Il Sud è da secoli luogo d’origine di grandi artisti le cui opere, note prevalentemente attraverso i libri o saltuarie mostre, spesso si trovano fisicamente a pochi passi da noi, eppure capita che la loro abituale collocazione sfugga a tante persone, semplicemente per scarsità di informazione. Questa volta, ai lettori che mi seguono su Famedisud, voglio parlare dell’Annunciata, opera magistrale e capolavoro assoluto del pittore siciliano Antonello da Messina. La tavola, dipinta nel 1475 e considerata senza alcun dubbio una delle più alte opere d’arte del Quattrocento italiano, è custodita proprio in un museo del nostro amato Sud Italia: la “Galleria Regionale della Sicilia” di Palazzo Abatellis a Palermo.
Prima di descrivere la sublime figura di donna protagonista del dipinto, avvolta in un manto color del mare, è opportuno dare alcune coordinate per inquadrarla nel contesto storico in cui venne realizzata. “Ave Maria gratia plena…” è la preghiera ripresa dalla “Salutatio angelica”, cioè dalle parole che San Luca nel suo Vangelo mette in bocca all’arcangelo Gabriele nel momento in cui si presenta alla Vergine per annunciarle la maternità divina, ed è proprio in un periodo di forte diffusione della devozione mariana, quale fu quello fra Tre e Cinquecento, che venne realizzata l’Annunciata.
L’Antico testamento proibiva le immagini sacre, ma da quando il Verbo si è fatto carne quel divieto non ha più ragione di essere, anzi, negare che Cristo sia rappresentabile significa in pratica negare che si sia fatto uomo e quindi peccare di docetismo (dottrina cristologica basata sulla convinzione che le sofferenze e l’umanità di Gesù Cristo fossero apparenti e non reali). I pittori e gli artisti svolgono dunque un ruolo importante come testimoni dell’Incarnazione, e questo ruolo si esplica nella maniera più manifesta, vale a dire trattando il tema dell’Annunciazione narrata da San Luca nel suo Vangelo.
Il domenicano fra Michele di Lilla, uomo del tempo, scrisse che l’Ave Maria “eccede le altre (preghiere) per la sua utilità, imperochè questa salutazione generò el figliuolo di Dio, regenerò al mondo, spogliò lo inferno, fu reputativa del cielo e venne a dare ogni bene, la quale chi dice divotamente tiene al luogo dell’Angelo Gabriello, e quasi per una speciale modo, genera un’altra volta el figliuolo di Dio in quella, o almanco in sé medesimo per lo auditorio della gloriosa vergine Maria la quale è salutata”. Di conseguenza, proprio questa visione dell’evento evangelico e della preghiera che lo rievoca cambiò il modo di rappresentare il gesto e lo stesso atteggiamento mentale di Maria, e la tavola di Antonello da Messina risulta esemplare nel mostrare questo cambiamento. Lo sguardo e le movenze della Vergine si fanno più disponibili, aperte verso l’esterno, sembrano comunicare con il riguardante, divenendo più coinvolgenti e portando alle sue logiche conseguenze la rivoluzione iconografica avviata già qualche tempo prima.
Quindi, ci troviamo, senza dubbio, dinnanzi a una giovanissima donna, l’eletta Maria, che colta di sorpresa dall’arrivo dell’Angelo deve sospendere la lettura endofasica del libro. Si presenta a noi da sola per la prima volta in assoluto, senza la tradizionale compagnia dell’Angelo annunciante, divenendo in questo modo protagonista indiscussa della scena; una figura isolata, solitaria dunque che ripropone il tema dell’Annunciazione nella maniera più alta ed intensa. Tutta l’attenzione viene perciò concentrata sul suo gesto e sul suo dolcissimo e purissimo volto pieno di grazia. Lo spazio in cui si trova, elaborato in modo sofisticato, è libero da architetture e paesaggi. Antonello, infatti, con l’Annunciata decide di creare una composizione inusuale con una straordinaria sintesi formale, dove lo stesso sfondo nero ci proietta con l’immaginazione in una stanza buia, in cui il tempo sembra essersi fermato.
