La Grotta Azzurra di Capri, 1826. Nascita di un Mito raccontata dalla viva voce dello scopritore – Dodicesima parte

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Karl Wilhelm Diefenbach, Die Blaue Grotte auf Capri, 1902

Isola di Capri. Estate 1826. Nella undicesima puntata del racconto sulla scoperta della Grotta Azzurra di Capri, August Kopish viene calorosamente accolto dalla famiglia del notaio Pagano presso il cui hotel alloggia insieme all’amico Ernst Fries. Dopo pranzo, per Kopish e Pagano arriva finalmente il momento fatidico della scelta del nome da dare a quel luogo, un nome destinato presto a fare il giro del mondo. Ricordiamo ai nostri lettori che il racconto è in versione integrale, nella traduzione dal tedesco a cura di Ingrid F. Stern. Qui di seguito, la XIIa e ultima Parte.

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Grotta Azzurra, Capri 2011 – Ph. Brad Coy | ccby2.0

La scoperta della Grotta Azzurra a Capri | Entdeckung der Blauen Grotte auf der Insel Capri – Dodicesima parte

di August Kopisch (leggi Prima parte; Seconda parte; Terza parte; Quarta parte; Quinta parte; Sesta parte; Settima parte; Ottava parte; Nona parte; Decima parte; Undicesima parte)

Quel magico e fiammeggiante azzurro dell’acqua nella grotta era rimasto per me un oscuro indovinello, per cui si era acuito fino al parossismo il compiacimento di essere stato sorpreso da un fenomeno di così straordinaria bellezza là dove non avevo immaginato ci fosse altro che vecchi ruderi.

Continuavo con la mente a ondeggiare su quel cielo sotterraneo con un senso di vertigine, quasi dovessi cadere e cadere sempre, come avviene in sogno, in una profondità senza fine. E facevo ogni sforzo immaginabile per trovare una qualsiasi causa a quel meraviglioso effetto di luce, ma invano.

Questa fatica infeconda mi mise addosso una penosa inquietudine, che naturalmente non poteva finire prima che avessi esplorato nuovamente la grotta. Persistendo però un tempo burrascoso, soffrii per più giorni di un vero male di ipotesi. Finalmente il cielo si rischiarò e un pomeriggio ci fu una perfetta bonaccia. Allora mi affrettai a scendere da solo alla marina. La spiaggia brulicava di pescatori e io pensai, sul momento, di affittare una barca e andare, ma non c’era Angelo, e nessuno degli altri marinai mi avrebbe mai condotto sia pur solo nelle vicinanze della grotta. Il mio desiderio rimbalzava da uno di loro all’altro e fin dove io riuscii a vedere, non scorsi altro che gesti di rifiuto, con la mano destra sotto il mento. Meravigliati, si radunavano anche in gruppi, confabulavano fra loro, e indicavano nella mia direzione con entrambe le mani. Uno di loro, molto vecchio, mi disse: “Che possiate essere benedetto, signore! Nella grotta c’è il diavolo…”. Per quanto io replicassi e li pregassi, nessuno di loro voleva mettere mani ai remi. “Nemmeno se ci offrite cento ducati!”, gridarono.

Finalmente, dopo che era già quasi scesa la sera, ecco Angelo raggiungere terra provenendo dalla tonnara, a bordo di una dondolante barchetta. Gli corsi incontro e, benché fosse stanco, lo trovai disposto a soddisfare il mio desiderio. I suoi amici volevano dissuaderlo, ma egli disse loro: “Con l’aiuto di Dio, che ci può succedere?”

“Che ci può succedere?”, s’udì pronunciare anche da un’altra voce. Era Michele, che mi aveva visto da lontano e mostrava gran voglia di partecipare ancora una volta all’ardita impresa. Salii a bordo con lui, e subito la barca attraversò rapida come una freccia la liscia superficie del mare.  Quella bella sera il mare era così calmo che Angelo, come arrivammo alla grotta, disse: “Oggi non è necessario che entriamo a nuoto, non ci sono onde. Voglio vedere se non possa ficcarmi dentro con la barca”. Detto, fatto. E tanto dondolammo, spingemmo e inclinammo la nostra barca in quello stretto passaggio che alla fine penetrò d’improvviso, come scoccata, all’interno della grotta.

