Lo storico Augusto Placanica, scrivendo della Calabria, afferma che questa regione possiede “una naturale opulenza”, aggiungendo anche che “gli abitanti, abituati a quest’abbondanza sono portati a disinteressarsene completamente” (da “Storia della Calabria: dall’antichità ai giorni nostri”, Donzelli editore, 1999) .
Ho più volte ribadito nei miei post come la Calabria sia depositaria di una cultura millenaria, i cui tratti sono ben visibili ancora oggi sul territorio e se qualcuno si è sforzato di oscurarne una parte considerevole, non inserendola nei libri di storia, non si è potuto fare a meno di parlare di personaggi come Pitagora, Tommaso Campanella, Bernardino Telesio, Luigi Lilio (solo per citarne alcuni). Dunque, questo lembo dell’estremo Sud Italia non è quella terra di nessuno dove la fanno da padrone i boss e i loro scagnozzi, ma è depositaria di una civiltà multiforme che era ben sviluppata già migliaia di anni fa e che ha fatto scuola al mondo intero.
Inoltre, se pensiamo che l’apporto culturale espresso dalla Calabria nel corso dei secoli si sia limitato soltanto a cose come le scienze, la filosofia, l’erudizione, la maestria nel campo dell’artigianato, ci sbagliamo, perché in questa regione (e nel Sud Italia in generale), già migliaia di anni fa si praticava quello stile di alimentazione successivamente diventato noto come “Dieta mediterranea”, dal 2010 riconosciuto dall’UNESCO Patrimonio Immateriale dell’Umanità.
Leggendo il volume dal titolo “Alimentazione e cibo nella Calabria popolare” del giovane autore catanzarese Luigi Elia (Biblioteka edizioni, 2014), si compie un meraviglioso viaggio a ritroso nel tempo, fino all’epoca della Magna Grecia e si scoprono le abitudini alimentari del popolo calabro e le connessioni con le contingenze storiche e politiche che le influenzarono.
Questo volume mette in evidenza come, grazie alle sue caratteristiche, il modello alimentare dei paesi del bacino mediterraneo si distinguesse per la sua elevata salubrità. Fu il nutrizionista italiano Lorenzo Piroddi il primo ad introdurre il concetto di dieta mediterranea, negli ultimi anni trenta del secolo scorso e a sottolinearne le virtù.
In seguito, (cito testualmente il testo di Elia) “grazie agli studi condotti dal nutrizionista e fisiologo Ancel Keys, tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, ci si accorse come le persone meno abbienti dei piccoli paesi del sud Italia, mangiatori di pane, cipolla e pomodoro, apparivano essere più sani sia dei cittadini di New York, sia dei loro stessi parenti emigrati anni prima negli Stati Uniti. Ancel Keys, dunque, cominciò a studiare in modo approfondito la dieta dei cittadini di Nicotera (piccolo comune della fascia tirrenica calabrese), che ben presto venne considerata ‘dieta mediterranea di riferimento’ “.
A questo punto, è doveroso capire cosa mangiassero questi abitanti di Calabria per essere considerati un modello di riferimento. Iniziamo col dire che si trattava di una dieta sobria e tendenzialmente vegetariana, con elevato consumo di frutta, verdura e legumi e un buon consumo di pesce azzurro, mentre scarso era quello di carne. Elia racconta poi che i cittadini di Nicotera condivano i loro cibi con strutto di maiale e talvolta con il prezioso olio di oliva. Queste ultime erano il companatico prediletto e non poteva mancare il buon vino.
E così, ignari di portare avanti un regime alimentare dalle caratteristiche salubri straordinarie, gli abitanti di Nicotera introducevano un’energia giornaliera così ripartita: 13/15% di proteine (di cui almeno il 50% di origine vegetale), 25/30% di grassi (con preferenza di olio extravergine di oliva e grassi presenti nel pesce), 55/60% di carboidrati ( la gran parte dei quali complessi: pane integrale, farina, pasta, riso, mais).
Insomma, scorrendo le pagine di questo volume, si comprende come curiosamente, nel corso dei millenni, i contadini poveri delle campagne di Calabria, siano stati virtuosi (per forza di cose), tenendo lontani dalle loro tavole i cibi più dannosi per la loro salute, come la carne che, insieme ai pesci pregiati, al pane bianco ed alla frutta, al vino e all’olio di olive abbondava invece su quelle delle persone più abbienti.
E le virtù di queste povere genti abbracciavano anche il campo religioso. Infatti come suggerisce il libro di Elia, pare che l’abate Gioacchino da Fiore, attribuisse al digiuno e ai cibi vegetali un grande valore spirituale, in quanto facilitavano il rapporto con Dio.
Purtroppo oggi, con l’avvento di modelli e stili di vita globalizzati, le cose non sono più come una volta e il giovane esperto ha potuto constatare, mediante degli studi da lui condotti che in gran parte della regione calabra, il modello alimentare mediterraneo è stato messo da parte a favore di nuovi stili di nutrizione caratterizzati dall’abbondanza di carne rossa, scarso consumo di frutta e verdura, grandi quantità di cibi molto calorici, ricchi di grassi e proteine di origine animale.
Le abitudini alimentari virtuose però esistono ancora in Calabria e, secondo l’autore, sono attribuibili alle minoranze etniche grecofone e albanofone e a gruppi di vecchi marinai e contadini che non risulterebbero contaminati dalla globalizzazione alimentare e verso i quali Elia ritiene dovrebbe concentrarsi una parte della ricerca scientifica “sempre più orientata a radicarsi laddove esistano concerete opportunità di profitto”.
Il giovane autore catanzarese fa luce sul dimenticato mondo popolare di Calabria anche mediante il recupero delle sue antiche tradizioni culinarie, legate a vari tipi di celebrazioni. Inoltre, un’intera sezione del volume è stata dedicata ai piatti popolari della tradizione calabrese, un vero proprio ricettario mediterraneo che descrive ingredienti e metodi di preparazione di antiche pietanze.
Ancora un altro gesto d’amore verso la misconosciuta terra di Calabria da parte di una giovane mente che rivaluta l’immenso potenziale di questa terra e della sua storia millenaria.
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