di Redazione FdS
Sorge al culmine di un territorio che vanta più di duemila anni di storia. Secoli di stratificazioni rendono il duomo di Acerenza (Potenza) un vero palinsesto di pietra, mentre nobili casati, leggende e misteri si intrecciano in una trama densa di fascino intorno ad un vero gioiello di architettura diviso fra Medioevo e Rinascimento.
Fa freddo, molto freddo mentre ci dirigiamo verso uno fra i borghi più belli d’Italia. Ufficialmente compreso nel club di quei centri (comuni e frazioni) che si distinguono per integrità del tessuto urbano, armonia architettonica, vivibilità del borgo, qualità artistico-storica del patrimonio edilizio pubblico e privato e servizi al cittadino, Acerenza svetta a quasi novecento metri sul livello del mare. Percorriamo il tragitto attraversando, negli ultimi venti chilometri che ci separano dalla meta, altopiani spolverati da una recente e abbondante nevicata. Alcuni alberi spogli appaiono ricoperti solo da una leggiadra trina di cristalli di neve che riflette la poca luce diretta filtrante da un cielo plumbeo solo a tratti rallegrato dal volo maestoso ed elegante di numerosi falchi e nibbi reali, ora in coppia ora in solitaria. Sono tanti, e il loro volo non può non evocare idealmente gli antichi fasti medievali dell’arte della caccia col falcone a cui Federico II di Svevia dedicò un bellissimo trattato.
Paesaggi silenziosi si alternano ad altri popolati di bianche pale eoliche il cui rumore non supera quello di una leggera raffica di vento. Dalle curve che costeggiano l’antico borgo di Cancellara intravediamo Acerenza ergersi maestosa sulla sommità di un colle, colpita da un raggio di sole che fende il grigiore delle nubi e allarga progressivamente il suo campo d’azione sul borgo come un teatrale ‘occhio di bue’.
Salendo verso il paese l’aria si fa sempre più tagliente ma il clima rigido è reso sopportabile da una vista mozzafiato che spazia all’orizzonte fra le valli e quelle colline che morbidamente contrassegnano il paesaggio nella terra di Orazio. Robusti contrafforti in pietra circondano il ripido altopiano che sorregge il paese incastonato fra il fiume Bradano e il suo affluente Fiumarella, quasi a guardia di un territorio per il quale, non a caso, Acerenza ha avuto nei secoli un importante ruolo strategico.
ALLE ORIGINI
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Percorriamo a piedi la strada che porta nel punto più alto del borgo e scopriamo che la storia della Cattedrale si intesse con la storia stessa di Acerenza. La chiesa affonda infatti le sue radici più remote su una chiesa paleocristiana (costruita dopo il leggendario passaggio di S. Pietro) a sua volta eretta su un antico tempio pagano d’epoca romana dedicato ad Ercole Acheruntino (detto anche Taumaturgo), epiteto che allude all’antico nome di Acerenza, ossia Acheruntia, citata dagli scrittori romani Tito Livio e Orazio. Il nome sembra derivare dal greco Αχερουντία che secondo alcuni significherebbe ‘luogo alto’ mentre secondo una diversa tesi riporterebbe al mitico fiume che collega il mondo dei vivi con gli Inferi. A quanto pare la storia della presenza umana sul luogo deve farsi risalire almeno al VI sec. a.C. ma potrebbe essere anche molto più antica. La diocesi ecclesiastica risale invece al IV sec. d.C. al tempo del papa Marcellino (296-304). Dopo la conquista Normanna della regione (metà dell’XI secolo) la città acquisì ancora più importanza, con l’elevazione ad arcidiocesi metropolitana.