“Sant’Antonio!”, esclamò Angelo. Si levò di testa il suo bruno berretto e giungendo le mani cominciò a pregare. “Che avete Angelo, Che paura vi piglia?”, gli domandai. “Oh!”, mi disse Angelo, “dentro ci siamo, ma come faremo a uscircene? La mia barchetta è tutta scorticata, tanto è stretto il passaggio. Quasi temo che dovremo restare qui in eterno.”

“Avete anche voi di queste superstizioni?”, gli dissi, “Fatevi animo! Se non riusciamo a far uscire la barca con noi seduti dentro, la riempiremo d’acqua per metà e la spingeremo a nuoto”.

“Avete ragione, va bene così, ma i nostri abiti si bagneranno”.

“E sia pure!”, dissi io.

Frattanto eravamo arrivati nel fondo della grotta,  e ai nostri occhi si offriva uno spettacolo del tutto nuovo, d’indescrivibile suggestione. Apparendo all’ingresso il sole del tramonto, la grotta era molto più illuminata che in quel mattino, e la sua volta ricca di merletti appariva, nei punti di maggior luce, immersa in una piena magnificenza di colori, specchiandosi lievemente nel mare che aveva il chiarore del cielo. Feci tirare su i remi, poiché l’acqua era in una quiete quasi perfetta e si sarebbe potuta scambiare per l’azzurro del cielo, se dalla volta non fossero cadute qua e là delle argentee gocce, le quali, risuonando melodicamente e dissolvendosi in azzurre scintille, la adornavano con un leggiadro rincorrersi di cerchi.

In questo melodico gocciolare s’udiva di quando in quando, simile al respiro di un torace umano, il lieve frangersi delle onde prima fuori e poi dentro il passaggio d’ingresso. Vedevo anche banchi di certi piccoli pesci che, sebbene altrove appaiano colorati come colibrì, qui sembravano volare sotto di me come nere rondini in cielo. Come si crede di scorgere un monte lontano, così il mio occhio, scrutando giù nell’azzurro, credeva di riconoscere il fondo del mare. Feci osservare ai marinai che i pilastri che sorreggevano la volta continuavano sott’acqua con un luccichìo verdognolo e, nel più basso, cingevano un largo bacino roccioso. Poiché loro sostenevano che era l’immagine riflessa della volta sovrastante, lasciai cadere adagio una pietra che si trovava nella barca. Dopo lungo tempo la vidi, dove avevo supposto, cingersi di bollicine d’aria e giacere come un masso d’argento: la mia dimostrazione era ottenuta.

Nel disegnare ancora la grotta da due altri punti, osservai che l’azzurro splendeva più luminoso, anzichè dall’apertura a nord, dalla parte della parete occidentale, e mi parve che da questa parte i pilastri di roccia, invece di proseguire fin giù, fossero come sospesi nell’acqua. Esplorai la parete col remo, e trovai che sott’acqua v’era una enorme apertura che dava all’esterno verso il mare aperto, sicché un buon nuotatore subacqueo sarebbe potuto entrare e uscire dalla grotta passando sotto questa roccia. E’ dunque questa la via che prendono anche i raggi di luce, e siccome l’acqua propaga il chiarore nella grotta, mentre il mare aperto le serve da sfondo scuro, essa deve naturalmente apparire azzurra, mediatrice luminosa come l’aria del cielo nel giorno, e così diffondere la luce azzurra. Poiché il suolo stesso della grotta è illuminato, l’azzurro degrada a poco a poco verso l’interno di essa, e si cangia sempre più in un matto grigio verde, fin dove si infrange contro l’orlo variopinto della roccia e rigetta in uno sfarzo di colori la luce ricevuta.

Io feci tener fermo un remo nell’acqua, e il colore di cui s’illuminava nei vari punti della grotta riconfermò la mia opinione, finché, scrutando con molta attenzione, potei distinguere perfettamente tutta l’apertura sottomarina e il fondo del mare ripidamente scosceso verso l’esterno. Un brulichio di pesci, che appena entrati subito nuotarono fuori di nuovo, mi tolse ogni dubbio in proposito; il miracolo era spiegato, e avvinto da una doppia seduzione, non potevo separarmi che a malincuore da quel luogo. Ma Angelo mi fece riflettere che abbuiava sempre più. Il sole era al tramonto, quindi ci affrettammo ad uscire, ma bisognò dare tempo al tempo e spendere ancora molta pazienza, prima che i demoni ci lasciassero. La barchetta era troppo larga e per di più col tramonto s’era alzato un venticello che cominciava a muovere il mare, per cui il nostro sforzo per uscire divenne maggiore.

