Alla fine degli anni ’90, quando il Football Club Crotone raggiunse lo storico traguardo della promozione in Serie B, l’entusiasmo generale fece però una vittima: l’adeguamento della curva nord dello stadio comunale “Ezio Scida” si mangiò, letteralmente, un lembo dell’agorà di Kroton, la città magno-greca fondata nell’VIII secolo a.C. che permane sotto l’intera città contemporanea, poiché ne condivide il sito ma la supera abbondantemente in estensione. La platea in cemento armato della nuova gradinata sorse sopra uno scarico di materiali architettonici (colonne in pietra, rivestimenti in terracotta, ecc.) relativi ad un edificio che gli scavi tardivamente eseguiti tutto intorno dimostrarono essere di grande importanza nel panorama dell’edilizia pubblica della polis, inserito in un contesto peculiare e di pari rilevanza (foto 2.)
Non fu una fatalità – attenzione! – ma un danno scientemente procurato dagli amministratori comunali, nell’ingenua speranza che l’indifferenza generale e la rapidità di esecuzione dei lavori avrebbero impedito alla Soprintendenza Archeologica di accorgersi dell’accaduto. Una speranza fondata, perché l’Ufficio regionale del Ministero dei Beni Culturali attraversava una fase di scarsissima lucidità, abbagliato dall’inedito rapporto di collaborazione stabilito con il sindaco Pasquale Senatore (1997-2005) dopo anni di durissima conflittualità. L’ubriacatura fu tale che solo a cose fatte il soprintendente Elena Lattanzi decise di adottare i provvedimenti del caso e disporre quanto meno l’indagine archeologica delle immediate adiacenze della gradinata, per tentare di comprendere la natura e la portata di quanto era andato irrimediabilmente perduto.
Nessuna attenuante, però: fin dal 1981, infatti, tutta l’area dello stadio era stata assoggettata a vincolo archeologico, parte diretto e parte indiretto, sulla base delle inequivocabili risultanze di più campagne di scavo (svolte dal 1978 in poi), con un provvedimento tra i primi nel suo genere nella città di Pitagora. Nessuno poteva nutrire dubbi circa il fatto che gli interventi di ampliamento e adeguamento dello stadio richiesti dal passaggio alla serie cadetta avrebbero interferito con la tutela delle vestigia di Kroton. Si preferì, ciò nonostante, ignorare quanto accadeva fino a quando la monumentalità dei resti sacrificati all’idillio tra le due Amministrazioni costrinse il Soprintendente ad un brusco risveglio. Quel ‘discolo’ del Sindaco se la cavò con poco più di una ramanzina materna e una pacca sulla spalla.
Perché rivangare questo spiacevole episodio di mala-tutela a distanza di circa vent’anni? Non fu il primo né l’ultimo scempio perpetrato a Crotone e Crotone non è, purtroppo, un’eccezione nel panorama italiano, ieri come oggi, sotto questo aspetto. Conviene rivangarlo perché, paradossalmente, la storia non ha nulla da insegnare a chi non è disposto ad apprenderne la lezione.
I temi dell’ampliamento e adeguamento dello stadio (foto 4.) tornano infatti di attualità nel 2016, con l’imprevedibile ascesa del F.C. Crotone in Serie A: si creano nuovamente le condizioni dell’occasione precedente, le due Amministrazioni sono chiamate per la seconda volta a tutelare interessi potenzialmente divergenti. L’esperienza dovrebbe dettare prudenza specialmente al Ministero guidato da Dario Franceschini, cui è concessa l’opportunità di prendere le distanze dagli errori del passato. In effetti accade proprio questo: il 3 giugno e il 13 luglio 2016 il Segretario Regionale e Soprintendente ad interim fino alla nomina del nuovo Soprintendente unico creato dalla riforma del MiBACT nega, Codice alla mano, la possibilità di ampliare l’impianto (tribuna ovest e curva sud) sulla superficie adiacente, soggetta a vincolo diretto. Non è possibile, in quel contesto, scavare allo scopo di costruire.
Dall’8 agosto 2016, però, si costruisce eccome intorno allo stadio, senza alcuna sosta se non lunedì 15, per ovvie ragioni. Cos’è accaduto dopo il 13 luglio? Basta leggere i resoconti di stampa, puntualissimi, per saperlo. Il Ministero non ha annullato il vincolo del 1981, né si è assunto la responsabilità di consentire un’eccezione, evenienza del resto non prevista dalla normativa vigente; se mai, si è reso protagonista di un gioco di prestigio degno del grande Houdini. È bastato non parlare più di scavi né di costruzione, infatti, bensì di “installazione”, sulla superficie esistente, di “strutture prefabbricate di tipo leggero, completamente rimovibili” – le fotografie smentiscono, però, quel mero gioco di parole (foto 1 e 5) –, perché la richiesta di autorizzazione rivolta alla Soprintendenza il 18 luglio, dopo l’incontro del 14 con il nuovo dirigente, ottenesse, il 19 luglio, giorno stesso in cui veniva protocollata in entrata, l’assenso sperato.
L’assenso concerne una occupazione temporanea di suolo pubblico condizionata, limitata com’è nel tempo (due anni) e seguita da uno smantellamento del nuovo e del vecchio, preludio allo scavo archeologico dell’area. Queste le condizioni imposte, il cui tono vagamente ricattatorio suscita più di qualche perplessità nel merito e più di qualche ironia in prospettiva. Quale sarà, infatti, la ‘ritorsione’ del Ministero se, a due anni da oggi, il Comune non volesse/potesse rispettare il contratto-capestro? E come si fa a dare per certa la demolizione di un impianto sportivo che ha superato i settant’anni, carico perciò di memorie collettive e pregno di valenza identitaria per la comunità locale?
Il solito pasticcio calabrese, si dirà. L’anomalia, però, è tutta romana, anche se il caso si ambienta in Calabria. Chi vive al Sud sa bene che nel quotidiano le eccezioni non sono affatto rare come dovrebbero, anzi, sono più frequenti della normalità. Chi vive nel resto del Paese ha evidentemente preso atto di questo stato di cose e non solo rinuncia a contrastarlo ma addirittura lo fomenta. Un comportamento individuale siffatto stupirebbe relativamente, stupisce oltremodo quando è adottato da un Ministero e stupisce due volte quando nella scelta di lasciare al neo-Soprintendente una decisione così delicata si intuisce la volontà, neppure tanto velata, di pararsi le spalle: la decisione, a norma o contro legge che sia, è stata presa localmente. Peccato che le conseguenze di tale decisione travalichino la dimensione locale e costituiscano un precedente spendibile in tutto il Paese, da qui in poi, dai campioni (non pochi) della mala-tutela.
A chi, come la scrivente, lo scorso anno ha vissuto da vicino, sul fronte delle associazioni locali, la vicenda della cementificazione del foro romano di Capo Colonna, non sfugge l’analogia con la bega odierna dello stadio “Ezio Scida”: in casa propria (lì un parco archeologico, qui un’area archeologica vincolata), il MiBACT assume decisioni e adotta comportamenti borderline che ad un privato, nelle stesse condizioni, non consentirebbe mai. Se nel 2015 ha agito contro l’interesse dell’utenza; nel 2016, oltre a reiterare quell’errore, ha permesso che con un mero gioco di parole si aggirassero i divieti del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Bisogna dare ragione ad Italo Calvino: “Non c’è linguaggio senza inganno”.
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