Lo rivelano due ricerche dell’Università di Bologna pubblicate tra 2017 e 2020. La prima ha ricostruito il fitto reticolo genetico che lega gli italiani del Sud a diversi popoli del Mediterraneo. La seconda ha individuato l’epoca remotissima in cui è iniziato il processo all’origine dell’eterogeneità genetica del nostro Paese
di Redazione FdS
Nel 1938 il regime fascista adottò quello che di recente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha definito “la più grave offesa recata dalla scienza e dalla cultura italiana alla causa dell’umanità”: l’allusione è a quel famigerato Manifesto della Razza sulla cui base si affermava l’esistenza di più razze umane su base biologica, “la purezza della razza italiana di origine ariana” e il dovere assoluto di evitare qualsiasi alterazione dei caratteri degli italiani mediante incroci con razze extra-europee. Una sequela di principi illogici e ascientifici serviti a giustificare una delle peggiori persecuzioni di massa della Storia, quella contro gli Ebrei del nostro Paese, che dall’essere “italiani” da almeno duemila anni, si ritrovarono nella condizione di corpo estraneo da espellere. Un’aberrazione storico-scientifica, quella della pura razza italiana, immediatamente rilevabile se solo si pensa a quanto l’Italia sia stata un crocevia di popoli delle più disparate origini, con una commistione di geni e di culture che hanno fatto la sua straordinaria ricchezza culturale. Oggi, ad attestare quanto e in che modo tale molteplicità di presenze abbia influito sulla composizione del ”mosaico” italiano è la scienza, quella vera, non asservita cioè alle ragioni del potere ma a quelle della conoscenza.
Uno studio pubblicato nel 2017 su Scientific Reports dall’Università di Bologna ha infatti identificato una base genetica comune che fin dall’Età del Bronzo si ramifica dalla Sicilia a Cipro, passando per Creta, le isole dell’Egeo e dell’Anatolia, i Balcani e la Grecia continentale, il Caucaso e il Medio Oriente. Ne è emerso un fitto reticolo di strade, rotte e incroci che svela le tracce di millenni di storia nascoste nel patrimonio genetico mediterraneo.
Lo studio – finanziato dalla National Geographic Society e dal Progetto ERC Langelin, e coordinato da Davide Pettener, antropologo del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Alma Mater – ha analizzato i marcatori genomici ad alta densità in un ampio campione di popolazioni della Sicilia e dell’Italia Meridionale, rivelando una fitta rete di migrazioni e scambi culturali a partire dalla prima colonizzazione del continente. Tra i luoghi sopra menzionati le parentele genetiche più strette sono risultate essere quelle con le isole mediterranee rispetto, per esempio, a quelle con gli abitanti della parte continentale della Grecia e dell’Albania. “Questa eredità mediterranea – ha spiegato la ricercatrice Unibo Stefania Sarno, autrice principale dello studio – risale ad epoche molto antiche, come risultato di una serie di migrazioni con picchi durante il Neolitico e l’Età del Bronzo”. Nell ricerca di tali connessioni, lo studio è riuscito però a spingersi ancora più ad est: nell’eredità genetica del Sud Italia i ricercatori sono infatti riusciti a identificare un importante contributo, durante l’Età del Bronzo, legato ad una “sorgente” fra il Caucaso e l’Iran settentrionale. Questa rivelazione apre un nuovo capitolo nello studio dei flussi migratori che hanno portato alla diffusione della famiglia linguistica più rappresentata in Europa: l’indoeuropeo.
La tesi dominante fino ad oggi era quella per cui l’indoeuropeo fosse stato diffuso dai popoli originari delle steppe a nord del Mar Nero e del Mar Caspio. Ebbene, se l’arrivo di vaste migrazioni durante l’Età del Bronzo a partire dalle steppe ha senza dubbio lasciato chiare tracce nella genetica di molte popolazioni dell’Europa centro-settentrionale e nord-orientale, queste tracce sono quasi assenti nell’area mediterranea. Pertanto, “la presenza di lingue indoeuropee come l’italiano, il greco e l’albanese non è spiegabile con il solo contributo migratorio dalle steppe”, ha sottolineato Chiara Barbieri, ricercatrice presso il Max Planck Institute for the Science of Human History di Jena, e coautrice dello studio. “Altri eventi, come migrazioni lungo le coste mediterranee a partire dal Caucaso, devono quindi essere valutati”.