Infine, puntando le mani sotto la volta dell’ingresso, abbassammo un po’ la barca nell’acqua, ed ecco fatto. Questa volta venimmo fuori con i piedi asciutti.

Angelo esclamò: “Sia ringraziato Iddio, che la mia barca è uscita! Se avessi dovuto lasciarla lì, tutta Capri avrebbe detto che era stato il diavolo a trattenerla, ed io avrei avuto una pessima reputazione!”

“E’ vero”, disse Michele, “già a causa dell’altra volta i miei mi considerano quasi un’anima persa”.

Ritornai così da don Pagano e dal mio amico tedesco, molto lieto della felice riuscita che aveva avuto la mia seconda visita alla Grotta.

A conclusione delle altre visite fatte in seguito alla grotta, a nuoto e in barca, in varie gradevoli circostanze, delle quali alcune sono state anche oggetto di racconto, colloco qui la breve descrizione di quella che feci in compagnia del giovane e ardito principe di T. e del conte di L., con un maltempo quasi burrascoso.

Avevamo sperato invano, a Capri, per più giorni, che ci fosse mare calmo, sicché il principe di T. divenne impaziente, ed essendo un buon nuotatore, decise nonostante il maltempo di guadagnarsi con la forza l’entrata nella grotta. Non riuscendo a dissuaderlo, il conte di L. ed io ci mostrammo pronti anche noi all’avventura. Solo a fatica potemmo persuadere Angelo e Michele. Prendemmo un battello abbastanza grande e i nostri rematori dovettero lottare con i cavalloni di spuma fino alla baia della grotta.

“Ecco la grotta”, dissi io. “Dove?”, domandò il principe. Infatti non si scorgeva nulla della bassa apertura, interamente nascosta dalle acque gonfie. Infine apparve nella piega di un’onda. “L’ingresso è lì sotto”, gridai additandolo in fretta. “Bene”, disse il principe, “di quando in quando si mostra; non potremmo provare a ficcarci dentro?” Così dicendo era già saltato su una roccia sporgente e ci invitava a fare altrettanto.

Angelo e Michele ripresero a lottare con la bianca furia delle spume, e nons enza pericolo, riuscirono di nuovo ad accostare la barca, che veniva sempre respinta, in modo che il conte di L. ed io potemmo saltare anche noi. Il principe di T. si era già spogliato per nuotare. Cercammo invano, mentre ci spogliavamo anche noi,  di dissuaderlo da quell’audacia. Prima che ce l’aspettassimo era già scomparso dal nostro fianco. “Per amor di Dio, dov’è?”, gridò il conte di L. “Certo già dentro”, risposi, “c’è molto da temere! Potrebbe già essersi sfracellato contro le rocce!”

“Non posso sopportarlo!”, esclamò il conte. “Debbo seguirlo”. Lo volevo trattenere e andare io in sua vece, ma egli si gettò subito con me nell’acqua, come disperato, e penetrati col flusso dell’onda ci ritrovammo in un momento nel mezzo della grotta. Trovammo incolume il temerario principe. Egli nuotava tutto festoso in quel tumulto di acque azzurre, e noi due facemmo eco alle sue grida di entusiasmo, che erano di molto superate dal fragore delle onde.

Lo spettacolo che si offriva ai nostri occhi era veramente unico. Talvolta le onde arrivavano così aperte che scoprivano l’accesso sottomarino e lasciavano penetrare sotto la roccia la luce del giorno. Il loro frangersi all’interno della grotta era allora paurosamente bello, poiché quando avveniva le aperture erano già di nuovo chiuse e l’ondata si abbatteva come una immensa fiamma azzurra, cui la spuma, disperdendosi, faceva da fumo. Ma se l’onda arrivava in pieno, s’abbatteva sull’ingresso con un getto argenteo, a forma d’arco, e si dissolveva in pioggia di fuoco azzurro sulle acque ruggenti dell’interno, che sembravano milioni di gemme rotolanti.

