di Alessandro Novoli
Dopo la Calabria della “Anime nere” di Francesco Munzi – ritratto livido e inquietante delle cosche di ‘ndrangheta – che nel 2015 ha fatto incetta di David di Donatello, l’occhio del Cinema torna a posarsi sul volto più ruvido di una regione lacerata dalle contraddizioni, una terra la cui prepotente bellezza convive con realtà oscure dalle cui ombre, purtuttavia, emergono storie di toccante umanità. Sono esse ad attrarre soprattutto i cineasti, quasi che le ferite sociali e territoriali ancora irrisolte tolgano rilevanza a forme ulteriori di approccio narrativo che forse un giorno troveranno interpreti altrettanto appassionati. Intanto non si può non registrare il successo alla 63a edizione dei David di Donatello, gli oscar del cinema italiano, di due nuove giovani leve del grande schermo – Jonas Carpignano e Alessandro Grande – che attraverso il linguaggio del lungometraggio e del corto hanno eletto la Calabria a loro fonte di ispirazione. Due cineasti che, pur seguendo ciascuno il proprio registro espressivo, hanno in comune la volontà di esplorare, con un approccio fra documentario e finzione, alcuni microcosmi di questa terra, osservati dal loro interno e nei rapporti con la realtà che li circonda. Un “cinema del reale”, attento a contesti a volte invisibili ai più e quindi pronto a discostarsi dai terreni già esplorati per “tornare a occuparsi di ciò che succede intorno a noi…con amore, rabbia, acutezza di stile”, per usare le parole di Daniele Vicari, regista del già pluripremiato “Diaz”.
JONAS CARPIGNANO: CALABRIA, DA SET A TERRA D’ELEZIONE
A Jonas Carpignano è andato il David per la Miglior Regia per il film ‘A Ciambra, candidato a 7 statuette (miglior film; migliore regia; migliore sceneggiatura originale; migliore produttore; migliore autore della fotografia; miglior suono; miglior montaggio, premio quest’ultimo andato ad Alfonso Goncalves). Questa sua seconda prova cinematografica, nata nel 2017 dall’omonimo cortometraggio che si fece notare nel 2014 alla Semaine de la Critique di Cannes vincendo il Discovery Prize e ottenne una menzione speciale ai Nastri d’Argento, è una full immersion in una comunità Rom di Gioia Tauro (Reggio Calabria), raccontata attraverso lo sguardo di Pio, 14enne interpretato in modo sorprendente da un vero rom (Pio Amato), che nel film appare insieme alla sua famiglia in realistiche scene di vita quotidiana, fra crimini e momenti di unità domestica. E’ il racconto di un percorso di formazione all’interno di una comunità che vive ai margini di una realtà locale già lacerata dai suoi problemi, nella quale il proverbiale spirito di libertà degli zingari è messo a dura prova dai difficili ed inevitabili rapporti di convivenza con altre realtà umane come la criminalità locale e la comunità degli immigrati africani, ma riemerge simbolicamente nel corso del film in alcuni momenti di grande forza poetica. Carpignano accende così un riflettore su un mondo per molti versi impenetrabile che ha accettato di farsi raccontare in un film a cui è andato l’apprezzamento del grande regista Martin Scorsese, che ha scelto di sostenerlo attraverso il fondo creato con altri produttori per supportare registi emergenti, oltre a svolgere un ruolo decisivo – ha raccontato Carpignano – nella individuazione del giusto equilibrio fra racconto della realtà e finzione. Hanno sostenuto il film anche il sodalizio fra la Calabria Film Commission e la Lucania Film Commission (Lu.Ca), il Mibact e Rai Cinema. Dopo il debutto alla Quinzaine des Realisateurs al Festival di Cannes, dove ha vinto il premio Europa Cinema Label, il film è uscito lo scorso agosto nelle sale, poco prima che la Commissione di Selezione istituita dall’Anica lo designasse come film italiano da far concorrere agli Oscar 2018, scelta purtroppo non tradottasi in una nomination da parte dell’Academy.
