La Calabria è sempre stata una terra notoriamente povera, ma in realtà generosa di risorse alimentari. Il clima caldo, il terreno fertile, l’aria pulita, l’acqua che scorre abbondante nel sottosuolo, hanno fatto sì che nel corso del tempo, nonostante le razzìe degli invasori e gli accaparramenti selvaggi da parte di ricchi possidenti, il popolino abbia sempre avuto da mangiare e da vivere, grazie anche alla fantasia delle donne calabresi che avevano, e hanno conservato nei caratteri del DNA, la capacità di trasformare con inventiva le risorse a disposizione, ottimizzandone il rendimento e rendendole sempre nuove ed appetitose.
I cereali, ad esempio, sono prodotti di cui si è sempre fatto largo consumo. Iniziando dal farro, il più antico, di cui si trovano tracce in resti fossili e nelle nomenclature paesane: ad esempio vicino San Giovanni in Fiore, nella provincia di Cosenza, c’è la località “Germano”. Il nome deriva da “Jermanu”, che era, per l’appunto, il farro, di cui vi era una immensa coltivazione in zona. Successivamente, le colture di farro furono gradualmente sostituite dal frumento, e nello specifico dal grano duro, che aveva una resa ed una lavorabilità superiori. La denominazione “Jermanu” si estese anche al frumento che viene ancora chiamato così nei dialetti locali. Nei mulini dell’epoca veniva lavorata la farina di grano duro, di mais, ma anche di farro, di segale e di avena. Spesso, quando disponibili in grandi quantità, si macinavano anche il caffè e addirittura la cicoria essiccata che ne era il surrogato.
Al termine della dura giornata lavorativa, gli operai, se il padrone del mulino era generoso, avevano la possibilità di raccogliere i residui della lavorazione e li portavano a casa. Non sempre c’era il tempo per impastare pane e focacce e quell’insieme eterogeneo e multicolore veniva tramutato, con l’aiuto di un po’ di acqua e delle mani sapienti delle donne di casa, in pasta.
Il formato era il più facile e rapido, simile a quello delle tagliatelle: sfoglia stesa, poi arrotolata ed infine tagliata a listarelle, con quegli stessi movimenti sapienti ed antichi, comuni alle sfogline romagnole come alle altre casalinghe italiane dell’epoca, perché la “pasta fatta in casa” è comune a tutte le latitudini. Né ci è dato sapere come e quando sia nato questo impasto: probabilmente l’invenzione si perde nella notte dei tempi e più persone, in tempi e luoghi diversi, avranno avuto la stessa idea di impastare uno sfarinato con l’acqua per poi cuocerlo. Prima sulle pietre roventi, poi sul fuoco ed infine in acqua.
Comunque sia, da quell’insieme di rimasugli si ricavava una pasta, la stroncatura, che il più delle volte era insapore, ma comunque nutriente. Accompagnata dai densi sughi di rosso pomodoro, da legumi, patate, oppure, nelle grandi occasioni, da qualche succulento pezzo di carne, e pur sempre da condimenti in grado di bilanciarne il sapore particolare, era un cibo invidiato da chi non poteva permettersi l’acquisto della farina.
Il nome stroncatura deriverebbe proprio dal gesto di tagliare, troncare la sfoglia in strisce (ma non è da escludersi una connessione con lo stesso termine utilizzato in alcuni luoghi della Calabria per indicare la segatura del legno, associabile, per analogia, ai residui della macinazione dei cereali). Nella Piana di Gioia Tauro, zona da cui pare abbia avuto origine, si chiama “struncatura” e viene preparata durante le sagre che ancora oggi si svolgono periodicamente. Oggi si trova in vendita in versione più appetibile, con un attento dosaggio dei tipi di farina, e si condisce tradizionalmente con acciughe e pangrattato. Qui vi proponiamo una versione con prodotti di eccellenza del territorio calabrese:
Struncatura con fonduta di caciocavallo silano DOP e ‘nduja di Spilinga:
Ingredienti per 4 persone:
400 g di semola rimacinata di grano duro
20 g di farina di farro
20 g di farina di segale
10 g di farina di canapa
50 g di farina integrale
Acqua tiepida (circa 200 ml)
Un cucchiaino di sale
200 g di caciocavallo silano DOP
Mezzo bicchiere di latte
20 g di burro
2 cucchiai di olio extra vergine di oliva calabrese
100 g di ‘nduja di Spilinga
Pomodorini freschi a piacere
Preparazione:
Impastate le farine ed il sale aggiungendo l’acqua poco per volta, fino ad ottenere un impasto morbido e compatto, che lascerete riposare almeno un’ora coperto da un canovaccio. Per accertarvi che l’impasto vada bene, premetelo con un dito: se l’incavo formato si riempie lentamente, ma non del tutto, allora è al punto giusto. Tagliuzzate o grattugiate il caciocavallo e mettetelo nel latte: tenetelo in frigorifero.
Riprendete la pasta, stendetela (con il matterello o con l’apposita sfogliatrice), poi arrotolate la sfoglia ben infarinata e ricavatene delle strisce larghe circa un centimetro.
Mettete sul fuoco il pentolino con il caciocavallo e fatelo sciogliere a fuoco molto lento, mescolando di tanto in tanto. Quando inizia a sciogliersi, aggiungete il burro.
Lessate la pasta in acqua salata, scolandola al dente. Mentre la pasta cuoce, sciogliete la ‘nduja nell’olio e tenetela in caldo. Scolate la pasta, rimettetela nella pentola sul fuoco lentissimo, versatevi prima l’olio con la ‘nduja e subito dopo la fonduta di caciocavallo. Mescolate bene e servite nei piatti aggiungendo altri pezzetti di ‘nduja, se si ama il gusto piccante, oppure del pomodorino fresco tagliuzzato per smorzare il forte sapore. Una foglia di basilico fresco aggiungerà colore e profumo.
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