L’EMOZIONANTE INCONTRO CON LA GRANDE FOTOGRAFA AL POLITECNICO DI BARI
di Enzo Garofalo
“Una fotografia non è mai esistita nella mia testa prima dello scatto: io vedo ciò che c’è, vibro con ciò che c’è, amo ciò che c’è, mi emoziono vedendo ciò che c’è”
( Lisetta Carmi )
Ottantanove anni, fisico minuto, la chioma candida a incorniciare un volto dagli occhi chiari ed espressivi, la troviamo già seduta a scambiare qualche chiacchiera con alcuni premurosi amici che la circondano nell’Aula Magna “Attilio Alto” del Campus Universitario di Bari. Si percepisce epidermicamente che dietro quella figura così esile e apparentemente indifesa, si cela un carattere serenamente determinato e un’anima d’una sensibilità che negli anni ha finito sempre più con l’espandersi fin dentro il suo lavoro impregnando di amore e sconfinata umanità le sue straordinarie fotografie. Lei è Lisetta Carmi, una delle più grandi fotografe italiane, ed è qui per raccontarci le sue “cinque vite” come recita il titolo del bel libro edito dalla Bruno Mondadori Editore e scritto da Giovanna Calvenzi, la più nota photo editor italiana, presente anche lei all’incontro organizzato dal Museo della Fotografia diretto da Pio Meledandri. Quella di Lisetta è la storia di una donna e di un’artista (è stata pianista concertista oltre che fotografa) che nell’arco della sua vita ha avuto più di una volta il grande coraggio di accogliere il cambiamento come un dono del destino e non come un salto nel buio del quale avere timore. Parlare oggi di lei è un piacere reso ancora più intenso dall’apprendere che a darle l’input della fotografia è stato un viaggio in Puglia, a San Nicandro Garganico per la precisione, dove giunse agli inizi degli anni ’60 al seguito di un amico venuto alla ricerca dei canti tradizionali degli ebrei. E nella sua storia la Puglia è una terra che non l’avrebbe mai più abbandonata visto che dal 1976, lei genovese, si è trasferita a Cisternino (Brindisi), prima vivendo in un trullo per 20 anni e poi andando ad abitare in una casa nel centro del paese.
Appartenente lei stessa a quella etnia e cultura ebraica che era venuta ad esplorare in Puglia, ha vissuto sulla sua pelle la violenza delle Leggi Razziali fasciste, espulsa dalle scuole a 14 anni e costretta a una formazione per lo più autodidattica, mentre i fratelli, privilegiati dall’essere maschi, ripiegavano sullo studio in qualche istituto estero. Ma le difficoltà non la abbattono e sceglie di mettere a frutto un importante talento musicale che la porta a diventare concertista in tutta Europa. La Musica: la sua prima vita. Ma ecco che presto sarebbe arrivata la nuova ‘chiamata’: la fotografia, incontrata dopo la ‘chiusura’ con la musica avvenuta in un modo particolarissimo. “Poiché tutta la vita ho cercato di dare voce a chi non ce l’ha e sono stata dalla parte dei più umili, un giorno che ne ebbi l’occasione, decisi di intervenire a una manifestazione di piazza in cui dei lavoratori rivendicavano diritti che io ritenevo legittimi. Il maestro musicista che seguiva allora la mia carriera di concertista mi sconsigliò vivamente di partecipare, temendo che tafferugli o situazioni peggiori potessero danneggiare le mie preziose mani. Al che gli risposi che se la mia carriera musicale valeva più dei diritti di esseri umani senza alcuna voce in capitolo, ebbene, avrei preferito chiudere con la musica. E così feci.”
L’incontro con la fotografia – la sua seconda vita – avvenne in occasione del predetto viaggio in Puglia, nel corso del quale il suo daimon multiforme avrebbe assunto la nuova sembianza. Giunse sul Gargano con 9 rullini e una Agfa Silette, una ‘macchinetta’ fotografica di poco conto, con la quale avrebbe tirato fuori – senza aver mai preso lezioni di tecnica alcuna – immagini di vita popolare pugliese che qualcuno osò paragonare a quelle di Cartier-Bresson. Sorpresa per tanto successo e consapevole della necessità di una adeguata formazione, iniziò a studiare da sola su un trattato di tecnica fotografica; l’Agfa Silette lasciò il posto ad una più professionale Laica e cominciò così un percorso che l’avrebbe portata ad una intensa carriera di fotogiornalista. Indimenticabili restano tanti suoi lavori: primo fra tutti il reportage realizzato fra i travestiti dei quartieri storici di Genova. Come lei stessa racconta, iniziò ad esplorare il mondo delle “graziose” dalla metà degli anni Sessanta ai primi anni Settanta, provocando scalpore generale perché per la prima volta veniva rivelato un mondo sconosciuto e per lo più codificato sotto il profilo dello squallore e della emarginazione. Lisetta ne rivela invece soprattutto la dimensione umana, l’unica che l’abbia realmente interessata in tutta la sua carriera.
