L’enigmatica Grande Madre di Taranto custodita al Museo di Berlino. Conte: «Vi arrivò attraverso il mercato clandestino»

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Dea in trono, da Taranto, V sec. a.C. – Altes Museum Berlino – Photo by Ealdgyt | CCBY3.0

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Images: by Jean-Pierre D’Albéra | CCBY2.0 [click to enlarge]

Io sono la Regina che governa, colei che accumula tesori,
piena di saggezza, la prima di coloro che sono degni di adorazione.
In diversi luoghi le energie divine mi hanno posta.
Io entro in molte case e assumo numerose forme.
L’uomo che vede, che respira, che sente parole pronunciate,
ottiene il proprio nutrimento solo attraverso me.
Pur non riconoscendomi, egli dimora in me.
Ascolta, tu che conosci! Ciò che io dico è degno di fede.

di Kasia Burney Gargiulo

Da un secolo esatto c’è una Madre separata dalla propria Figlia. La Madre è la magnifica e misteriosa Dea in trono custodita presso l’Altes Museum di Berlino, mentre la figlia è la città pugliese di Taranto, stuprata e vilipesa, resa abietta agli occhi del mondo, lei che è stata una delle auree sorgenti del Pensiero e della Civiltà occidentali. Passerà tempo ma la maledizione di quella Madre si abbatterà sopra il capo degli stupratori della Figlia e per le vie di Taranto tornerà a riecheggiare il dolce canto della Dea. E’ un sogno al quale noi che amiamo Taranto piace credere.

Qualcuno ritiene sia Persefone, Regina della Vita che si rinnova dopo la Morte, l’enigmatica Grande Madre in trono che, scolpita nel pregiato marmo di Paros, risplende assisa in una delle sale dell’Altes Museum di Berlino, città in cui fece la sua apparizione un secolo fa, acquistata – secondo la versione ufficiale – sul mercato dell’arte a Parigi.  Realizzata nel V sec. a.C. mostra evidente nelle sue fattezze il momento di passaggio dall’epoca tardo-arcaica a quella classica della scultura greca. La regalità della postura e gli oggetti che un tempo dovette tenere su ciascuna mano, ne fanno senza ombra di dubbio la rappresentazione di una divinità. Si ipotizza – anche sulla base di una analoga statua in terracotta conservata nello stesso museo – che la figura abbia potuto tenere fra le mani una coppa per il sacrificio ed un alàbastron (recipiente per unguenti) oppure un frutto, forse una melagrana, attributi che ci ricondurrebbero appunto alla dea Persefone. Tuttavia non manca chi ritiene possa trattarsi di una rappresentazione di Afrodite, opinione basata sull’acconciatura e sull’abbigliamento.

La dea siede su un trono il cui schienale le arriva alla nuca e poggia i piedi su un alto sgabello che sembra riprodurre un analogo oggetto in legno. Nella parte inferiore del trono, vicino alla gamba sinistra, si sono eccezionalmente conservate esili tracce di una decorazione a colori con palmette che ne lasciano supporre un acceso cromatismo, peraltro non inusuale nella statuaria antica. In origine doveva esserci anche un ornamento metallico, come lasciano dedurre tracce di una tale applicazione e dei fori riconoscibili sul diadema che circonda il capo della dea. La figura non è rigidamente delineata, come testimoniano le braccia non poggiate sui braccioli e la posizione dei piedi sullo sgabello. Il drappeggio della veste non nasconde le forme del corpo a cui anzi la veste a tratti aderisce rivelandolo. Tutto l’insieme produce l’effetto di un grande senso di dignità e regale austerità. Un’acconciatura la cui foggia ricorda ancora quella delle donne arcaiche, fa un bel contrasto cone un volto dal sorriso appena accennato in cui si fondono calma e dolcezza, sorriso che le è valso anche l’appellativo di Persefone Gaia. La statua ha un’altezza di cm 151, con base cm 69 x 90, ed un peso di circa 950 kg.

Secondo la grande archeologa napoletana Paola Zancani Montuoro la statua proverrebbe da un pozzo trovato a Taranto da quattro operai all’incrocio fra le vie Leonida, Principe Amedeo e Cesare Battisti; sarebbe poi stata ceduta ad un giovane del posto – il marchese Francesco Saverio De Mayda – che l’avrebbe nascosta ad Eboli per poi venderla ad un mercante d’arte, il quale l’avrebbe sezionata in più parti per portarla fuori dall’Italia; sarebbe quindi approdata a Parigi presso lo studio del mercante d’arte Hirsch dove fu sequestrata dalle autorità francesi che l’avrebbero poi ceduta ad un mercante italiano che dimostrò di esserne il proprietario; questi l’avrebbe venduta nel 1915 al Museo di Berlino. Sull’origine remota non mancano però altre ricostruzioni che riportano sempre ad una origine tarantina (il Langlotz ad es. sposta il ritrovamento in via Duca degli Abruzzi); fa però eccezione quella di H. Herdejurgen secondo cui la statua sarebbe proveniente da Locri dove sarebbe stata rubata prima di approdare a Taranto e da lì prendere il volo per l’estero.