Di questa Cattedrale colpisce innanzitutto l’imponenza, specie quella interna, abbastanza inconsueta in un borgo tutto sommato di dimensioni contenute, oltre al fascino misterioso che le deriva dal colore grigio-rosato della pietra e da quella miriade di tracce del periodo precristiano che qua e là riaffiorano sulla sua superficie e all’interno. I lavori di costruzione iniziarono con il vescovo Godano, il primo ad avere il titolo di arcivescovo, ma proseguirono e terminarono con il suo successore, Arnoldo, che, grazie a sapienti maestranze francesi, messe a disposizione dai Normanni stessi, ultimò l’opera: la consacrazione della chiesa, intitolata a S. Maria Assunta e a S. Canio vescovo, risale al 1080.
Nel 1456 la cattedrale romanica subì gravi danni a causa di un terremoto e inoltre, a causa di una lunga serie di arcivescovi non residenziali, l’edificio finì col cadere in stato di abbandono. Solo con la prima metà del 1500 secolo iniziò il restauro completo della chiesa, alla quale vennero aggiunta una meravigliosa cripta (1524) e il nuovo campanile (1555). Riadattata all’interno nel XVII sec. in stile barocco, circa quattrocento anni dopo sarebbe stata riportata quasi integralmente all’assetto medievale e nel 1954 papa Pio XII l’avrebbe elevata a basilica minore.
I ”SEGNI” DELLA STORIA
Nel piazzale antistante la Cattedrale di Acerenza restiamo immersi nel silenzio della controra solo a tratti interrotto dall’acuto verso di un falco che ci sovrasta ad ali spiegate. Con lo sguardo ripercorriamo l’ampia superficie della facciata e della torre campanaria su cui ben si mostrano tutte le tracce della nobile vetustà dell’edificio. La torre campanaria è uno degli elementi più recenti dell’intero edificio, edificata nel 1555, come si può appunto leggere in un’iscrizione murata nella torre: «Ioannes Michael Saracenus SS R E Presb. Card. Archiep. Acherentin. erexit. MDLV». Sopra l’iscrizione è lo stemma del cardinale Saraceno che fece costruire la torre, mentre sotto la prima monofora è ancora leggibile il nome di colui che materialmente la edificò: mastro Pietro di Muro Lucano. Tra il materiale utilizzato per la costruzione della torre campanaria vi appaiono anche frammenti di sarcofagi romani con volti di defunti togati e resti di un’ara funeraria decorata con amorini, un’erma e due crateri.
Due porte si aprono sulla facciata: la piccola porta sul lato sinistro conduce oggi al museo del duomo, mentre la porta centrale è quella principale che immette all’interno della cattedrale. Questa è sovrastata da un protiro mutilo in molte sue parti: alla base delle colonnine di marmo mancano infatti i due leoni (uno è collocato in alto, sullo spigolo sinistro della facciata), mentre dell’arco a tutto sesto sono rimasti solo due tronconi. Le mensole che reggono il portale sono caratterizzate da gruppi scultorei allegorici in cui sono raffigurati animali (leoni e scimmie) avvinghiati attorno a due figure umane, presumibilmente un uomo ed una donna. Tra il portale ed il rosone (di fattura moderna) è collocato lo stemma della famiglia Ferrillo (con lo scudo sovrastato da un cimiero a forma di drago), che restaurò la chiesa nel Cinquecento, e un bassorilievo raffigurante l’animale mitico detto Basilisco, che era parte dell’antico stemma cittadino. Sul vertice della facciata per molti secoli è stato collocato il busto marmoreo dell’imperatore Giuliano l’Apostata, ritenuto di San Canio, patrono della diocesi: oggi è conservato nel museo del duomo. Incastonate nelle pareti esterne della cattedrale vi sono inoltre quattro colonne marmoree, che si ritengono facessero parte del ciborio dell’antica chiesa paleocristiana.