“I travestiti venivano considerati degli schifosi, ma schifosi erano i loro clienti, uomini dell’alta borghesia e preti. Li ho conosciuti – racconta – a una festa di Capodanno a Genova nel 1965, festa di cui vedete un’immagine sulla copertina del libro che abbiamo realizzato con Giovanna [‘Le cinque vite di Lisetta Carmi’ – NdR]; loro vivevano nel ghetto degli ebrei, tra Via del Campo e piazza Fossatello. In 6 anni di vita insieme li ho sempre protetti, stimati, ho vissuto la loro sofferenza, l’emarginazione, le violenze, gli arresti. Ma grazie a loro, ho capito me stessa ed ho riscoperto la gioia di essere donna in un periodo in cui tendevo a ribellarmi al ruolo che la società ci aveva assegnato”. “Quelle foto scattate ai travestiti non le ho mai vendute ai giornali. Regalai, piuttosto, a ciascuna di loro quelle in cui compariva. Fra tutte ricordo in particolare la Morena che molti anni dopo quella mia esperienza umana e di lavoro volle rivedermi poco prima di morire”. Quella full immersion nel mondo dei travestiti genovesi diventa così un libro straordinario, scrigno di materiale fotografico di modernissima concezione. “Lisetta – spiega Giovanna Calvenzi – non si è mai resa conto di quanto abbia istintivamente precorso i tempi percorrendo strade che dopo di lei altri autori avrebbero battuto solo ad anni di distanza e con crescente successo. Insomma una vera antesignana. Fatto ancora più straordinario se si pensa che lei non ha mai rincorso ‘la bella immagine’ né ha mai considerato un’immagine riuscita come un feticcio da porre sotto una campana di vetro. Lo si vede da come maneggia le sue foto, con molta nonchalance, considerandole nient’altro che uno strumento per raccontare delle storie, e che una volta adempiuta la loro funzione lasciano il posto a nuove esperienze”.
Nonostante il grande successo di critica quel libro sui travestiti fu boicottato dalle librerie che si limitavano a tenerlo sotto il banco senza alcuna convinzione, il che penalizzò le vendite lasciando in deposito molte copie. “Un mio amico – racconta Lisetta – ne aveva fatto stampare mille copie, rimaste nei depositi dei librai per anni. Quando un giorno si prospettò la necessità di mandarle al macero la mia amica Barbara Alberti le prese tutte, riempì casa sua – c’erano libri dappertutto, anche sotto il tavolo e sotto il letto – e un po’ alla volta le distribuì in omaggio ovunque”. Dopo più di dieci anni da quell’esperienza, arriva per Lisetta un successo più pieno e comincia così a girare per il mondo. Contemporaneamente, realizza un lavoro fotografico su Ezra Pound, anch’esso destinato a far parlare di sé ovunque e a farle vincere il famoso Premio Niépce. Il grande poeta statunitense aveva attraversato travagliatissime vicende personali, fra cui una lunga detenzione in manicomio criminale, e si trovava nel 1966 a Sant’ Ambrogio di Rapallo: “mi fu chiesto di accompagnare in paese il direttore dell’Ansa che voleva fotografassi il poeta. Bussammo più volte ma non rispondeva nessuno. A un certo punto vediamo arrivare un uomo che accudiva la casetta di Pound, il quale si prodigò per darci una mano chiamandolo più volte nella speranza che uscisse. Nulla. Ad un tratto sentimmo un leggero cigolio e sulla porta apparve un uomo alto, quasi scheletrico, dai folti capelli bianchi arruffati, in pigiama e veste da camera. Fu un lampo. Cominciai a scattare a ripetizione mentre lui ci guardava e taceva. In quattro munuti realizzai venti scatti. A un certo punto ebbe anche una dura espressione di disappunto. Tentammo di farlo parlare ma fu impossibile, il silenzio si era impossessato di lui ormai da anni. Rimasi come folgorata da quella figura, da quel volto sul quale leggevo tutto il suo travaglio ma anche la complessità del suo universo interiore. Il direttore dell’Ansa disse invece di aver scorto nient’altro che un povero vecchio. Dovette ricredersi quando vide i miei scatti sviluppati e finì col darmi ragione. Di quei venti scatti ne scelsi 11 che inviai al premio Niépce e Umberto Eco che faceva parte della giuria disse: ‘questi scatti dicono di Ezra Pund più di tutti gli articoli che sono stati scritti su di lui’ “. E in effetti il silenzio di Pound, insieme al dolore e al senso di una fine ormai imminente, prorompono con forza immane da quelle immagini ormai celebri.
