di Alessandro Novoli
Da una delle grotte più misteriose del Parco Nazionale del Gargano, la Grotta Paglicci di Rignano Garganico (Foggia), in Puglia, arriva una scoperta che va definitivamente a rivoluzionare la visione dei cacciatori-raccoglitori del Paleolitico superiore finora considerati essenzialmente carnivori. Dai meandri dell’antro – celebre per graffiti, pitture parietali e impronte di mani unici in Italia – è emersa la farina più antica del mondo, ottenuta 32000 anni fa dall’Homo sapiens con tecniche rivelatesi molto più antiche di quanto non si fosse mai immaginato finora. Lo studio, pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”, rivista dell’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti (Pnas), è partito dall’esame dei residui vegetali presenti nei solchi di un pestello in pietra da macinazione ritrovato appunto nella Grotta di Paglicci nel 1989.
Il gruppo di ricerca – coordinato da Marta Mariotti Lippi, dell’Università di Firenze, e formato da Biancamaria Aranguren della Soprintendenza Archeologica della Toscana, Anna Revedin dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Bruno Foggi, dell’Università di Firenze, e Annamaria Ronchitelli, dell’Università di Siena – ha evidenziato come sulla superficie della macina fossero presenti granuli di amido di avena selvatica, probabilmente Avena barbata L., testimoniando un uso di questa pianta finora mai riscontrato. Mancando cereali del tipo coltivato solo più tardi nel Vicino Oriente, l’avena e altri cereali selvatici potevano infatti costituire una preziosa fonte nutrizionale. Il particolare stato di conservazione dei granuli, lascerebbe inoltre intuire che i chicchi siano stati sottoposti ad essiccazione e ad un trattamento termico prima di esser sottoposti a macinazione, passaggi che secondo la Mariotti erano presumibilmente seguiti dall’aggiunta d’acqua e dalla cottura dell’impasto ottenuto, il tutto secondo “un tipo di procedimento ancora in uso in Asia ai giorni nostri”. Gli studiosi ritengono che il preriscaldamento servisse a rendere più agevoli le fasi successive della lavorazione.
Il dato più straordinario che emerge da questa ricerca è che la elaborata tecnica di lavorazione del cereale fosse già stata sviluppata migliaia di anni prima dell’avvento dell’agricoltura, testimoniando anche come il suo consumo ricoprisse un ruolo di primaria importanza per la sopravvivenza della popolazione che abitò la Grotta Paglicci, ad oggi considerabile la prima al mondo ad aver prodotto e consumato regolarmente farina. Viene così smentita la convinzione che la capacità di lavorare i cereali al fine di ottenerne farina si sia affermata molto più tardi in Oriente, nel periodo Neolitico, in concomitanza con l’introduzione appunto delle pratiche agricole.
Ma qual è stato il percorso che ha portato alla scoperta nella Grotta di Paglicci?
Solo quattro mesi fa circa, lo stesso gruppo di ricerca aveva comunicato al mondo il ritrovamento in Toscana, a Bilancino (nel Mugello), della più antica farina della storia. La notizia era stata divulgata sulla rivista Quaternary International a seguito del rinvenimento di una macina di pietra e di un pestello, reperti che sottoposti ad analisi accurate prima di essere lavati, avevano permesso di identificare la presenza sulla superficie di tracce di amido datate, col metodo del radiocarbonio, a 30 mila anni fa. Si trattava di amidi di varie piante, soprattutto di tifa, una piante palustre molto comune i cui rizomi venivano usati anche per scopi alimentari. Le studiose Aranguren e Revedin decisero di riprodurre quella farina raccogliendo i rizomi, facendoli essiccare e poi macinandoli, dopodichè impastarono delle gallette e le fecero cuocere in un focolare simile a quello rinvenuto a Bilancino. Tale scoperta si imponeva come la prima e più antica testimonianza diretta dell’uso alimentare delle piante ma anche di una vera e propria formula per la preparazione di un cibo di origine vegetale, anche in tal caso migliaia di anni prima della nascita dell’agricoltura, “un prodotto elaborato facilmente conservabile e trasportabile – dichiararono le studiose – ad alto contenuto energetico perché ricco di carboidrati complessi, che permetteva una grande autonomia soprattutto in momenti critici dal punto di vista climatico e ambientale”.
Questa scoperta dette l’avvio ad una serie di verifiche in tutta Europa che consentirono di confermare l’uso remoto di macine per la produzione di farine alimentari. In particolare l’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria avviò il progetto di ricerca “Le risorse vegetali nel Paleolitico” per verificare appunto quanto la scoperta di Bilancino trovasse riscontri in altri luoghi e per lo stesso periodo storico preso in considerazione, cioè 30 mila anni fa. La ricerca si è rivolta proprio verso quelle pietre di macinazione che – hanno spiegato i ricercatori – solitamente vengono raccolte, esaminate sommariamente alla ricerca di incisioni e poi lavate, con la conseguenza di perdere ogni traccia di microresidui. I risultati non si sono fatti attendere: dai luoghi più disparati e a prescindere dai climi e dai diversi ambienti nei quali vivevano i primi Sapiens europei, è emerso come strumenti analoghi fossero utilizzati per lo stesso scopo, cioè produrre farine utilizzando semi, radici e rizomi di varie specie di piante. Farine che, a differenza di quelle di oggi, erano prive di glutine, sebbene ricche di fibre e carboidrati complessi. ll ritrovamento più recente preso in considerazione ha riguardato proprio la Grotta Paglicci in Puglia – la straordinaria cavità che ha restituito reperti preistorici datati tra i 500.000 e gli 11.000 anni fa e riconducibili a Homo Erectus, Homo Neanderthalensis e Homo Sapiens – ma il risultato delle analisi era destinato, per antichità della tecnica riscontrata e del prodotto ottenuto, a sbaragliare ogni altro.
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Era risaputo che la puglia era tra i più grande produttore di prodotti gastrononici tipici della tradizione italiana, ma questa grande scoperta non fa che arricchire il nostro grande patrimonio culinario