di Nicola Scardicchio
Nel composito panorama musicale italiano tra fine ottocento ed inizio del ventesimo secolo la corrente letteraria verista ebbe riscontri anche nel campo del melodramma: la conclusione della stagione romantica trascese dall’espressione cordiale del sentimento alla più viscerale esplosione di sussulti meno idealistici, più radicati nel mondo della realtà più prosaica. Perfino nei melodrammi di ambientazione storica la cornice temporale e gli eventi narrati sono sfondo per narrazioni di fatti in cui sopra tutto conta ed è esaltata la prepotenza del sentimento che stride con le contingenze della vita concreta, anche se si tratti di personaggi non comuni e di eventi non quotidiani.
Non staremo a dire di più sul Verismo musicale, perché allora dovremmo anche dire della figura isolata pur se presentissima al suo tempo del massimo genio del teatro musicale di questo periodo, Giacomo Puccini, che di fatto scombinerebbe ogni classificazione specifica in ogni senso. Eppure accanto al Maestro toscano non potremmo mancare di citare il più timido e mite Maestro calabrese Francesco Cilea (1866-1950).
Il musicista nativo di Palmi non è il compositore la cui opera è totalmente presente nei cartelloni teatrali e concertistici e, tutto sommato, dopo un fortuna ormai calata dell’opera L’Arlesiana, che pur contiene pagine di indubbio valore musicale, la fama del musicista resta legata alla sempre verde fortuna del suo capolavoro indiscusso, Adriana Lecouvreur, come spesso capita di dover constatare anche a proposito di altri musicisti coevi (P. Mascagni e Cavalleria rusticana, R. Leoncavallo e Pagliacci, U. Giordano e Andrea Chénier e, meno frequentemente, Fedora).
Eppure Cilea non fu musicista di scarse risorse. Senza ricordare la precocità del talento e la fortuna che ebbe in età giovanile con le sue prime opere, occorre ricordare che dopo il successo dell’Adriana Lecouvreur il compositore non cessò di insistere nella sua costante ricerca linguistica di cui le due opere più note già citate sono testimonianza palese. Nell’Arlesiana, del 1897, che pure doveva fare i conti con il duro paragone con le portentose musiche di scena composte da Georges Bizet per le rappresentazioni teatrali della tragedia di Alphonese Daudet, Cilea esibisce una maestria tecnica che esalta la bellezza delle invenzioni melodiche coniugate con una sensibilità espressiva che nasceva da una profonda conoscenza ed assimilazione della migliore musica francese contemporanea e pur se il riferimento più ovvio resta quello relativo a Jules Massenet, ascoltando con attenzione la celebre aria nota come Lamento di Federico, da sempre a buon diritto nel repertorio dei più grandi tenori, si sentono inflessioni che sono vicinissime a certe trasparenze e raffinate immagini sonore debussyane.
Quando nell’Adriana Lecouvreur datata al 1902, Cilea alterna i momenti più tragici con quelli più elegiaci l’affinità con le più alte pagine massenettiane sono evidentissime: e non si tratta di imitazione o mimesi, bensì di chiare analogie di gusto e di concezione della drammaturgia operistica. Mai le esplosioni di contrasti e conflitti, che pur ci sono, trascendono nel grido o nella reazione scomposta. Ogni espressione è sempre vissuta in termini compositivi in cui il controllo delle emozioni filtra il linguaggio in termini di una civiltà che rifugge dalla platealità che condannò all’oblio molte produzioni del melodramma verista italiano.
A Cilea non bastò il successo popolare del suo capolavoro, che ebbe il plauso anche di musicisti come lo stesso Massenet, e che si rinnova continuamente anche per l’amore che provano per esso i grandi interpreti vocali, per cui Cilea scrisse pagine ancor oggi memorabili. Nella sua ultima creazione teatrale conclusa, Gloria, del 1907 il compositore continuò la sua opera di instancabile studioso e raffinatore dei già cospicui mezzi espressivi, con una partitura di grande eleganza e dal linguaggio decisamente evoluto, al punto da riuscire meno ‘facile’ alla fruizione del pubblico dell’epoca, ed ancor oggi l’opera non riesce a prendere il volo, forse perché la ricerca linguistica ha un po’ frenato il lirismo sempre garbato e civilissimo che è cifra indiscutibile del musicista.
Deluso dalla tiepida accoglienza attribuita a quel suo lavoro, Cilea si dedicò allora soprattutto alla composizione di musica strumentale e cameristica mentre insieme svolgeva il suo ottimo lavoro di direttore del Conservatorio San Pietro a Maiella di Napoli, in cui si era da ragazzo formato, e che egli riportò alla gloria passata, dopo un periodo di decadenza che aveva mortificato la memoria dell’antico splendore dell’istituto.
Come autore di musica strumentale Cilea fu raffinato ed incline ad un atteggiamento neoclassico, comune ai musicisti della sua epoca e che in quelli italiani trovò dei rinnovatori del repertorio strumentale, nell’Ottocento quasi soverchiato dalla produzione teatrale, che nella loro opera si rifecero ai grandi modelli italiani di fine settecento. Lo stesso Cilea, così come Alfredo Casella, Ottorino Respighi, Ippolito Pizzetti, per non dire che dei più noti, tutti dichiaratamente si ispirarono ai grandi del passato come Antonio Vivaldi, Domenico Scarlatti, Leonardo Leo, Luigi Boccherini e via discorrendo, riscoprendo e revisionando spesso opere dimenticate dei loro illustri predecessori. Quest’atteggiamento di riscoperta di un passato glorioso preottocentesco è del resto riscontrabile anche nelle opere teatrali come nel delizioso divertissement danzato nel terz’atto dell’Adriana Lecouvreur in cui durante la festa a casa della Principessa di Bouillon si rappresenta il mito del giudizio di Paride. E pastorellerie analoghe troveremo per esempio nel primo atto dell’Andrea Chénier di Umberto Giordano.
La sensibilità di Cilea per le opere più riuscite del repertorio a lui immediatamente precedente lo mostrano riprendere formule estremamente funzionali e drammaturgicamente sostanziose. Lo scontro nel secondo atto, tra Adriana e la Principessa, rivali entrambe innamorate di Maurizio, vantando un esempio illustrissimo nella schermaglia tra Aida ed Amneris nel capolavoro verdiano, è ancor più analogo a quello del second’atto della Gioconda di Amilcare Ponchielli, in cui Gioconda e Laura esplodono nel contrasto del contendersi Enzo Grimaldo. Ma dove in Verdi troviamo la più ottocentesca contrapposizione di due donne, una schiava e l’altra principessa, in cui la passione amorosa azzera idealmente le differenze di ceto, e dove in Ponchielli le due rivali sono letteralmente due tigri ferocissime, nel capolavoro cileano sul contrasto e sulla veemenza predomina alla fine un senso di dolente pur se agitata elegia. In questo il musicista ebbe la sua caratteristica fondamentale: mai la passione ed il volgere tumultuoso degli eventi ne mortificò l’innata e davvero alta capacità poetica ed ogni sentimento trovò nel più delicato e compiuto lirismo la cifra poetica di un musicista che continua ad essere amato proprio per la sincerità dell’ispirazione e la nobiltà del tratto compositivo.
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