di Claudio Schiano*
Circola nei social network, da qualche tempo, una curiosa notizia. Questa notizia – è bene dirlo subito – è falsa.
La notizia è che, sotto lo stretto di Messina, sarebbe stato ritrovato un tunnel scavato dagli antichi Romani per congiungere la Sicilia alla Calabria. Nata nei blog di curiosità locali, la notizia ha avuto una immediata diffusione, di condivisione in condivisione, da un “mi piace” a un tweet. Come sia nata è (forse) noto: tutto partirebbe da un articolo del Daily Mail, relativo a ritrovamenti (si spera siano veri, almeno questi) di tunnel sotterranei di età neolitica, lunghi qualche centinaia di metri, diffusi qua e là in un’area compresa tra la Scozia e la Turchia. Un sito satirico ha di lì preso spunto e immagini per confezionare la bufala del tunnel sotto lo Stretto. Ebbene: leggere una notizia su un sito dichiaratamente satirico – che parla, tra l’altro, di attacchi alieni sul Texas e di fantomatici incroci tra pesci e suini – aiuta certamente a intuire al volo l’inattendibilità della notizia, ma che fare quando a cascarci sono più “seri” blogger e addirittura organi di informazione locale e quindi quella notizia compare in luoghi donde li si potrebbe prendere per veri?
Interviene allora il senso critico. Quello che si cerca di sviluppare a scuola, quando si invitano gli studenti a non credere a ciò che leggono, per il semplice fatto che lo trovino scritto da qualche parte. Lo diceva anche Erasmo da Rotterdam: «con quale protervia agisce chi pensa che non si debba dubitare della minima cosa che si trovi imbrattata su qualche carta» (Adagia, 1778). In questo caso basterebbe una piccola riflessione: quando re Serse tentò la conquista della Grecia, per far sì che l’esercito passasse il braccio di mare dell’Ellesponto, costruì un ponte fatto di barche. Le fonti storiche celebrano l’impresa come una straordinaria levata di ingegno (e Erodoto si affatica a descrivere i prodigi da cui l’opera fu accompagnata: dalla solita eclissi solare, alla cavalla che partorisce una lepre); e ancor oggi sui libri scolastici di storia si racconta questa vicenda come degna di nota. Se i Romani fossero stati capaci di scavare un tunnel paragonabile (e forse neppure) per complessità a quello sotto la Manica, le fonti storiche ne avrebbero così concordemente taciuto? e Virgilio avrebbe continuato a descrivere Scilla e Cariddi come luogo dove si manifesta la supremazia della natura, o del sovrannaturale, sull’uomo?
In realtà, il punto di maggior interesse, a ben vedere, non è neanche questo. Ciò che è più interessante è la voracità con cui i lettori si sono lanciati su questa notizia, condividendola prima nei loro cuori che sulle loro tastiere, tacitando qualsiasi spirito critico. Ciò accade senza dubbio perché quella notizia ha in sé un fattore di attrazione, parla di qualcosa di importante, in qualche modo. Si tratta, a mio modo di vedere, dell’idea che la capacità di risolvere problemi attraverso un’azione collettiva che metta a frutto il meglio delle risorse umane appartiene al passato, non più al presente. E magari, soluzioni all’annoso problema della carenza infrastrutturale nel meridione d’Italia, i Romani ne avevano (o avrebbero potuto averne) più di noi e di trovarle e attuarle si preoccupava lo Stato. Che ciò non sia del tutto vero – storicamente vero – in fin dei conti potrebbe importare poco: importa molto di più che quel sentimento ampiamente condiviso sia così forte da travalicare il buon senso.
Ma mi sbaglio: non è giusto dire che sia poco importante che quel fatto sia storicamente reale oppure no. Di ponti, il passato da cui proveniamo ne ha costruiti tanti: qualcuno reale, qualcuno metaforico. Uno di questi ultimi è in grave stato di abbandono: parlo della abbazia di San Nicola di Casole, o di quel pochissimo che ne rimane. Un vero e proprio ponte tra l’Oriente e l’Occidente, importante nucleo di una realtà policentrica, quella del Salento bassomedievale, il cui ruolo nella costruzione e trasmissione di una cultura “europea” (per la poesia, per il pensiero filosofico, per il diritto) è noto agli specialisti, non alle masse. Un’iniziativa meritoria di un senatore, Dario Stefàno, per il recupero dei resti di questo monastero (se ne è parlato anche su Fame di Sud) ha avuto pochissima risonanza nei social network. E non voglio neppure pensare a quell’enorme patrimonio che è Pompei.
È qui, a me pare, il vero problema: la progressiva perdita di senso critico, spesso per disattenzione, impedisce di dare verità alle cose, e quindi di capire che cosa è importante, che cosa non lo è; su che cosa val la pena di investire, che cosa è invece effimero. Possiamo vivere senza un (finto) tunnel romano sotto lo Stretto, non possiamo vivere senza il lascito culturale di chi ci ha preceduti; ma rischiamo di doverne fare a meno, se non siamo in grado di tutelare quel lascito, che è fatto non solo di pietre, ma di pensiero e di conoscenze.
*Claudio Schiano (PhD), barese ma di famiglia campana, meridionale per nascita e vocazione, è ricercatore di filologia greca e latina all’Università di Bari, dove insegna Storia della tradizione classica nei corsi di laurea in Lettere. I suoi interessi di studio si concentrano sui meccanismi della tradizione: come le opere antiche sono state lette, trasmesse, utilizzate, manipolate, censurate, soppresse per costruire, in un percorso storico, la nostra coscienza di uomini moderni. Si è occupato, in particolare, di trasmissione manoscritta di testi scientifici (medicina e geografia), di opere greche di controversia tra cristiani e giudei nel Medioevo, di sopravvivenza della civiltà greca nella Puglia medievale, di ricezione rinascimentale degli Oracoli sibillini, di storia della filologia nell’Otto-Novecento. Ha pubblicato: Il secolo della Sibilla. Momenti della tradizione cinquecentesca degli «Oracoli sibillini» (edizioni di pagina, 2005); Dialogo di Papisco e Filone giudei con un monaco (Edipuglia, 2005); Artemidoro di Efeso e la scienza del suo tempo (Dedalo, 2010).