Che c’è di più audace e, a un primo sguardo, utopistico della Dichiarazione d’indipendenza americana che mette tra i diritti inalienabili concessi agli uomini «la vita, la libertà e la ricerca della felicità»?
E che si fa quando quella ricerca appare vana, quando misere condizioni di vita stringono al collo, quando la recessione economica toglie, insieme ai beni materiali, anche la forza e il coraggio di ricercarne? Obama, lo scorso gennaio, indicò agli Americani la virtù che serve a uscire dalla crisi e a realizzare l’obiettivo additato da quella Dichiarazione, in apparenza così astratta: la resilienza, la capacità cioè di reagire agli urti modificandosi, di migliorarsi e riemergere dalle difficoltà non spezzati, ma più forti.
Di resilienza, felicità e bene comune (anzi: beni comuni) si è parlato venerdì 18 ottobre al Salone degli Affreschi nell’Ateneo di Bari in un affollato incontro dal titolo, appunto, La felicità degli antichi e dei moderni, organizzato per il Centro interuniversitario di studi sulla tradizione da Olimpia Imperio, auspice l’editore Laterza (ancora tra gli ormai pochissimi veri promotori di cultura non effimera nel Sud Italia). A dialogare, con il Rettore Corrado Petrocelli (in una delle sue ultime occasioni pubbliche in tale veste), c’erano Luciano Canfora, Andrea Giardina e Federico Rampini, tre intellettuali che dalla storia cercano risposte che li (ci) aiutino a comprendere il presente.
E la prima domanda è: la felicità è solo nel progresso, in una marcia inarrestabile verso una mèta mai pienamente raggiunta? è questo l’unico possibile modello che sia dato agli uomini? I Greci hanno consegnato al mito l’archetipo di chi si sforza di migliorare la vita degli altri e regalare loro la felicità (…la possibilità di essere felici): è Prometeo, che ruba il fuoco (la conoscenza) agli dèi e lo dona agli uomini. Ma se per la sua azione costui fu legato a una roccia e divorato in eterno dall’aquila di Zeus, quale speranza intravvedevano gli antichi per l’umanità? L’età dell’oro – sembrano dirci piuttosto – appartiene al passato e dopo c’è spazio solo per la decadenza. Il ritorno dell’età dell’oro, però, è possibile, nella forma dell’utopia: questo è forse il più sostanzioso dono che l’antichità ci abbia lasciato. Dono sterile se ristagna nella contemplazione di un altrove irraggiungibile: fertile se invece stimola a raggiungerlo, quell’altrove.
Resilienza, appunto: intravvedere perfino nelle più cupe difficoltà dell’oggi la possibilità dell’utopia.
Il passato non è un Eden, un paradiso perduto: lo sapeva bene Lucrezio. L’uomo si è conquistato ogni pezzo del suo benessere strappandolo con la lotta; ma poi l’aurum, il denaro, e l’ansia del suo possesso per soddisfare bisogni inesistenti, l’ha schiacciato. Ecco l’utopia di Lucrezio, la sua resilienza: l’invito a tornare alla vita prior, a una vita autentica, essenziale, di cui è padrone l’uomo, non i suoi beni.
Sembra strano parlare di felicità oggi, quando l’Europa attraversa una crisi economica maligna, cinica, dispotica. Alcuni decenni fa, quando la storia era davvero sembrata per un attimo un percorso lineare e il sole dell’avvenire ormai sul punto di sorgere, si diceva che le crisi fossero il segno dell’imminente crollo del capitalismo. Abbiamo poi scoperto che le crisi non alterano gli equilibri sociali, anzi li cristallizzano, scavano fossati più profondi; e ci abbiamo fatto l’abitudine. Ma proprio per questo c’è bisogno di parlare di felicità.
Ce n’è bisogno nelle nostre terre, dove la disoccupazione cresce, le aziende chiudono, la povertà mette in dubbio il benessere che avevamo dato per acquisito. Gli Stati Uniti – racconta Rampini, «che città vide molte, e delle genti l’indol conobbe» – da quella crisi cominciano a uscire, perché hanno saputo essere resilienti, hanno cioè messo a valore la solidarietà sociale e i legami di cittadinanza, creando reti di protezione per i deboli. Hanno capito che, come diceva Pericle a un’Atene accerchiata dalla guerra e dalla peste, se un cittadino prospera nella propria fortuna personale mentre la città decade, il suo benessere è fragile; ma se è in difficoltà in una città solida e robusta, progredire gli sarà facile.
La felicità che si acquista accumulando beni materiali e individuali, dicono gli psicologi, aumenta solo fino a un certo punto, poi la sua crescita si arresta. Non così la felicità che scaturisce dall’incremento di beni collettivi. Il più importante? l’istruzione! Condorcet, chiuso in carcere, ragionava sul progresso e lo legava all’istruzione come diritto (reale) per tutti. Non è questa forse la vera via della resilienza, l’unica possibile per l’Europa?
La frase citata all’inizio riprende un principio di John Locke (Two Treatises of Government), che però elencava, quali diritti inalienabili, «la vita, la libertà e la proprietà». Conservare quelle parole sarebbe stato forse più appropriato, per una nazione che, nella fase più aggressiva della sua storia economica, avrebbe fatto del capitalismo non “temperato” e del neocolonialismo la sua bandiera. Ma quella frase fu modificata, con l’introduzione del diritto a cercarsi la felicità, da Thomas Jefferson, che definiva sé stesso come un epicureo. Proprio come Lucrezio.
La felicità (il «piacere») era un obiettivo ben più degno per una nazione che nasceva rifiutando i lacci del vecchio regime e che non poteva perciò trovare nella fame di “roba” dei latifondisti, nell’aurum, la sua più profonda ragione d’essere. Che Jefferson avesse imparato l’autenticità di una «ricerca della felicità» dagli antichi, è una preziosa indicazione, se vogliamo coglierla.
*Claudio Schiano (PhD), barese ma di famiglia campana, meridionale per nascita e vocazione, è ricercatore di filologia greca e latina all’Università di Bari, dove insegna Storia della tradizione classica nei corsi di laurea in Lettere. I suoi interessi di studio si concentrano sui meccanismi della tradizione: come le opere antiche sono state lette, trasmesse, utilizzate, manipolate, censurate, soppresse per costruire, in un percorso storico, la nostra coscienza di uomini moderni. Si è occupato, in particolare, di trasmissione manoscritta di testi scientifici (medicina e geografia), di opere greche di controversia tra cristiani e giudei nel Medioevo, di sopravvivenza della civiltà greca nella Puglia medievale, di ricezione rinascimentale degli Oracoli sibillini, di storia della filologia nell’Otto-Novecento. Ha pubblicato: Il secolo della Sibilla. Momenti della tradizione cinquecentesca degli «Oracoli sibillini» (edizioni di pagina, 2005); Dialogo di Papisco e Filone giudei con un monaco (Edipuglia, 2005); Artemidoro di Efeso e la scienza del suo tempo (Dedalo, 2010).
Vorrei ringraziarla per la chiarezza della sua esposizione e dell’analisi di un tema complesso di cui è riuscito a fissare alcuni punti cardine che offrono non pochi motivi di riflessione. Credo che la terrò d’occhio con attenzione! Cordialmente, Sarah.