La futura Madre del Salvatore stringe con le tre dita della mano sinistra il velo azzurro che l’avvolge, quasi a sigillare la già compiuta pienezza del grembo, e lo fa più che per pudore per proteggere e difendere ciò che sente dentro: “Dominus te cum”, mentre con la mano destra sollevata, percepita dal riguardante di taglio in una particolare raffinatezza prospettica, compie un gesto in avanti, tanto da sembrar fendere lo spazio e oltrepassare la tela, quindi con una mano protegge e con l’altra allontana. Quest’immagine rappresenta il mandato della Vergine, chiamata a rispondere a una responsabilità assoluta: essere madre di Dio.
L’immagine della Madonna senza tempo è però predisposta in uno spazio reale, quasi in un angolo, per questo Antonello dispone in diagonale il leggio che ci fa sentire la profondità e il volume del suo corpo. Il gioco prospettico, inoltre, è potenziato dallo spigolo verso di noi che viene in avanti per lasciare indietro la figura della Vergine. Si notino anche le impostazioni spaziali delle assi in cui è tracciato lo spigolo del banco dove è poggiato il leggio il cui spigolo corrisponde invece con l’asse centrale della figura: il lieve scarto dei due angoli fa ruotare il capo di Maria. La figura, quasi piramidale, appare perciò in movimento, freme, non è statica, se ne percepisce un dinamismo interiore psicologico, è percorsa da un brivido dato dal momento della consapevolezza del mistero dell’Annunciazione. Nessuno prima d’ora, e tanto più con un soggetto sacro, era stato capace di rappresentare la femminilità, tra sensualità e turbamento, come Antonello in questa ragazza di forte carattere e infinita dolcezza.
Una delle innovazioni compositive che rendono l’opera d’immensa qualità artistica è l’intenzione di offrire il momento dell’Annunciazione come un evento individuale, vissuto dalla Vergine interiormente e intimamente. Antonello perciò si sbarazza dell’Angelo, che solitamente nell’iconografia tradizionale del periodo viene rappresentato mentre, appena disceso dal cielo su ali leggiadre, fa ingresso teofanico presentandosi in proskynesis e mani congiunte dinanzi la Vergine incredula, ma questa volta il messaggero di Dio è appunto proiettato dentro Maria. Il suo vuoto, la sua assenza corporea è riempita dalla nostra capacità interpretativa d’immaginare lo spazio in cui noi ci troviamo.
Gli occhi di Maria, rivolti leggermente verso sinistra, sono umili e alteri e sembrano assentire a ciò che l’è stato annunciato. Elemento di massima modernità nella composizione è la prospettiva frontale non laterale: la Vergine infatti ha lo sguardo che viene verso di noi per poi arrestarsi come per un ripensamento, per un’improvvisa necessità di concentrazione in sé che vediamo sottolineata dal gesto a mezz’aria della mano che intercetta la parola dell’angelo. La Vergine nel far sentire lo spazio che separa il riguardante da lei, è come se volesse dire dentro di sé: “Un attimo ti ascolto”. Questo sguardo pensoso, dubitativo, impaurito, interroga l’Angelo: “Com’è possibile che ciò avvenga se non conosco uomo?” Per cui ella incredula e pensierosa guarda nel vuoto, medita il suo destino attraverso la risposta data dall’Angelo: “…nulla è impossibile a Dio…” e per far sì che questo momento appaia più intenso, Antonello con il fondo nero rievoca il buio in cui si agita la coscienza, il buio della notte in cui si prende una decisione o si acquista consapevolezza, l’attimo in cui Maria dirà: “Eccomi, sono l’ancella del Signore avvenga di me quello che hai detto”.
Dominano nella composizione quel calmo discendere del velo azzurro e la nobiltà del gesto, che spinge verso l’esterno creando una commistione tra lo spazio interno in cui vi è Maria e quello esterno in cui c’è lo spettatore, non vi è infatti alcuna frontiera tra spazio reale e pittorico, anzi si sente una perfetta continuità tra il mondo dei sensi corporei e quello dell’esperienza interiore. Qui vi è un chiaro tentativo di richiamare il riguardante all’interno del dipinto in modo da ravvicinarlo verso una devotio moderna e creare uno stretto rapporto con l’arte sacra.
