“Uccidete, eliminate, ferite Gallico, generato da Prima, in quest’ora stessa entro la cinta dell’anfiteatro. Legategli i piedi, le membra, i sensi, il midollo. Bloccate Gallico…perché non possa uccidere l’orso e il toro né con un sol colpo, né con due, né con tre colpi. In nome del dio onnipotente, esauditemi, adesso, presto, presto. Che l’orso lo urti e lo ferisca.”
Defixio di epoca romana formulata da un gladiatore ai danni di un rivale
di Marzio Luras
Una lamina di piombo con sopra tracciato il nome del malcapitato e quello di sua madre per centrare meglio il bersaglio, la consacrazione a divinità infere chiamate a produrre gli effetti nefasti, un lungo chiodo per trafiggere la lamina in una sorta di identificazione tra l’atto fisico della trafittura e l’invocazione del castigo di origine soprannaturale, e un luogo di ”forza” dove riporre il tutto. Era questo il macabro armamentario delle defixiones (dal lat. defigere, inchiodare, immobilizzare), oscura e antica pratica di magia nera diffusa nel mondo greco-romano e volta a influire negativamente sulla volontà e sul corpo di una persona sgradita. Suo imprescindibile strumento era la forza incantatrice della parola, utilizzata all’interno di un rito che contemplava anche atti non linguistici e cioè manipolazioni della materia, come dimostra l’uso degli oggetti prima citati, ai quali non di rado si aggiungevano piccole figure antropomorfe fatte di materiale organico e personificanti il soggetto da colpire.
Scopo delle defixiones era quello di riuscire ad annichilire le azioni di un avversario o di un rivale, volgendo a proprio vantaggio situazioni di contesa e di incertezza, nei più diversi ambiti: una gara, una contesa amorosa, una rivalità professionale, una questione legale e processuale. Per raggiungerlo si decideva di rivolgersi ad entità infere il cui coinvolgimento emerge dai loro nomi spesso tracciati sulle lamine e dal tipo di luoghi scelti per deporre gli strumenti del maleficio: dalle necropoli al sottosuolo di santuari dedicati a divinità ctonie, a sorgenti d’acqua per loro natura legate al mondo sotterraneo. Di queste usanze che oggi offrono il fianco ai giudizi sarcastici degli scettici, alcune testimonianze sono emerse in Sardegna nel 1999 presso il sito nuragico-romano ‘La Purissima’, a pochi chilometri dal centro di Alghero (Sassari), ma il cui studio e la conseguente divulgazione sono avvenuti solo di recente. Dal remoto passato della splendida cittadina sarda sono infatti riaffiorate sedici tavolette in bronzo e piombo interpretate come ‘tabellae defixionum‘, o tavolette dei malefici, oggetto di un difficile restauro eseguito con tecniche non invasive, data la loro estrema fragilità (v. foto nel testo).
Alessandra La Fragola ha seguito lo scavo e curato lo studio di questi particolarissimi reperti fornendone resoconto nell’articolo “Tra superstizione e speranza, pratiche di defixiones ad Alghero” edito sul numero 26 dei Quaderni della Soprintendenza Archeologica della Sardegna, pubblicazione annuale da poco reperibile anche on line. Si tratta di un rinvenimento compiuto nell’ambito di uno scavo di emergenza che ha consentito anche l’identificazione dei resti di un santuario dedicato al culto delle acque e frequentato fin dall’età nuragica. La parte più antica comprende un pozzo sacro in arenaria, del tipo ricorrente in altri siti sardi, munito di vestibolo, scala e pozzo sotterraneo. Un luogo di rituali ed offerte votive che continuò ad essere utilizzato anche durante il dominio romano. I reperti, ritrovati nel cantiere diretto dalla Soprintendenza Archeologica per le Province di Sassari e Nuoro, sono stati datati in un arco di tempo compreso tra il I secolo a. C. e il V d. C. Oltre alle tabellae defixionum sono emersi oggetti votivi in ceramica, vasellame e monete in bronzo, tutte tracce di un insediamento rurale forse identificabile con Carbia, località citata nell’Itinerarium Antonini. Per lunghissimo tempo, intorno a quel pozzo consacrato al culto delle acque, si sono venerate divinità importanti accanto ad altre minori o infere come Anna Perenna e Abraxas. Proprio ad esse erano rivolte le sedici lamine in bronzo e piombo, alcune delle quali ripiegate su se stesse: “il motivo per cui le lamine venivano ripiegate è doppio – scrive l’archeologa – fermare, sigillare eventuale materiale organico [come capelli, sangue, saliva – NdR] utile alla fattura e ‘fermare’ l’avversario nella presa del metallo. Tutto ciò rientra nella pratica della magia nera, cui ci si affidava in alternativa rispetto all’invocazione e alla divinazione ufficiale, nella speranza di venire ascoltati anche quando era ben chiaro l’intento di nuocere a qualcuno”. In questo caso le lamine sono risultate prive di incisioni o iscrizioni, per cui vi è da supporre che il potere magico della parola sia stato affidato esclusivamente a formule verbali.
