Isola di Capri. Estate 1826. Nella nona puntata del racconto sulla scoperta della Grotta Azzurra di Capri, i protagonisti erano alle prese con un grave imprevisto: terminato l’olio della lanterna, erano rimasti al buio e già temevano per la loro esistenza quando sentirono riecheggiare da lontano la voce del pescatore Angelo, il quale non vedendoli arrivare li stava chiamando a squarciagola. Usciti nuovamente alla luce del sole, decisero di perlustrare la costa nord-occidentale dell’isola. Ricordiamo ai nostri lettori che il racconto è in versione integrale, nella traduzione dal tedesco a cura di Ingrid F. Stern. Qui di seguito, la Xa Parte.
La scoperta della Grotta Azzurra a Capri | Entdeckung der Blauen Grotte auf der Insel Capri – Decima parte
di August Kopisch (leggi Prima parte; Seconda parte; Terza parte; Quarta parte; Quinta parte; Sesta parte; Settima parte; Ottava parte; Nona parte)
Là trovammo molte altre piccole grotte, e siccome il vento si faceva sempre più fresco, notavamo bellissimi giochi di schiuma marina sulle numerose scogliere. In un anfratto a forma di cuneo le onde si sollevavano sempre a raggiera, poi, ricadendo nebulizzate, risplendevano dei colori dell’iride. Come giungemmo a sud e continuammo a girare fra i numerosi banchi di scogli, le onde divennero sempre più alte, mentre la costa si ergeva sempre più imponente ed impervia.
Avemmo allora occasione di ammirare il nostro Angelo. Benchè fosse solo ai remi, riusciva a domare con essi tutti quei fiotti d’acqua spumeggiante. La nostra barca, coi suoi occhi dipinti, saltava su e giù come un delfino. Ma il mio amico non poteva godere il magnifico spettacolo dell’audacia con cui Angelo vinceva le onde. Poco tempo prima aveva avuto la febbre e ora, per via del dondolio, gli veniva il mal di testa.
“Sant’Antonio!” riecheggiò ad un tratto dalla bocca di Angelo. Un piolo dei remi, nella strenua lotta con le onde, si era rotto, e il remo, sfuggito dalle sue mani, fu spinto dai tonanti cavalloni contro la parete rocciosa. Mi spaventai giacchè con un remo solo, in un mare così agitato, cosa sarebbe stato di noi? Non avremmo potuto approdare neppure a nuoto: la costa, irta di punte, si ergeva quasi a strapiomb, ad un’altezza di oltre mille piedi. E ad accrescere il pericolo c’erano gli scogli sott’acqua, la cui presenza si evinceva dall’irregolare sprizzare delle spuma.
Notai sulla punta della rupe un uomo che, calato giù con una corda, tagliava i cespugli. Questi, nel vederci in tale pericolo, posò l’accetta, e battè insieme le mani. Ci parve che avrebbe voluto soccorrerci, ma gli era impossibile calarsi ancora più giù, e quindi non potevamo sperare in un suo aiuto. Ma Angelo, che grazie a Sant’Antonio, aveva recuperato la sua calma, con un remo solo non soltanto seppe tenere la barca lontano dalle rocce, ma anche condurla in modo che io, al momento più propizio, ebbi modo di afferrare l’altro remo e porgerglielo. Prima però che potesse fissarlo ad un piolo più indietro, ci colpì un’ondata mostruosa e ci spinse con tanta forza verso la ripida parete della rupe, da farci gridare d’orrore. Ma Angelo, riguadagnati entrambi i remi, aveva già felicemente scavalcato l’onda, che ritornando verso di noi ci spinse lontano dalle rocce spumeggianti. Il taglialegna gridò dall’alto: “Bravo Angelo! Bravo!”.
E noi ci unimmo di cuore a quel grido. Fu infatti un capolavoro di arte rematoria. Tutta la persona di Angelo, nel momento cruciale, si era come ingigantita: i remi gli crebbero in mano all’improvviso, l’occhio guardò con fermezza, i piedi gli si radicarono al suolo, un colpo deciso…e fummo salvi. Al nostro applauso non cambiò espressione del volto, continuando la sua opera, ma, dopo qualche momento, guardò la rupe, poi me, e disse: “Grazie a Dio che mi avete dato il remo, cosicché l’abbiamo scampata!” Quindi battè con la mano sul nuovo piolo per bloccarlo meglio e riprese a vogare con forza.
Un po’ più lontano arrivammo dinanzi a parecchie grotte, di cui la più bella è quella dell’Orefice, scavata in uno sperone roccioso che sporge proprio sotto il culmine dell’isola alto duemila piedi. Allora non ci fu possibile entrarci, ma in seguito l’ho visitata più di una volta, trovandola mirabile per i variegati colori delle sue pareti. Digradando in un punto, forma una piccola e tranquilla baia. In questa si rifugiò una volta un pescatore di Capri inseguito da una nave barbaresca. I pirati credettero di averlo in pugno, mettendosi pazientemente ad attendere dinanzi all’entrata della baia. Per fortuna del pescatore essi non sapevano che egli poteva scappare attraverso la roccia, e stettero invano a spiarne la ricomparsa, mentre egli già da lungo tempo era ritornato dai suoi familiari.