La capacità comunicativa dell’Annunciata di Antonello di porgersi come opera di meditazione la rende molto coinvolgente ed è dovuto alla grande bravura dell’artista il suo riuscire a restituire gli affetti e a suscitare in chi la contempla un rapporto emotivo con essa, tanto da sembrare interloquire con l’osservatore, per il quale essa è fonte di intense emozioni.
L’opera, ambientata in un luogo indistinto e indefinibile, grazie al leggio resiste all’atemporalità giacché questo oggetto indica il tempo preciso nelle sue forme gotiche, unico elemento che àncora l’opera al suo periodo (1470-1475). Il libro aperto sul leggio rinuncia ad avere valenza simbolica per recuperare invece una valenza più strettamente narrativa, profetica: tutto si realizzerà secondo quello che è stato scritto. Un soffio di vento sembra far svolazzare le pagine, forse vibranti alla presenza della discesa dello Spirito Santo che ha trovato incarnazione nel seno della Vergine e che in ebraico si dice “ruach” (alito, brezza). Il movimento delle pagine non ci impedisce di scorgere la lettera M in evidenza, iniziale di Magnificat, la risposta della Vergine all’annuncio divino.
In quest’opera si può scorgere, inoltre, la maturazione dell’esperienza di Piero della Francesca, che concepisce l’impostazione spaziale in stretto rapporto con l’immagine, e della pittura fiamminga che enuclea la verità naturale nella cura del dettaglio. La posa di tre quarti, lo sfondo scuro e la rappresentazione essenziale derivano proprio da questi modelli. La luce è radente ed illumina l’effigie lentamente, facendo emergere gradualmente i lineamenti e le sensazioni del personaggio. L’uso dei colori a olio permette poi un’acuta definizione della luce, con morbidissimi passaggi tonali, che riescono a restituire la diversa consistenza dei materiali. A differenza però delle opere fiamminghe, Antonello garantisce una salda impostazione volumetrica della figura, andando oltre lo stile “epidermico” dei fiamminghi e concentrandosi su altri aspetti, quali il dato fisiognomico individuale e la componente psicologica. Il bellissimo volto, che pare essere incorniciato dal manto, viene messo in risalto da una trasparenza meravigliosa, simile a quella del marmo pario usato dagli scultori della Magna Grecia. Sublime trasparenza di una pelle che così rivela, e al tempo stesso celebra, il frutto divino che contiene.
In discrete condizioni di conservazione, quest’opera si è ormai imposta come l’autentica icona di Antonello. Essa subì un primo restauro unanimemente considerato cattivo, nel corso dell’Ottocento; questo doveva aver rimosso molte finiture di superficie, togliendo parte delle ombre che modellavano la mano rivolta in avanti e anche parte dell’ombra attorno al viso. Un secondo restauro, compiuto dall’Istituto Centrale del Restauro verso il 1940-1941, puntò a consolidare la tavola piuttosto tarlata e a togliere alcune ridipinture che ancora la oscuravano, come ad esempio l’aureola, e a rimuovere certe ombre causate dal precedente intervento, in modo da ripristinare una più corretta articolazione dei volumi.
Siamo così giunti alla conclusione del nostro – spero – interessante “viaggio virtuale”, concepito non solo per far vivere al lettore l’esperienza emotiva che Antonello riesce a suscitare attraverso quest’opera magnifica, ma soprattutto per comprendere quanto essa sia importante, per la sua modernità, nell’ambito dell’arte rinascimentale italiana. Un dipinto portatore di linguaggi innovativi, che anticipa i chiaroscuri di Caravaggio, che sconvolge le regole prettamente allegoriche del Quattrocento stravolgendo l’idea iconografica e visiva del tema trattato e dimostrando, quindi, quanto questo artista del Sud sia sensibile e geniale. Non resta a questo punto che andare a Palermo e visitare Palazzo Abetellis, scrigno di questo straordinario capolavoro.
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