All’interno la cattedrale si mostra nelle sue imponenti tre navate con soffitto a capriate e suddivise da pilastri. Il transetto presenta ai suoi estremi due cappelle semicircolari. Lo sguardo corre al presbiterio, rialzato rispetto al piano di calpestio della basilica e illuminato da alcune vetrate colorate che fanno suggestivo contrasto nella quasi penombra che avvolge la chiesa. Elemento insolito, un ampio deambulatorio corre attorno al coro su cui affacciano tre cappelle radiali, dedicate rispettivamente a san Michele Arcangelo (unica traccia rimasta dell’assetto barocco della cattedrale, poi rimosso negli anni ’50 del ‘900), a san Mariano e a san Canio. Le pareti del deambulatorio sono decorate con affreschi del XVI secolo: si riconoscono una Madonna col bambino (qualcuno vorrebbe l’ignoto autore nella cerchia del Botticelli), un San Canio vescovo, mentre sbiadite grottesche si notano negli archi che fiancheggiano il presbiterio. Di notevole valore storico-artistico è l’imponente polittico collocato nel braccio destro del transetto, opera di Antonio Stabile del 1583: raffigura la Madonna del Rosario con i santi Domenico e Tommaso d’Aquino; attorno al quadro centrale si dipanano 15 formelle ove sono rappresentati i 15 misteri del rosario.
Sotto il presbiterio una doppia scala ci avrebbe presto consentito l’accesso in quello che è il cuore nascosto della cattedrale, ossia la cripta rinascimentale, costruita sui resti del tempio pagano di Ercole Acheruntino e consacrata nel 1524. Un meraviglioso pezzo di Rinascimento nel cuore della Lucania. Essa è sorretta da quattro colonne antiche centrali ed è abbellita da affreschi di Giovanni Todisco da Abriola. Nella cripta si trova il sepolcro della nobile famiglia Ferrillo che, nelle persone di Giacomo Alfonso e di sua moglie Maria Balsa, si occupò del restauro della cattedrale nel XVI secolo. A questa cripta dedicheremo la 2a parte del nostro reportage su Acerenza, perché su di essa c’è tanto da dire, se non altro per sfatare le affermazioni [di per sé non inverosimili ma poggianti su tracce deboli o mal interpretate] contenute in un recente articolo che vedrebbe in Maria Balsa la figlia esule di Vlad III Tepes, voivoda di Valacchia (Romania) e la cripta come il possibile luogo di sepoltura del ‘grande impalatore’ di Turchi che ispirò allo scrittore Bram Stoker l’ottocentesco conte Dracula. Sull’argomento, una recente pubblicazione – “Il Lupo e la Cometa” – promossa dagli stessi responsabili della cattedrale, è intervenuta ad argomentare puntualmente ed in chiave confutativa, la suddetta tesi. Forse un mistero in meno che però nulla toglie alla bellezza del luogo.
LA CATTEDRALE DI ACERENZA E I TEMPLARI
Mentre percorrevamo le stradine del centro di Acerenza, ancora colmi della visione della fantastica cattedrale e incuriositi dai numerosi antichi portali e stemmi che contrassegnano i palazzi del borgo, non abbiamo però potuto evitare di correre con la mente ad un altro enigma che l’affascinante edificio ha sollevato di recente fra la schiera dei cultori del mistero. Ci riferiamo ai legami della Cattedrale di Acerenza con i Templari, la cui presenza al sud con sedi e istituzioni di vario genere è un dato ormai storicamente acquisito per quanto ancora suscettibile di ulteriori approfondimenti. Evitiamo volutamente di evocare il mistero del Sacro Graal (la coppa dell’Ultima Cena che raccolse il sangue di Cristo), che sulla scia del clamore mediatico sollevato non molti anni fa dal romanzo ‘’Il codice da Vinci”, è stato invocato anche in merito a questa cattedrale come possibile nascondiglio della sacra reliquia. La nostra scelta è presto motivata: il Graal è un argomento complesso ed evanescente, in cui la presunta materialità dell’oggetto trascolora nelle più plausibili sfere del simbolismo, trasportando il tutto su un piano filosofico-spirituale che esula da luoghi geografici di sorta o oggetti in materia vile, per quanto presumibilmente maneggiati da sacre mani (SEGUE).
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