di Margherita Corrado*
Ancora notizie da Capo Colonna (fig. 1), per conoscere meglio questa realtà in attesa di vedere la nuova sistemazione che il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo darà al piazzale antistante il santuario della Vergine omonima, patrona dell’Arcidiocesi di Crotone-Santa Severina, dopo la sollevazione popolare dei mesi scorsi volta ad impedire la cementificazione del sottostante foro romano. Finite da poco le annuali celebrazioni in onore della veneratissima immagine sacra che qui ebbe la sua prima sede (fig. 2) – la Vergine è rappresentata in piedi, mentre allatta il Bambino (fig. 3) –, vale la pena di raccontare qualcosa della storia del dipinto, meno remota ma più complessa e interessante di quanto comunemente si creda.
Sfatiamo subito due radicati luoghi comuni: non è (più) un’icona, né può definirsi bizantina in senso stretto. L’irreversibile rovina della tavola di legno che fungeva da supporto impose, infatti, in data incerta, il trasferimento su tela della pittura eseguita a tempera, consentendo di praticarvi quella miriade di fori di diverso diametro che testimonia l’abitudine, corrente in passato, di fissare direttamente alla tela i gioielli donati dai fedeli alla Madonna per devozione (fig. 4). L’immagine sacra, d’altra parte, non risale al mezzo millennio durante il quale la Calabria fu parte dell’impero d’Oriente (metà VI – metà XI sec.), né giunse in Italia dal Levante al tempo dell’iconoclastia (VIII – IX sec.) o dopo la caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi (1453). Spetta, invece, alla seconda metà del Quattrocento ed è riconducibile all’ambiente artistico napoletano, posto allora al servizio della corte aragonese.
Cade, perciò, la tardiva tradizione antiquaria che pretendeva di riconoscervi uno dei ritratti della Vergine eseguiti da san Luca Evangelista con l’aiuto divino e lo credeva trasferito a Capo Colonna da san Dionigi l’Areopagita (I sec.), presunto evangelizzatore di Crotone e primo vescovo della diocesi (fig. 5). La stessa attribuzione a Dionigi di un ruolo fondativo nella vita della chiesa crotonese probabilmente non è anteriore al’età angioina, forse un omaggio dei Ruffo, allora Marchesi di Cotrone, alla monarchia francese che aveva concesso loro il titolo sottomettendogli una importante città demaniale (fig. 6). La scrivente ha curato di recente un volume dedicato all’argomento e alla rete di relazioni costruita, col tempo, tra il patrono ‘francese’ tardivamente imposto dall’esterno e la Vergine da sempre oggetto precipuo della devozione locale, degna sostituta di Hera Lacinia: Il santo dei forestieri. A proposito di san Dionigi Areopagita proto vescovo di Crotone, pubblicato da Città del Sole Edizioni nel 2014.
Le scelte stilistiche e decorative che obiettivamente avvicinano l’immagine della Madonna allattante di Capo Colonna ai canoni dell’estetica bizantina, sufficienti a farne un’opera anacronistica per il tardo Quattrocento benché sia uscita da un atelier alla moda, non sono però casuali. Si tratta certamente di un prodotto realizzato su commissione. Esso presuppone e asseconda il profondo legame del clero e del popolo crotonese con la tradizione religiosa orientale, formalmente abbandonata per passare al rito latino già da quattrocento anni. Si ipotizza, anche in ragione di ciò, che il dipinto sia stato pensato proprio per il santuario mariano del Capo, che, documentato archeologicamente dal XIII secolo (fig. 7) – la preesistente struttura curva retrostante il lato breve est la fa spesso supporre, a torto, bizantina –, pur modestissimo sul piano architettonico, all’epoca già figurava tra i luoghi di culto e pellegrinaggio costieri più rinomati del Mediterraneo.
La litania delle Sante Parole, patrimonio di tutta la marineria cristiana al tramonto del Medioevo, menziona infatti la sola S. Maria del Cavo delle Colonne quale tappa intermedia tra Brindisi e Messina (fig. 8). Non è dato sapere, però, se con l’immagine sacra giunta fortunosamente fino a noi si volle sostituirne un’altra più antica, quella sì eventualmente di fattura orientale e vecchia di molti secoli – un’altra Madonna allattante? –, né se la committenza, certamente di alto rango, fu pubblica (civile o religiosa) o invece privata.
Alla rovina della parte inferiore della tavola dipinta, peraltro compatibile con il vano tentativo dei pirati turchi di bruciarla ricordato quale primo miracolo (1519), seguì un restauro che modificò la postura del soggetto ritratto compromettendo, alla lunga, la riconoscibilità del tipo iconografico. Come la quasi totalità delle madonne allattanti (d’Oriente e d’Occidente), infatti, anche quella di Capo Colonna era raffigurata in maestà, dunque seduta in trono, nell’atto umanissimo e commovente di scoprire con la mano sinistra il seno destro per offrirlo al Bambino Gesù, tutto intento a suggere, aggrappato con entrambe le manine al polso materno e seduto sulla coscia sottostante. La verticalità della mano destra della Vergine, non coinvolta nel gesto dell’allattamento divino, dipende invece dalla posizione del braccio corrispondente, adagiato sull’ormai invisibile bracciolo destro del trono e leggermente arretrato.