La grande biodiversità del patrimonio genetico dell’Italia meridionale – rileva lo studio – è stata ulteriormente arricchita da fenomeni migratori “più recentii”, come nel caso delle minoranze etnico-linguistiche degli Arbereshe, dei Griki in Salento e dei Grecanici in Calabria. Se però è pacifico che gli Arbereshe, comunità di lingua albanese presenti in Sicilia e in Italia meridionale, risalgano a gruppi migrati dall’Albania all’Italia durante la fine del Medioevo e che abbiano mantenuto un’eredità genetica distinta rispetto alle popolazioni italiane circostanti, a riprova dell’origine balcanica recente, per le enclave ellenofone di Puglia e Calabria si passa dalla tesi di chi ritiene che ci sia una derivazione diretta dalle antiche colonie della Magna Grecia, a quella di chi le riconduce all’immigrazione di popolazioni ellenofone nel Medioevo provenienti dall’Impero bizantino. In tempi più recenti si è aggiunta una terza tesi secondo la quale il contributo bizantino si sarebbe innestato su comunità ellenofone più antiche già esistenti. A tal proposito non è forse un caso che le caratteristiche genetiche delle comunità ellenofone suggeriscono una maggiore antichità di insediamento e una permeabilità culturale più alta con le popolazioni vicine. “Lo studio degli ‘isolati’ linguistici e culturali in Italia – ha spiegato Alessio Boattini, antropologo dell’Università di Bologna – si è dimostrato particolarmente importante per comprendere determinate fasi della nostra storia genetica e demografica. I casi delle comunità di lingua greca e albanese dell’Italia meridionale aiutano a far luce sulla formazione di queste identità culturali e linguistiche, che partecipano in maniera determinante alla grande diversità genetica attualmente osservabile nel nostro paese”.
“Nel complesso – ha dichiarato Davide Pettener, docente e coordinatore della ricerca – questo studio sottolinea come una sinergia tra i punti di vista genetico e culturale possa aiutarci ad ottenere una maggiore comprensione delle dinamiche che hanno contribuito alla formazione del nostro patrimonio genetico mediterraneo, specialmente in contesti in cui i contatti tra popolazioni sono stati vasti sia da un punto di vista geografico che temporale”. “Futuri studi – ha aggiunto a sua volta la professoressa Donata Luiselli, co-responsabile del progetto – volti ad integrare dati provenienti da diverse discipline come la linguistica, l’archeologia e la paleo-genomica, con lo studio del DNA antico da resti archeologici, potranno espandere questi risultati fornendo nuovi tasselli per far luce sulla nostra storia biologica e culturale”.
LE ORIGINI DELLA RICCHEZZA GENETICA DEGLI ITALIANI
Uno di questi nuovi tasselli è lo studio pubblicato la scorsa primavera sulla rivista BMC Biology con il titolo “Genomic history of the Italian population recapitulates key evolutionary dynamics of both Continental and Southern Europeans”. Coordinato dai docenti dell’Università di Bologna Marco Sazzini, Claudio Franceschi e Paolo Garagnani in collaborazione con Patrick Descombes (Nestlé Research Center di Losanna, Svizzera) e Massimo Delledonne (Università di Verona), ha permesso non solo di confermare che gli italiani sono il popolo con la maggiore ricchezza genetica d’Europa, con un gradiente di variabilità del loro patrimonio genetico che si distribuisce da un estremo all’altro della penisola racchiudendo su piccola scala la stessa diversità genetica che differenzia i popoli dell’Europa Meridionale da quelli dell’Europa Continentale, ma anche che questa straordinaria eterogeneità ha iniziato a delinearsi già dopo il periodo di massima espansione dell’ultima glaciazione, cioè intorno ai 19.000 anni fa.
È la prima volta che un gruppo di scienziati riesce a ricostruire la storia genetica degli italiani spingendosi così indietro nel tempo. E i risultati hanno fatto emergere anche alcune peculiarità genetiche degli abitanti del Sud e del Nord Italia, che si sono evolute in risposta a differenti contesti ambientali. Peculiarità che concorrono a ridurre la suscettibilità a patologie come infiammazioni renali e tumori della pelle da un lato, diabete e obesità dall’altro, in alcuni casi favorendo anche la longevità.
“Studiare la storia evolutiva degli antenati degli italiani ci aiuta a comprendere meglio quali sono stati i processi demografici e di interazione con l’ambiente che hanno modellato il mosaico di ancestralità che osserviamo oggi nelle popolazioni europee”, ha spiegato Marco Sazzini, professore di Antropologia molecolare dell’Università di Bologna e tra i coordinatori dello studio. “Questa indagine ci fornisce inoltre informazioni utili per comprendere le caratteristiche biologiche della popolazione italiana attuale e le cause profonde che contribuiscono ad influenzarne la salute o la predisposizione a determinate patologie”.
