“Se si proponesse a tutti gli uomini di fare una scelta fra le varie tradizioni e li si invitasse a scegliersi le più belle, ciascuno, dopo opportuna riflessione, preferirebbe quelle del suo paese, tanto a ciascuno sembrano di gran lunga migliori le proprie costumanze”
Erodoto
Un borgo di origine seicentesca a mille metri d’altezza, le piccole case in rustica pietra locale immerse nella natura maestosa del Parco Nazionale del Pollino, un nido d’aquila a vedetta di monti le cui pendici scivolano giù verso l’azzurro Mar Jonio cinto di greche memorie come fronde d’alloro sul capo di un dio. E’ Alessandria del Carretto, un paese di 400 abitanti della Calabria cosentina, così chiamato in onore del marchese Alessandro Pignone del Carretto che quattro secoli fa ne volle la fondazione.
Un luogo che pur nel suo geografico isolamento, non privo di incognite, di qualche disagio – non ultima la neve che d’inverno fiocca abbondante -, e di un atavico flusso migratorio che dall’Unità d’Italia ad oggi gli ha fatto perdere oltre mille abitanti, è riuscito a conservare le sue tradizioni, soprattutto grazie ai pochi giovani rimasti che hanno riscoperto nell’autenticità delle proprie radici un valore da condividere con chi sceglie di spingersi fin su in paese. Tra queste, oltre al suggestivo rito arboreo propiziatorio della pitë, c’è il carnevale dei Połëcënellë che il fotografo Pierluigi Ciambra ha documentato nelle splendide immagini scattate durante l’edizione 2020 svoltasi lo scorso 9 febbraio.
Un rito collettivo, forse di origine greco-bizantina ma rivisitato in chiave barocca, per certi versi misterioso nelle sue simbologie fatte di forme, colori e gesti, volto ad evocare – in un clima di festosa attesa della primavera – il dualistico contrasto tra luce e ombra, apollineo e dionisiaco, ordine estetico e caotico disordine, inverno e primavera, morte e rinascita.
Tutto ruota intorno a una maschera enigmatica considerata magica, che ogni anno richiama nel borgo l’interesse non solo di turisti ma anche di studiosi e fotografi. Si tratta dei Połëcënellë (i Pulcinella), figure maschili dall’abito prezioso e colorato che sfilano per le vie del paese lasciandosi andare a danze propiziatorie al ritmo di tarantella che affascinano abitanti e visitatori.
In realtà il costume più bello, sfarzoso e colorato, è una prerogativa dei Połëcënellë Biellë, simbolo di apollinea bellezza, in contrapposizione alla figura dei Połëcënellë bruttë, allegoria del lato oscuro dell’uomo e del mondo. Tramandarsi di padre in figlio il costume e la danza dei primi era una peculiarità di alcune famiglie di Alessandria che, con orgoglio e garbata premura, mantenevano la tradizione a vantaggio di tutta la comunità. A colui che impersonava il Pulcinella bello appartenevano lo sfarzoso copricapo – un barocco cimiero fatto di piume, fiori, perle, nastri colorati, uno specchio al centro e una campanella, potenti presidi contro il malocchio – la maschera lignea e lo scriazzë, un bastone intarsiato con tre pon pon di lana legati all’estremità, unico mezzo per interagire con la gente. Questi oggetti, ancor oggi realizzati da sapienti artigiani, completavano un costume fatto d’un vestito bianco adorno di colorati scialli, fazzoletti di seta antica e coccarde, che per l’occasione veniva prestato da una famiglia legata al Pulcinella da vincoli sentimentali. Un paio di scarponi neri muniti di lacci e gambali di cuoio fungevano infine da calzature mentre un campanaccio legato in vita a tergo serviva a segnalare l’arrivo delle maschere per poi essere silenziato durante le loro danze.
Contraltare dei Połëcënellë Biellë, nell’ottica dualistica di cui accennavamo prima, erano i Polëcenellë Bruttë, che entravano in scena al dileguarsi degli altri, evitando con essi qualsiasi contatto e avanzando con un ballo disordinato e grottesco accompagnato dal suono arcaico delle zampogne.
Altro personaggio del carnevale alessandrino è l’Ursë, un uomo travestito da animale, col volto fuligginoso e in testa svariate corna contorte, emblema di forza brutale, quella oscura della natura e del bosco, con cui l’uomo si misura nell’intento di domarla per la sua stessa sopravvivenza, aspetto questo che ritroviamo simboleggiato nelle catene con cui l’Ursë viene condotto lungo i vicoli del borgo.
Infine incontriamo la Coremmë, personificazione della Quaresima, figura vestita a lutto con la gobba, il viso tinto di nerofumo e un fuso in mano da cui scorre il filo che, come una Parca, taglia con grandi forbici da tosatura; un personaggio che evoca la fine del periodo carnevalesco e l’inizio della penitenza pre-pasquale.
Il rito collettivo dei Połëcënellë Biellë ha inizio la domenica mattina, accompagnato dai rintocchi del campanile, quando il primo sole del giorno fa risplendere i tetti delle case e lo stufato di vitello è già in cottura nei paioli. E mentre la piazza è in fermento, nell’intimità delle stanze ha luogo la vestizione dei Połëcënellë, della nera Coremmë e dell’arcigno Ursë, protagonisti di questa rappresentazione teatrale che da secoli incrocia i destini del borgo.
A passo ritmato, prima di abbandonarsi alla danza vera e propria, i Połëcënellë Biellë scendono verso la piazza annunciati dal frastuono dei loro campanacci (nei rituali apotropaici i suoni fragorosi hanno la funzione di tenere lontani gli spiriti maligni) e avanzano portando in mano lo scriazzë, coi suonatori al seguito che a un certo punto danno loro l’abbrivio per una tarantella lenta e composta nella quale sono accompagnati da donne in sgargiante costume tradizionale.
Lungo il loro percorso si alternano – con stridente contrasto e senza mai entrare in contatto – con i Połëcënellë bruttë (detti anche Laijëdë) che indossano vestiti logori e maschere sgraziate sul viso, ballano e corrono in modo caotico lanciando cenere ai piedi di chi gli si fa incontro.
Intanto l’Ursë, con le sue sembianze bestiali, il corpo ricoperto di pelli e grossi campanacci alla cintura, viene trascinato in catene per le vie del borgo mentre lancia cenere ai passanti, e ad ogni suo tentativo di liberarsi viene percosso cadendo al suolo con attitudini da animale ferito, in realtà forza oscura finalmente domata.
Scende la sera e con la luce vanno via anche le maschere dai visi. Il Połëcënellë Biellë può finalmente svelare la sua identità, fino a quel momento rimasta incognita. E’ l’ora dell’omaggio a chi si è prodigato nel procurare i costumi, nelle cui case risuonano gli echi di serenate e il frastuono di ultime danze accompagnati da vino e cibo, l’allegro convivio che suggella l’evento.
Alessandria del Carretto continua così a perpetuare la sua lunga storia nel terzo millennio grazie a tradizioni che riconciliano con le origini anche i tanti che hanno lasciato il borgo per cercar fortuna in altri luoghi d’Italia o persino all’estero. Ogni anno li si ritrova infatti tra la folla di spettatori che animano le vie del paese in occasione di quei riti collettivi che rivivono grazie a chi ha rinunciato al culto delle ceneri e scelto di mantenere viva la fiamma, una scelta che ogni estate trova espressione anche nel seguitissimo Festival delle culture tradizionali Radicazioni.
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