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L’incapacità del pittore chiamato a restaurare l’icona di riprodurre correttamente il tema iconografico originale, o la sua ignoranza del medesimo, reso forse irriconoscibile dall’esteso danno subito dal manufatto, generarono il fraintendimento – se non si trattò di un espediente adottato ad arte – che, resecata la tavola in modo da isolare la coppia Madre-Figlio dal primitivo contesto, produsse l’annullamento del trono. Giocando poi sulla disposizione delle pieghe del pesante mantello scuro che avvolge la Vergine, lo allungò ed irrigidì al punto da disegnare l’alta figura in piedi a tutti nota. Alla base del dipinto comparve allora la fiamma che si distingue con qualche difficoltà sullo sfondo bruno del manto, esplicita allusione alla pira accesa dai Turchi nel 1519. In tutto ciò, il Bambino, pur mantenendo la primitiva flessione delle gambette, venne a trovarsi privo di qualsiasi punto di appoggio, ‘ancorato’ al solo polso sinistro della Madonna. Le riproduzioni del dipinto a scopo devozionale, su carta e su metallo, correggono spesso quell’anomalia senza indagarne le ragioni, inarcando il braccio e la mano destra della Vergine (fig. 9), paghe di risolvere con poco, così facendo, un’incongruenza palese.
L’ultimo restauro della tela in ordine di tempo, quello eseguito a Cosenza dopo il furto sacrilego dell’ottobre del 1983, ha finalmente restituito ai Crotonesi l’immagine sacra nello splendore della policromia originale, consentendo di apprezzare nuovamente, a distanza di secoli, oltre alla pulizia delle linee e all’uso sapiente di colori e lumeggiature, la complessità e la raffinatezza dell’abbigliamento della Vergine e del Figlio, l’eleganza e la ricercatezza di stoffe e passamanerie, la trasparenza dei veli. Ha ridato evidenza, inoltre, al gesto dell’offerta del seno che l’annerimento causato dalla degradazione della vernice esterna e del sottostante strato pittorico aveva quasi cancellato, causando i fraintendimenti interpretativi che, ben documentati nell’Ottocento e per quasi tutto il secolo successivo, avevano trasformato la Galaktotrophousa in una più comune Odigitria (fig. 10). La riproduzione in scala 1:1 del dipinto conservato in Cattedrale fin dal 1519 eseguita nel 1913 dal pittore Filippo De Falco per l’altare della Chiesa della Beata Vergine di Capo Colonna, specchio fedele delle condizioni dell’opera a quella data, rende evidente la distanza con l’immagine ‘ritrovata’ grazie al restauro.
Quest’ultimo ha consentito al professor Giorgio Leone di inquadrare per primo correttamente il dipinto sul piano stilistico e cronologico, mentre la scrivente, alla luce delle tante incoerenze divenute palesi, ha ricostruito il maldestro intervento di trasformazione dell’immagine sacra ricordato sopra e tentato di risalire ai caratteri originali della raffigurazione, illustrandoli in una piccola mostra promossa nel 2014 dall’Ufficio per i Beni Culturali Ecclesiastici dell’Arcidiocesi e dal Gruppo FAI di Crotone.
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LE IMMAGINI (1- 10)
*Margherita Corrado, calabrese, è nata a Crotone nel 1969. Si è laureata in Lettere Classiche (indirizzo archeologico) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e specializzata presso la Scuola di Specializzazione in Archeologia di Matera. Romanista di formazione, ha prestissimo orientato i propri interessi verso l’età post-classica, con particolare riferimento all’alto Medioevo di marca bizantina. Dopo un lungo tirocinio nel volontariato archeologico, dal 1996 lavora come collaboratrice esterna per la Soprintendenza Archeologica della Calabria. Negli anni, è stata incaricata della catalogazione di migliaia di reperti di diversa origine e cronologia ed ha operato sul campo in tutte le provincie calabresi (saltuariamente anche in Puglia), affiancando la Direzione Scientifica nell’indagine stratigrafica di siti databili dall’età arcaica fino al XIX secolo, compresi importanti cantieri di archeologia urbana, aree santuariali magnogreche ed edifici di culto cristiani. Ha collaborato con l’Amministrazione anche per l’allestimento di mostre temporanee e di esposizioni museali permanenti. E’ autrice di un centinaio di pubblicazioni, una decina delle quali monografiche, eterogenee per impostazione, cronologia e contenuti ma con una spiccata predilezione per la cultura materiale e le arti minori (in particolare l’oreficeria), molte delle quali edite negli atti di convegni nazionali e internazionali. E’ membro della Società degli Archeologi Medievisti Italiani, dell’Istituto per gli Incontri di Studi Bizantini, del Circolo di Studi Storici Le Calabrie e dell’Istituto Italiano dei Castelli. Collabora con l’Ufficio Beni Culturali dell’Arcidiocesi di Crotone-Santa Severina. Referente del Gruppo FAI di Crotone dal 2013, è anche socia fondatrice di un paio di associazioni culturali a carattere locale per conto delle quali svolge attività didattica nelle Scuole e cura visite guidate gratuite tese ad avvicinare la cittadinanza ai temi dell’archeologia e della storia calabrese.