Le sedici tavolette di Alghero, oggi custodite dalla Soprintendenza archeologica e dal locale Museo, sono testimonianza di pratiche rituali diffuse sull’isola come provano altri ritrovamenti avvenuti a Nulvi, Orosei e Olbia. Di esse dà notizia anche lo storico latino Ammiano Marcellino, che in un suo testo riferisce di un maleficus sardo giustiziato nel IV secolo d. C. In questi riti oscuri Roma, centro dell’Impero, non era però da meno, come testimonia l’eccezionale ritrovamento divulgato nel 2009 e per molti versi simile a quello sardo: 22 piccole lamine di piombo riavvolte in stretti rotoli, con incise maledizioni a lettere sbalzate e capovolte. Erano collocate insieme a figurine antropomorfe fatte di materiale organico e poste a testa in giù in 14 contenitori di piombo sigillati. Luogo del ritrovamento la collina dei Parioli, nel II° sec. d.C. sede di gare, danze e riti misteriosi durante la festa di Anna Perenna, divinità legata all’acqua e al passare del tempo, celebrata dai romani alle Idi di marzo, il primitivo capodanno romano, tra fiumi di vino e orge.
GLI ANTICHI E LA MAGIA NERA
Gli antichi greci consideravano la magia nera manifestazione di hybris, termine traducibile come “eccesso”, “superbia” o “prevaricazione”, il peccato dell’uomo che con la ragione vuole penetrare i misteri del divino, ponendosi egli stesso come dio ed ergendosi a manipolatore della realtà e del destino altrui.I latini la chiamavano goetia – “scienza temibile e perversa” (così la definisce nel I° sec. d.C. Plinio Il Vecchio), portatrice di sciagure e di eventi infausti e spesso perseguita da norme che ne punivano gli effetti malvagi e delittuosi – tenendola distinta da una magia positiva, in armonia con le leggi nascoste dell’universo e volta a fare il bene; quest’ultima era la teurgia, “scienza divina” che nel mondo pagano e nei secoli successivi è stata oggetto di interesse anche di filosofi e studiosi. Entrambe erano diffuse in tutte le fasce sociali, soprattutto nel tardo impero, attirandosi indistintamente la condanna dei padri della Chiesa. I pagani invece stigmatizzatavano soprattutto la magia nera, finalizzata al controllo di oscuri poteri soprannaturali di origine infera ed indirizzata ad ottenere un potere di vita e di morte sulle cose e sulle persone. In entrambi i casi si tratta di usanze che nell’ambito della cultura greca e romana traggono origine da tradizioni ultramillenarie provenienti dal Medio Oriente, con un ruolo di primo piano della tradizione egizia penetrata con forza entro i confini dell’Impero Romano. Di questo mondo enigmatico si sono spesso conservate le tracce materiali, come testimoniato, per il Sud, dagli studi etno-antropologici di Ernesto De Martino; tracce che, saltuariamente, riaffiorano anche da scavi archeologici come quello di Alghero, riportandoci ad aspetti di un passato remoto che ancora non conosciamo fino in fondo.
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Bibliografia:
– Barb A., La sopravvivenza delle arti magiche, in Momigliano A. (a cura di), Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Einaudi, Torino, 1975, 235 p.
– De Martino E., Sud e Magia, Donzelli Editore, Roma, 2015, 318 p.
– Murano F., Verbi e formule di defissione nelle laminette di maledizioni osche, in Quaderni del Dipartimento di Linguistica – Università di Firenze, n. 20, 2010, pp. 51-76
– Nisoli A.G., Parole segrete: le defixiones, in ACME – Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, Vol. LX, fasc. III, settembre-dicembre 2007