Non ci saziavamo di ammirare quello spettacolo, e sempre nuotando ora qua ora là, finimmo col farci tanto temerari da entrare e uscire per gioco; alla fine raggiungemmo la barca che era rimasta fuori a lottare con le onde, dalla quale prendemmo tutto quello che avevamo fatto venire da Napoli e messo insieme in una tinozza: torchi di cera, una lanterna, battifuochi, corde per misurare, e una buona colazione: ogni cosa fu da noi sbarcata a terra felicemente nella grotta. Lasciammo nella tinozza soltanto una lunga corda a cui era legata una grossa pietra, e nuotammo nel mezzo del bacino per misurarne la profondità, che naturalmente variava in continuazione per il forte ondeggiare dell’acqua. Facemmo affondare la pietra, la cui corda si portò subito appresso uno di noi per un po’. Dopo che prendemmo la misura media nelle varie fluttuazioni,  far risalire la corda su per l’acqua fu motivo di infinite risate perchè la pietra si era tanto appesantita che ciascuno di noi, nel daro lo strappo alla corda, affondava sempre un po’ mentre le onde ci facevano roteare tutti, uno contro l’altro, insieme alla tinozza e alla corda, nel più buffo dei modi.

Alla fine riuscimmo a rimettere la pietra nella tinozza e andammo a misurare la grotta in un altro senso. Riscontrammo una lunghezza maggiore di 100 piedi, larga un po’ meno e profonda la metà. L’altezza della volta sull’acqua, che è molto diseguale, fu stimata da noi, nel suo massimo, di oltre 30 piedi. Dopo aver preso queste misure, certo non esattissime, ma pure non disprezzabili, raggiungemmo l’approdo interno della grotta, se si può chiamare approdo la maniera con cui fummo sospinti su e ci arrampiccamo in tutta fretta, riportando parecchie escoriazioni.

Tuttavia ci sedemmo assai soddisfatti  sulla tinozza rovesciata, e contemplando il magnifico furore del mare, consumammo di buon umore la nostra colazione. Ma appagato il nostro appetito e la nostra sete, accendemmo le fiaccole e ci affrettammo ad esplorare il corridoio di Tiberio.  Ci spingemmo più oltre rispetto alla prima volta, ma il corridoio alla fine divenne così stretto per formazioni di stalattiti, in parte nuove, che prima io, poi il principe dovemmo restare indietro. Sebbene il conte di L. più magro di noi si fosse portato un po’ oltre, anche lui finì col trovarsi stretto e dovette retrocedere.

Il ritorno non fu così facile come l’andata. In alcuni punti, dove eravamo penetrati agevolmente, nell’uscire vi trovammo di contro delle punte acute, sicchè non riuscimmo a passare con la pelle sana. Nonostante ogni sforzo non potemmo ritrovare il grande corridoio che io avevo visto nella mia prima visita alla grotta. La volta ci apparve qua e là sprofondata di recente ed è da supporre che esso sia così rimasto chiuso. Le orme impresse nella morbida melma dalla prima visita alla grotta, ora si erano mutate in dura pietra. Seguendo le gocce di cera cadute dalle fiaccole, ci ritrovammo sicuramente nel punto dell’approdo: ci gettammo nuovamente in quel magnifico elemento, tirammo giù la tinozza coi nostri strumenti e la spingemmo festosamente davanti a noi attraverso l’ingresso e, arrampicatici sulla rupe, ci rivestimmo rapidamente e saltammo di nuovo sulla barca. Poiché il vento spirava da nord, nonostante il mare fosse agitato, decidemmo di fare il giro dell’isola: e sul versante meridionale trovammo le onde così moderate che potemmo compiere il tragitto con vero piacere.

Da quel tempo la grotta è sempre più visitata da indigeni e forestieri. Essa è servita da scena a più di un poeta per episodi e favole, mentre a me è bastato descrivere qui qualche cosa di ciò che vi ho realmente vissuto e visto (FINE).

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August Kopish, Die Blaue Grotte auf Capri, 1834 | Stiftung Preußische Schlösser und Gärten Berlin-Brandenburg

 

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