Gli studiosi hanno iniziato col sequenziare l’intero genoma di quaranta individui, selezionati in modo da rappresentare con una buona approssimazione la variabilità biologica della popolazione italiana. L’analisi ha permesso di individuare più di 17 milioni di varianti genetiche. Gli studiosi hanno quindi messo a confronto questi dati, da un lato con le varianti genetiche già osservate in altre 35 popolazioni europee e del bacino del Mediterraneo, e dall’altro con quelle descritte dagli studi condotti su quasi 600 reperti umani riconducibili ad un arco temporale che si estende dal Paleolitico Superiore (circa 40.000 anni fa) fino all’Età del Bronzo (circa 4.000 anni fa). Da questi raffronti è stato possibile ricostruire la storia genetica degli Italiani, arrivando a identificare tracce lasciate nel patrimonio genetico italiano da eventi avvenuti dopo ultima glaciazione, appunto intorno ai 19 mila anni fa. Un risultato rivoluzionario perché sfonda la barriera temporale delle migrazioni avvenute tra 7.000 e 4.000 anni fa, durante il Neolitico e l’Età del Bronzo, alle quali si è ritenuto finora di poter ricondurre gli eventi più antichi di cui fosse rimasta chiara traccia nel DNA degli italiani. In altri termini gli adattamenti biologici all’ambiente e le migrazioni che hanno contribuito a porre le basi della eterogeneità genetica degli italiani sono molto più antichi di quanto fino ad ora ritenuto.
ITALIANI DEL NORD E DEL SUD: VARIAZIONI GENETICHE E AMBIENTALI
L’indagine ha permesso altresì di notare come nel processo di ”costruzione” della mappa genetica degli Italiani, a un certo punto abbiano cominciato ad essere evidenti delle piccole differenze osservabili tra i patrimoni genetici dei due gruppi che si collocano agli estremi del gradiente di variabilità genetica rilevato lungo la Penisola: parliamo degli italiani originari delle regioni del Sud e di quelli originari delle regioni del Nord. “Le popolazioni antenate di questi due gruppi italiani hanno mantenuto andamenti demografici pressoché sovrapponibili a partire da oltre 30.000 anni fa e per la restante parte del Paleolitico Superiore”, ha spiegato Stefania Sarno ricercatrice dell’Università di Bologna e co-prima autrice del lavoro. “Una differenziazione significativa tra i loro pool genici si può però osservare già dal periodo Tardoglaciale, quindi diverse migliaia di anni prima delle grandi migrazioni che hanno interessato l’Italia a partire dal Neolitico”. L’ipotesi esplicativa per questa sopravvenuta diversificazione è che con l’aumento delle temperature e la conseguente diminuzione dei ghiacciai presenti nell’Italia settentrionale, alcuni gruppi che erano sopravvissuti alla glaciazione in “aree rifugio” dell’Italia centrale si siano spostati verso nord, allontanandosi e isolandosi così progressivamente dagli abitanti dell’Italia meridionale.
Gli studiosi ritengono di aver ravvisato tracce di questi spostamenti post-glaciali nel genoma degli abitanti dell’Italia settentrionale. Gli italiani del Nord hanno infatti un’affinità genetica maggiore con reperti associati ad antiche culture europee come quella Magdaleniana e quella Epigravettiana (datati rispettivamente tra 19.000 e 14.000 anni fa e tra 14.000 e 9.000 anni fa). Nel pool genico degli Italiani del Nord si osserva anche una maggiore presenza di componenti di ancestralità ancora più antiche, come quelle tipiche dei cacciatori-raccoglitori dell’Est Europa. Al contrario, nel DNA degli abitanti del Sud Italia queste tracce legate a migrazioni post-glaciali sembrano non essersi mantenute, a causa del notevole rimodellamento del loro patrimonio genetico dovuto ad eventi più recenti. Lo testimonia la maggiore affinità genetica con reperti neolitici dell’Anatolia e del Medio Oriente e con reperti dell’Età del Bronzo rinvenuti nel Caucaso Meridionale. Questo perché l’Italia del Sud, a differenza delle regioni settentrionali, ha rappresentato un punto nevralgico delle rotte migratorie che prima hanno diffuso l’agricoltura nel bacino del Mediterraneo durante la transizione Neolitica e poi, durante l’Età del Bronzo, hanno introdotto una componente di ancestralità differente rispetto a quella associata alle popolazioni delle steppe, che si è invece diffusa nello stesso periodo in tutta l’Europa Continentale e in Nord Italia.
