di Alessandro Novoli
Porta il nome del mitico re degli Enotri e con i suoi 1230 anni di età il pino loricato “Italus”, individuato nel Parco Nazionale del Pollino, è stato definito “l’albero più antico d’Europa”. A dirlo è l’Università del Salento (Lecce) che di recente lo ha datato con strumenti scientifici altamente sofisticati. Tuttavia, la presenza nell’Elenco nazionale degli alberi monumentali d’Italia curato dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, di alberi dalle proporzioni ciclopiche che datazioni tradizionali vogliono di gran lunga più anziani di questo – basti pensare all’Olivastro di Luras (OT) con la sua circonferenza di 12 m per un’altezza di 8 o al Castagno dei Cento Cavalli di Sant’Alfio (Ct) con i suoi 22 metri di circonferenza e altrettanti di altezza, esemplari per i quali è stata da tempo stimata un’età superiore ai 2000 anni – suggerisce di lasciare sospeso il giudizio definitivo in attesa di una loro nuova datazione con i metodi scientifici più avanzati. Le sorprese potrebbero infatti essere ancora tante. Intanto vediamo come hanno proceduto nel caso del pino loricato gli studiosi salentini, membri del team internazionale di ricerca guidato dal professor Gianluca Piovesan dell’Università della Tuscia di Viterbo.
Per pervenire a una datazione assoluta con il radiocarbonio, hanno utilizzato l’acceleratore di particelle Tandetron presso il CEDAD, il Centro di Fisica Applicata Datazione e Diagnostica del Dipartimento di Matematica e Fisica “Ennio De Giorgi” dell’Università del Salento, specializzato nel campo delle tecniche nucleari per la datazione e le analisi isotopiche e dei materiali. Il risultato è stato presentato nei giorni scorsi nel corso della conferenza internazionale “Radiocarbon” a Trondheim, in Norvegia, al quale ha partecipato l’intero team di ricerca.
La ricerca ha permesso di andare oltre la mera datazione dell’albero. Gli scienziati del CEDAD hanno infatti usato una serie di anelli di accrescimento annuale di Italus, selezionati dagli altri ricercatori coinvolti nel progetto, come “archivio” per ricostruire il contenuto di radiocarbonio nell’aria negli ultimi 1.230 anni. Il radiocarbonio (un isotopo radioattivo del carbonio), noto per il suo uso nella datazione dei reperti archeologici, si produce infatti continuamente nell’atmosfera della Terra per effetto dei raggi cosmici che provengono dal Sole e dal resto dell’Universo. Quanto più intenso è questo “bombardamento” tanto più radiocarbonio si produce e tanto più ne viene assorbito dagli organismi viventi. Qui è entrata in gioco un’idea degli scienziati e lo studio su Italus ha permesso di verificarla: misurando la quantità di radiocarbonio in ogni singolo anello del pino loricato è stato possibile risalire all’intensità del “bombardamento” in un determinato anno.
“Abbiamo analizzato con l’acceleratore del CEDAD la quantità di radiocarbonio contenuta in singoli anelli di Italus e abbiamo identificato un aumento anomalo dell’anno 993-994 dopo Cristo” – spiega il professor Lucio Calcagnile, direttore del CEDAD – “Si tratta di uno dei cosiddetti eventi di Miyake dovuti, probabilmente, a un aumento molto significativo dell’attività solare connessa all’emissione di protoni di alta energia da arte del Sole, i cosiddetti SPE: Solar Proton Events. Per la prima volta questo evento viene indentificato in Italia e in un albero vivente”.
“L’identificazione di questi eventi rappresenta una sfida da un punto di vista scientifico, perché richiede un’accurata selezione dei campioni, complesse procedure di trattamento chimico e, soprattutto, precisioni e sensibilità strumentali al limite delle capacità tecniche disponibili” – commenta il professor Gianluca Quarta, docente di UniSalento e co-autore della scoperta. “La sfida ora è identificare altri eventi di questo tipo (certamente ve ne è stato un altro ancora più intenso nel 774-775 dopo Cristo), stabilirne la natura e l’eventuale periodicità. Con la consapevolezza che, se nel passato un evento di questo tipo portava solo a vedere le aurore boreali anche alle nostre latitudini, oggi provocherebbe danni ingentissimi ai sistemi di telecomunicazione e ai satelliti, e sarebbe un serio rischio per molte delle tecnologie cui siamo quotidianamente abituati”.
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