Lo scorso dicembre a dirimere, forse una volta per tutte, questo groviglio di ipotesi è però intervenuto un nuovo studio ricostruttivo presentato a Taranto presso la sede didattica dell’associazione culturale Dopolavoro Filellenico, ossia l’Aula Magna del liceo Ferraris – Quinto Ennio. A presentarlo è stato l’archeologo Angelo Conte, autore del volume “La Dea del Sorriso” (Scorpione Editrice). Conte fa rilevare come l’allora Direttore del Dipartimento di Antichità del Museo di Berlino Theodor Wiegand, che all’epoca presentò la dea come una statua sostanzialmente integra, doveva avere sicuramente altre notizie dell’opera; si limitò, però, solo ad indicare la provenienza da una presunta antica colonia greca dell’Italia meridionale. Conservò il segreto probabilmente per garantire l’anonimato al venditore, trattandosi di un oggetto del mercato clandestino, ma anche per conservare la possibilità di avere altri frammenti e per occultare la provenienza da Taranto. Dieci anni anni dopo, nel 1925, lo stesso Wiegand dichiarò che erano stati recuperati e acquistati sul mercato clandestino altri frammenti, poi donati al Museo di Berlino. Pare inoltre che durante il sopra citato passaggio parigino della statua, ci sia stato un tentativo di acquisto da parte del Louvre, destinato a fallire a causa della esorbitante cifra richiesta per la vendita. Lo scoppio successivo della guerra provocò la chiusura della mostra perché Hirsch era tedesco e quindi la statua fu sequestrata. Un certo palermitano Virzì ne ottenne la cessione dimostrando di essere il legittimo proprietario e di averla prestata per la mostra. Da Parigi la statua fu quindi portata a Ginevra e poi a Berlino, dove venne acquistata dal Museo per l’enorme cifra di 1 milione di marchi, grazie ad una sottoscrizione indetta dallo stesso Guglielmo II.

Conte ritiene che l’opera attribuibile senz’altro ad un grande scultore, forse un maestro greco immigrato in Magna Grecia o  un colto artista locale di raffinata tecnica. Circa il materiale utilizzato, ricorda come la mancanza di marmo dell’Italia meridionale obbligasse di solito a ricorrere ad importazioni del marmo dalla Grecia in piccoli blocchi. Questa statua farebbe eccezione dato il peso di circa una tonnellata: fu forse qualche ricco aristocratico tarantino del v. sec. a.C. a far giungere dall’isola di Paro un blocco di marmo così insolitamente consistente. Nell’insieme, il lavoro di Conte va nella stessa direzione della ricostruzione della Zancani Montuoro riportando documenti originali, come la lettera dell’archeologa al Direttore del Museo Nazionale di Taranto Renato Bartoccini, datata Napoli, 1 Dicembre 1933. Quest’ultimo si rivolse alla Guardia di Finanza, il cui comandante era, all’epoca, Giuseppe Tricoli e non fu complicato rintracciare i 4 operai che rilasciarono dichiarazioni negli interrogatori.

Dall’archivio storico della Sovrintendenza per i Beni Archeologici della Puglia, è quindi emersa della documentazione inedita relativa alle indagini condotte dalla Guardia di Finanza su tombaroli e notabili della città, avvenute intorno al marzo 1934. Conte aggiunge così che dopo circa 20 anni, grazie alle testimonianze di alcune persone coinvolte, emersero le prime dettagliate notizie sul preciso luogo di ritrovamento della statua, che fu Via Duca degli Abruzzi angolo Via Mazzini e non il diverso luogo ipotizzato dalla Zancani Montuoro. Quanto alla divinità rappresentata, Conte propende per la tesi di Madelein Mertens Horn, membro emerito dell’Istituto Archeologico germanico di Roma ed esperta di scultura antica, che si oppone all’interpretazione secondo cui la dea raffigurerebbe Persefone. Per la Horn il sorriso, il mantello ed il sakkos (leggero tessuto in cui è contenuta la capigliatura) sarebbero elementi che riportano ad Afrodite, dea oggetto di culto sull’acropoli di Taranto e nel vicino insediamento di Saturo.

Questa lettura contribuirebbe a sciogliere anche la vecchia diatriba con Locri circa l’origine della statua, che secondo qualcuno porterebbe appunto in Calabria vista la dichiarazione di un anziano contadino della zona che a suo tempo sostenne d’aver partecipato, da giovane, al rinvenimento di quella che sarebbe la rappresentazione di Persefone, divinità venerata appunto a Locri, come testimonia l’importante santuario della Mannella dedicato alla regina dell’Ade. L’ipotesi-Taranto sembra dunque prendere definitivamente corpo e chissà che il Museo di Berlino, in un atto di onestà intellettuale e materiale, non decida di restituire l’opera alla città pugliese, vista la sua provenienza di origine clandestina.

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