questi giorni i riflettori delle cronache culturali e politiche sono puntati sul parco archeologico di Capo Colonna, dopo la decisione – contrastata da più parti – di ricoprire col cemento i resti del Foro Romano emersi di recente nell’area adiacente il piccolo Santuario della Vergine. Rinviamo ai precedenti articoli per la ricostruzione dell’intera vicenda e puntiamo qui il nostro focus su un altro aspetto di questo luogo straordinario della Calabria, culla di una delle più raffinate civiltà dell’intero bacino del Mediterraneo, quella della Magna Grecia, che a Crotone èbbe uno dei suoi fulcri. Potenza militare, sede di filosofi del calibro di Pitagora che qui tenne cenacolo, patria di atleti olimpionici di leggendaria fama come Milone, Crotone fu anche un importante crocevia di traffici commerciali lungo le rotte di collegamento con l’Egeo. E proprio a quest’ultimo aspetto si ricollega il nostro approfondimento di oggi, che ci riporta ad un ritrovamento archeologico davvero eccezionale avvenuto nel 2013. Come troppo spesso accade in Italia, esso è presto finito nel dimenticatoio, ma se debitamente riconsiderato potrebbe, insieme a tutte le altre antiche testimonianze di questo promontorio affacciato su un mare azzurro e cristallino, costituire tappa di un percorso, fra terra e mare, di grande valore storico-turistico.
Ci riferiamo alla scoperta, effettuata a fine luglio 2013, dal gruppo di archeologi diretto da Carlo Beltrame (dell’Università Cà Foscari di Venezia) e Salvatore Medaglia (Università degli Studi della Calabria) e coadiuvato dalla Sopraintendenza per i beni archeologici della Calabria: quella del più grande carico di marmi antichi mai trovato nel Mar Mediterraneo (v. foto sopra). Il rinvenimento è avvenuto nella baia di Punta Scifo, cuore dell’Area Marina Protetta di Capo Rizzuto, e comprende ben 350 tonnellate di varietà di marmo proconnesio provenienti dalla Turchia e riconducibile ad una nave presumibilmente naufragata nel III° secolo d.C. Il preconnesio era una varietà di marmo bianco tra le più utilizzate nell’impero romano, ha grandi cristalli e presenta un colore bianco con sfumature cerulee o con venature grigio-bluastre. Il carico, di pregevole lavorazione, era forse destinato ai decori di qualche importante edifico di una grande città dell’Impero romano del Mediterraneo occidentale; qualcuno ipotizza fosse diretto a Roma.
Pochi giorni prima di questo ritrovamento, con un vero balzo epocale, il mare di Capo Colonna aveva restituito anche due cannoncini petrieri del XV secolo ritrovati per caso in località Santa Domenica (Isola di Capo Rizzuto) a soli 20 metri dalla spiaggia. Una conferma di come il tratto di costa da Capo Rizzuto a Crotone abbia avuto in passato un ruolo di primo piano nelle rotte e nei traffici marittimi del Mediterraneo.
Analisi petrografiche e isotopiche compiute da Lorenzo Lazzarini dell’Università IUAV di Architettura di Venezia su campioni del carico lapideo ritrovato a Punta Scifo, hanno intanto permesso di identificare persino le cave di provenienza del marmo proconnesio. Si tratta di due diverse cave dell’isola di Marmara (Turchia). Dell’imbarcazione che lo trasportava non sono rimasti frammenti lignei ma è stato possibile, grazie all’ingegnere navale Simone Parizzi, ricostruirne le dimensioni calcolate in 40 metri circa di lunghezza e oltre 14 di larghezza, misure tali da far classificare questa nave tra le più grandi del mondo antico. Il carico di 350 tonnellate costituisce inoltre il più grande fra quelli conosciuti per un trasporto di marmi di quell’epoca, nonché uno dei tonnellaggi più elevati ricollegabili ad una imbarcazione naufragata nel Mediterraneo.
Le indagini relative ai marmi di Punta Scifo vanno a sommarsi allo studio e alla pubblicazione, nel 2009, di un altro carico di marmi ritrovato a Secca di Capo Bianco presso Capo Rizzuto, ma fino ad oggi non è stato mai affrontato in maniera seria e determinata il quesito su come rendere fruibile al pubblico questo immenso patrimonio subacqueo. Certo per sua natura esso non è esposto a rischi di depredamento, a differenza dei carichi di oggetti più maneggevoli ed appetibili per tombaroli e scavatori clandestini, ed ha inoltre il vantaggio di ricadere in un’Area Marina Protetta; questa non è però una ragione sufficiente a giustificare la scarsa considerazione verso giacimenti archeologici che al contrario potrebbero inserirsi fra i principali attrattori turistici lungo la fascia costiera fra Capo Colonna e Le Castella, ad esempio con visite guidate in immersione o mediante battelli dal fondo trasparente. Ipotesi che purtroppo devono fare i conti con la cronica mancanza di risorse economiche destinate al comparto archeologico e culturale in generale e soprattutto con la miopia di quanti si ostinano a non vedere le implicazioni economiche e occupazionali del nostro ricchissimo patrimonio storico.
Al momento non ci resta che registrare l’alto numero di reperti già restituiti dalle acque del Mar Jonio, pallido assaggio del tanto altro che ancora potrebbe emergere da quest’area, e ricordare anche alcune scoperte degli anni passati come quella – avvenuta nella baia nord di Le Castella – del relitto più antico (VI sec. a.C.) di nave carica di anfore corinzie per il trasporto del vino. Oppure ancora i cinque relitti risalenti al periodo tra il II ed il III secolo d. C. che trasportavano marmo semilavorato e lavorato proveniente dall’Asia Minore e dall’Africa. Uno dei più noti fra tali relitti è senza dubbio quello ritrovato casualmente a Punta Scifo agli inizi del ‘900 e oggetto di un recupero effettuato nel 1915 dal celebre archeologo Paolo Orsi, che ha permesso di individuare elementi marmorei anch’essi destinati probabilmente a qualche edificio pubblico di Roma. Non sono tuttavia mancati, nello stesso carico, un piccolo gruppo scultoreo raffigurante Amore e Psiche, oggi custodito insieme ad altri reperti nelle sale del Museo Archeologico di Capo Colonna.
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