Inoltre i due gruppi (Nord e Sud), con la fine dell’ultima glaciazione hanno iniziato a sperimentare contesti ecologici e ambientali sempre più diversi, che hanno via via contribuito all’emergere di differenze e peculiarità nel loro patrimonio genetico. Le popolazioni che hanno ripopolato l’Italia settentrionale hanno continuato per millenni a sopportare brusche variazioni climatiche e pressioni ambientali simili a quelle dell’ultimo massimo glaciale. Una circostanza che ha portato all’evoluzione di adattamenti biologici specifici. Ad esempio, lo sviluppo di un metabolismo adatto ad una dieta altamente calorica e ricca di grassi animali, indispensabile per sopravvivere in un clima rigido. “Negli individui originari del Nord Italia abbiamo individuato modificazioni a carico di reti di geni che regolano la secrezione di insulina, la produzione di calore corporeo e il metabolismo del tessuto adiposo”, ha spiegato Paolo Garagnani docente di Patologia generale dell’Università di Bologna. “Questi adattamenti potrebbero rappresentare oggi preziosi fattori protettivi nei confronti dello sviluppo di patologie come il diabete e l’obesità”.
Nello stesso periodo, le regioni del Centro e del Sud Italia hanno visto invece instaurarsi un clima via via più mite, che ha esposto le popolazioni a pressioni ambientali diverse. Nei genomi degli individui originari del Sud Italia lo studio ha identificato ad esempio modificazioni a carico di geni che codificano proteine presenti sulle mucose dell’apparato respiratorio e gastro-intestinale (chiamate mucine), il cui compito è impedire l’ingresso dei patogeni nei tessuti. “Questi adattamenti potrebbero essersi evoluti per contrastare antichi microorganismi”, ha affermato Paolo Abondio dottorando dell’Università di Bologna e co-primo autore del lavoro. “Varianti di alcuni di questi geni sono state inoltre associate ad una minore suscettibilità alla nefropatia di Berger, la più comune patologia infiammatoria che colpisce i reni e che presenta effettivamente un’incidenza molto minore nel Sud Italia rispetto al Nord”.
Sempre guardano al genoma degli individui originari dell’Italia meridionale, gli studiosi hanno evidenziato anche altre caratteristiche peculiari. Una di queste è relativa a modificazioni dei geni che regolano la produzione di melanina, il pigmento responsabile della colorazione della pelle, evolute con ogni probabilità in risposta alle giornate di sole frequenti e intense tipiche delle regioni mediterranee, e che potrebbero contribuire ad una minore predisposizione ai tumori della pelle degli italiani del Sud. “Abbiamo inoltre notato che varianti di alcuni di questi geni, così come di quelli responsabili di altri adattamenti tipici degli Italiani del Sud e che coinvolgono il metabolismo dell’acido arachidonico e i fattori di trascrizione FoxO, da tempo sono state associate ad una considerevole longevità”, ha spiegato Claudio Franceschi professore emerito dell’Università di Bologna.
IL TEAM DI RICERCA
Per l’Università di Bologna hanno contribuito i ricercatori del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali (afferenti al Laboratorio di Antropologia Molecolare e Centro di Biologia Genomica) Marco Sazzini, Paolo Abondio, Stefania Sarno, che hanno firmato il lavoro come primi autori, oltre a Sara De Fanti, Claudia Ojeda-Granados, Cristina Giuliani, Alessio Boattini e Davide Pettener; e quelli del Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale Chiara Pirazzini, Elena Marasco, Gastone Castellani, Claudio Franceschi e Paolo Garagnani. Gli studiosi hanno operato riuniti in un unico gruppo di ricerca nell’ambito delle attività del Centro Interdipartimentale “Alma Mater Research Institute on Global Challenges and Climate Change”. Sempre per l’Università di Bologna ha collaborato anche Donata Luiselli del Dipartimento di Beni Culturali. Inoltre, hanno partecipato Guido Alberto Gnecchi Ruscone del Max Planck Institute for the Science of Human History di Jena (Germania), Massimo Delledonne, Luciano Xumerle e Alberto Ferrarini dell’Università di Verona e ricercatori del Nestlé Research Center di Losanna (Svizzera), del Policlinico di Milano, dell’Università degli Studi di Firenze e dell’Università della Calabria.
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Al di là dello straordinario interesse scientifico di questi due studi, in grado di ricostruire millenni di storia attraverso il nostro DNA, emerge un importante risvolto sociale, soprattutto in un’Italia in cui torna a serpeggiare subdolo lo spettro del razzismo, e cioè la consapevolezza di essere un popolo di migranti nelle cui vene scorre la storia delle genti del Mediterraneo che, spinte dai cambiamenti climatici e dai venti della storia, si sono via via incrociate, separate e ricombinate in molteplici formulazioni genetiche e culturali in questa stretta lingua di terra protesa sul mare che è il nostro Paese. Una realtà ormai innegabile anche per la scienza, come lo era già per l’intuizione logica, nonché incompatibile con qualsivoglia ascientifico concetto di ”razza”; una verità basilare da tenere sempre ben presente quando ci si approccia allo spinoso e delicatissimo tema delle migrazioni contemporanee che vede il nostro Paese al centro del dibattito internazionale.
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