Inusuale l’incontro fra il regista e quel mondo che qualche anno dopo avrebbe scelto di rappresentare sul grande schermo prima con il corto ‘A Ciambra, vincitore del premio Sony CineAlta Discovery alla Semaine de la Critique di Cannes 2014, poi con l’omonimo lungometraggio: “Ho conosciuto i rom di ‘A Ciambra, nome dialettale della contrada in cui vivono, nel 2011, quando mi era stata rubata la macchina con tutta l’attrezzatura cinematografica ed ero andato da loro per riaverla indietro. Restai subito colpito da quella realtà, tra i bambini che fumavano, guidavano e l’unione della comunità, che è un punto di forza, ma anche di debolezza. Lì ho incontrato per la prima volta Pio, allora 11enne, in giacca di pelle e sempre con la sigaretta in mano. Mi seguiva dappertutto, in qualche modo mi ha scelto lui. E attraverso di lui ho incontrato e sono stato accettato dalla sua famiglia. Con lui ho anche girato un corto ed ha avuto anche un piccolo ruolo nel mio film d’esordio ‘Mediterranea”’. L’essere entrato a stretto contatto con un contesto così particolare e la convinzione, come cineasta, che sia “importante rispettare e trasmettere la realtà”, ha fatto sì che il film assumesse un approccio quasi documentaristico: “Ho inserito – puntualizza Carpignano – scene ed esperienze che gli Amato vivono realmente. Loro non avevano problemi a far vedere le loro attività come i furti, di cui vanno quasi fieri. Lo vedono come un modo di sopravvivere, non si considerano ladri”.
L’esperienza italiana di Jonas Carpignano – classe 1984, newyorchese di padre romano e madre afroamericana con radici alle Barbados – è quella di un’emigrazione al contrario. Lasciata la New York della sua vita familiare e dei suoi studi di cinema alla Wesleyan University, ha infatti deciso di trapiantarsi a Gioia Tauro, in Calabria, dove ormai vive da oltre 7 anni. Nipote d’arte – il nonno paterno, Vittorio Carpignano, era regista e produttore di Caroselli negli anni sessanta, mentre lo zio, Luciano Emmer, è il noto autore di Domeniche d’agosto, con Marcello Mastroianni, e di numerosi altri film e documentari -, racconta di aver coltivato negli anni un rapporto talmente intenso con il cinema italiano da scegliere il nostro Paese come luogo in cui sviluppare la propria carriera cinematografica. Nato e cresciuto nel Bronx, dove ha avuto modo di forgiare la propria sensibilità sul tema delle discriminazioni razziali, nel 2010 è rimasto colpito dalla rivolta dei migranti africani scoppiata a Rosarno, in Calabria, dopo una serie di aggressioni ai loro danni che per reazione suscitarono veri e propri episodi di guerriglia urbana; alla base di tutto l’attività di sfruttamento dei ”nuovi schiavi” nelle piantagioni di agrumi della zona e l’infiltrazione della ‘ndrangheta nella gestione dei fondi europei per la loro coltivazione.
Da questa vicenda sono nati il pluripremiato corto ‘A Chjana (vincitore a Venezia nel 2013 nella sezione Controcampo) e poi ‘Mediterranea’, lungometraggio d’esordio nel quale Carpignano – toccando i temi dell’immigrazione, del razzismo dell’integrazione e della solidarietà – ha raccontato la storia vera di due amici e del loro viaggio dall’Africa alla Calabria, tra gli aranceti della piana di Gioia Tauro, tragitto che il regista ha voluto sperimentare in prima persona per fornire al pubblico “non una semplice ricostruzione, ma una testimonianza fedele della realtà dei fatti”. Fra gli interpreti, Koudous Seihon e Alassane Sy, i veri protagonisti della vicenda che interpretano se stessi con bravura da attori consumati insieme a un cast tutto preso dalla strada. Sullo sfondo una Calabria fuori dagli stereotipi, angolo d’Italia ormai globalizzato, attraversato da un flusso continuo di arrivi e partenze, un luogo nel quale molteplici identità, culturali e morali, si incontrano e si confrontano, fra conflittualità e integrazione. Il film è il risultato di un progetto indipendente ed è stato girato in pellicola e in lingua originale, senza doppiatori e coi sottotitoli, sulla base di una sceneggiatura elaborata in collaborazione con gli stessi immigrati clandestini. Presentato alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione “Giornata degli autori”, si è aggiudicato il premio LUX 2015 del Parlamento Europeo riservato ai film che danno risalto alle diversità culturali. Acquistato in tutto il mondo, è stato presentato in anteprima nazionale a Rende (Cosenza) dove, nell’ambito dell’omonimo festival di cinema contemporaneo, ha vinto il Premio Mario Gallo, riconoscimento intitolato al produttore originario di Rovito che ha finanziato, tra gli altri, film di Fellini, Visconti e Bertolucci. Fra gli altri premi, Carpignano ha ricevuto il Gotham Independent Film Awards 2015 come ‘regista rivelazione’ e il National Board of Review Awards 2015 come ‘miglior regista esordiente’.