Girando intorno a quello sperone roccioso, arrivammo in breve allo Scoglio delle Sirene: un sasso appiattito che si presenta come un baluardo. Già da lontano scorgemmo su di esso un uomo e un ragazzo che ci facevano segni con le braccia e, accostandoci, sentimmo che ci chiamavano: erano Michele l’asinaio e il piccolo Pagano. Approdammo quindi nella piccola cala sabbiosa che si trova nei pressi dello scoglio. Allora Michele ci disse che don Pagano, siccome il mare andava facendosi assai grosso, era in ansia per la nostra vita e li aveva mandati a cercarci e a sconsigliarci dal proseguire.
Il mio compagno, che era stato colpito da una ricaduta della sua febbre, decise di affrettarsi a casa col piccolo Pagano, e scese a terra. Ma io indussi Michele a mettersi in barca con noi e ad aiutare Angelo a remare. Ci raggiunse in un salto ed afferrò il remo. Poco dopo arrivammo sotto il monte Madonna della Libera. Questo, con la sua cima alta mille piedi, forma da questa parte quasi solo una nicchia, e immensa vi si apre la grotta salvatrice di cui ho già detto, la quale diede al monte il nome della liberazione, abbreviato poi in libera. Sulla sua balza, ancora a discreta altezza, si trova una seconda grotta a cui conduce un corridoio della Certosa ora abbandonata. Giù sulla riva, più ad est, è l’imponente Grotta dell’Arsenale di Tiberio, con molti ruderi di murature romane.
Oramai eravamo sempre più vicini ai Faraglioni, che simili a rocciose torri, alte fino a duecento piedi, si ergono isolati nel mare. Le onde vi si frangevano intorno con paurosa violenza. E dinanzi a noi si apriva ora il superbo portale che forma uno di essi. Per quanto sembrasse cosa audace, col mare che si andava agitando sempre più, i due uomini vi fecero entrare con vivace manovra la nostra barca, e accorgendosi che io osservavo le pareti e la volta del portale, si fermarono e con l’abile uso dei loro remi mi dettero modo, alquanto pericolosamente, di ammirare le belle forme di stalattiti che adornano quell’immenso e quasi gotico arco di roccia. La vetta di questi scogli, che talora viene scalata da arditi ragazzi, è coronata dal volo di uccelli marini ed è piena ovunque dei loro nidi. Deve esserci lassù una vegetazione molto variegata.
Passati che fummo, oscillando sulle onde turchine tra quei magnifici massi qua e là dal color giallo dorato,vedemmo aprirsi l’incantevole vista della costa di sud-est. Non ho mai incontrato costa più selvaggia e accidentata. Qui è una profusione delle più varie forme di punte, pendii, balze, caverne, aperture, scogliere, crepacci e grotte terrestri e marine: nulla è più pittoresco della veduta dell’isola da sud-est , nella luce meridiana. Finora non se n’è conosciuta alcuna riproduzione artistica, probabilmente perchè le onde, qui sempre alte, impediscono il disegno dal vero. Noi fummo fortemente sbattuti dal mare, che però trovammo più calmo quando ci avvicinammo alla Grotta del Monaco. Pregai i miei battellieri di farmi approdare e trovai la grotta piena di bellissime stalattiti. Nell’interno si apre una seconda grotta in cui penetra il mare, e su di essa ve n’è ancora un’altra più piccola, dove le stalattiti appaiono come una processione: per lo meno una delle anteriori può essere facilmente assimilata a un monaco. Da ciò deve essere derivato il nome alla grotta.
Risaliti in barca, ci andammo cullando intorno alla punta orientale dell’isola, sotto la tiberiana Villa di Giove e la sua grotta. Là le pareti rupestri, alte mille piedi, ci riparavano dal vento: ciò che ci risultava tanto più propizio, in quanto lungo la costa settentrionale, di fronte alla quale ora navigavamo, il mare è tutto disseminato di piccoli scogli. Chi vi capita anche solo con un po’ di vento, è perduto, poichè l’erosione delle onde non ha lasciato di questi scogli se non le schegge più dure, simili a cardi dalle innumerevoli punte. Alcune escono fuori dall’acqua solo con filamenti esili come steli.
A mano a mano che ci avvicinavamo al luogo dal quale eravamo partiti, Michele e Angelo acceleravano sempre più la voga e, passando nuovamente in mezzo a una moltitudine di frammenti rocciosi rotolati in mare, raggiungemmo infine la sospirata baia di Capri. La barca toccò frusciando il lido, e noi saltammo sulla spiaggia. Tutti quelli in cui ci imbattemmo alla marina ci guardavano con un segreto orrore, si davano di gomito e dicevano “vengono dalla casa del diavolo”. Io ridendo gridai loro: “Portiamo con noi in un sacco uno spirito maligno. Volete vederlo?”
“Non dite queste cose!”, cominciò Michele, “lo crederanno davvero e finiranno col prenderci per stregoni, ciò che non sarebbe un bene”. Allora mi avvicinai a quella gente e dissi che avevo scherzato, aggiungendo, inoltre, che la grotta era tanto poco casa del diavolo, quanto qualunque altra di quelle in cui essi andavano ogni giorno. Ma, qualunque cosa dicessi, non diminuiva il loro orrore per l’impresa che avevamo compiuto. (Fine P. 10 – Continua)