Questo film ha anche sancito il consolidamento del legame fra il giovane regista e la Calabria, tradottosi in una vera e propria scelta di vita, condivisa anche da John Copeland, uno dei produttori della pellicola, trasferitosi anch’egli a Gioia Tauro: “Il motivo iniziale che mi ha portato in Calabria – ha detto Carpignano – è stato quello di voler approfondire la vicenda degli scontri di Rosarno del 2010. Poi ho iniziato a lavorare ai miei progetti e nel frattempo ho conosciuto tante persone. Pensavo che sarei andato via una volta finito il lavoro, ma dopo tanto tempo passato qui non sono più partito. Ormai la mia vita si era radicata in questo luogo…Non so, forse ad attrarmi sono stati i ritmi più lenti della Calabria, che mi rendono più facile vivere e lavorare. E poi qui ogni persona che incontri è un personaggio, l’ideale per chi fa un mestiere come il mio”.
ALESSANDRO GRANDE: CINEMA, FINESTRA SULL’ATTUALITA’
Trentacinque anni e un percorso costellato di riconoscimenti, quello di Alessandro Grande, calabrese di Catanzaro approdato a Roma dove si è laureato in Comunicazione multimediale con specializzazione in Storia e Critica del cinema prima di dedicarsi agli studi di regia e sceneggiatura cinematografica, discipline diventate suo terreno d’elezione. Lo abbiamo infatti ritrovato ai David di Donatello 2018 con Bismillah film premiato quale miglior cortometraggio della stagione; una produzione nata a Catanzaro grazie alla Indaco Film e al supporto della Fondazione Calabria Film Commission, del Comune di Catanzaro e di Rai Cinema. “Sono profondamente emozionato – ha commentato Grande – nel ricevere questo riconoscimento che ripaga i grandi sacrifici fatti in questi anni. Ringrazio quanti mi hanno affiancato in questa avventura”. Quest’ultimo lavoro, giunto dopo altri progetti low budget realizzati senza alcun supporto pubblico (puntualmente negato ad ogni richiesta di finanziamento), conferma la propensione di Grande per i temi sociali emersa fin dalla realizzazione di In my prison, corto presentato nel 2010 al Roma Fiction Fest e destinatario di oltre 100 selezioni ufficiali in tutto il mondo e più di 40 riconoscimenti. Un successo rinnovatosi nel 2013 con Margerita, metafora poetica sul tema dell’integrazione, presentato al 43° Giffoni Film Festival con ottimi riscontri di critica e vincitore di ben 78 premi in tutto il mondo oltre ad essere arrivato in finale ai Nastri d’Argento. Un percorso non facile quello di Alessandro Grande, ma tale da spianare la strada che lo avrebbe portato ad entrare di diritto nei piani alti del cinema italiano con il prestigioso riconoscimento tributato a Bismillah, corto il cui titolo trae spunto dalla formula araba con cui si aprono tutte le sure del Corano tranne la IX e traducibile come “In nome di Dio, Clemente, Misericordioso”.
Il film torna non a caso a parlare del dramma dell’emigrazione e lo fa attraverso lo sguardo della piccola Samira, una tunisina di 10 anni giunta illegalmente in Italia con il padre e il fratello. Il contesto è quello della ‘primavera araba’ che nel 2011 portò in Italia circa 23 mila immigrati tunisini, un numero inedito per il nostro Paese e per oltre la metà composto da persone rimaste qui a vivere in clandestinità. Protagonista nei panni della bambina è Linda Mresy, selezionata dopo numerosi provini organizzati con il centro socio-culturale tunisino di Roma, ma nel cast troviamo anche il talentuoso attore catanzarese Francesco Colella, già apparso in Piuma, pellicola diretta da Roan Johnson e selezionata in concorso alla 73ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. “Quella narrata in Bismillah – spiega Alessandro Grande – è una storia di amore e fratellanza che ho cercato di raccontare attraverso la ricerca dei piccoli gesti quotidiani fondamentali per riuscire a convivere con il ricordo della sofferenza e tenere viva la fiamma della speranza”. Tema portante del film è quello delle paure e delle insicurezze che attanagliano quanti si ritrovano a vivere in una terra che non è la propria, lacerati fra la speranza di costruire un futuro migliore e il terrore di essere rispediti indietro: è il dissidio interiore di Samira, 10 anni, smarrita di fronte alla febbre e al malessere fisico del fratello diciassettenne Jamil, perché sa che un ricovero in ospedale esporrebbe l’intera famiglia al rischio di un rimpatrio. Alessandro Grande, facendo riecheggiare con forza, in un film di appena 14 minuti, le emozioni contrastanti di questi ragazzi, porta lo spettatore a immedesimarsi nelle angosce della protagonista che, svincolandosi da ogni contingenza di tempo, di luogo, di etnia, acquistano un carattere di universalità. Nella trattazione di un dramma antico e contemporaneo come quello dell’emigrazione, Grande riesce dunque a nutrire di emozioni e sentimenti la rappresentazione delle azioni, superando il mero approccio documentaristico e spostandosi sul terreno di un cinema neorealista dal rinnovato vigore.
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