Ma il servizio su Pound sarebbe stato solo uno dei tanti capaci di mostrare la grandezza di un’artista che ha posto l’incontro con gli altri al centro della sua vita e del suo lavoro. Ciò è testimoniato ad esempio anche dal reportage sui portuali di Genova, i cosiddetti ‘camalli’. “Ebbi la fortuna che un mio amico mi introducesse al mondo dei portuali. A farmi da guida vi era uno dei lavoratori con cui mi recavo al porto tutte le mattine. Qualcuno, incuriosito da questa inconsueta presenza femminile, chiese chi io fossi; il mio accompagnatore mi fece passare per una sua cugina curiosa di conoscere il lavoro che si svolgeva nel porto. Scoprii un mondo fatto di gente che lavorava in condizioni disumane, senza alcuna misura di sicurezza. Dalle fotografie che riuscii a scattare fu ricavata una mostra che ebbe una grande eco, con Genova tappezzata di manifesti raffiguranti un portuale reso irriconoscibile dalle polveri chimiche fra cui lavorava”.
Il racconto di Lisetta prosegue quindi fra aneddoti di vario tipo – affascinante il racconto su un parto fotografato all’ospedale di Genova nel tentativo di cogliere il momento più intenso della vita di due esseri umani, madre e figlio – facendoci infine approdare alla sua “terza vita”, quella contrassegnata dall’incontro con il guru indiano Babaji che sarebbe presto diventato il centro della sua esistenza. A offrire l’occasione di questo incontro fu il suo girovagare per il mondo, attività a cui, come si accennava prima, Lisetta si dedicò dopo il consolidarsi del proprio successo in Italia. “Poiché mi è sempre interessato lavorare per gli altri, cercare di dare voce a chi non ce l’ ha, ossia ai più umili della terra, ho fatto servizi in America Latina, sono stata in Venezuela, Messico e Colombia e non dimenticherò mai certi volti”. Molto importante fu anche il viaggio che “a piedi e in corriera” fece con un suo amico in Afganisthan “un luogo completamente diverso da quello devastato dalla guerra che conosciamo oggi. Per me è una vera sofferenza pensare a come sia ridotto un paese che a quel tempo esprimeva fascino e bellezza, dalla città al deserto, un luogo dove le persone vivevano di artigianato come quello dei magnifici gioielli, delle stoffe e dei tappeti. Un mondo che ormai non c’è più.” Da queste esperienze all’estero, ancora una volta- come vediamo sullo schermo dell’Aula Magna barese – Lisetta ricavò immagini che non indugiano su alcun esercizio di stile, mostrando il contatto diretto con la gente e con le sua molteplici realtà.
Ma ecco che il suo temperamento incline a quel cambiamento che arricchisce, la induce a rinunciare anche alla fotografia: nel 1976 va in India e conosce appunto il guru Babaji sulla cui indicazione crea un centro spirituale a Cisternino, ossia un ashram nella provincia pugliese brindisina, dove si trasferisce. Così la Puglia riappare sull’orizzonte della sua vita segnandone la tappa forse definitiva. La sua non è però una scelta di vita isolata come forse qualcuno potrebbe immaginare, Lisetta infatti – nonostante la sua veneranda età – ama ancora confondersi fra la gente e non è difficile trovarla nella piazzetta vicino casa sua intenta a osservare i passanti, chiacchierando con qualcuno di loro o magari immaginando come li avrebbe fotografati se ancora esercitasse la sua arte. La vita in Puglia ha però avuto una sua parentesi – quella che lei chiama “la quarta vita” – ossia l’incontro con Paolo Ferrari e la “musica dell’assenza”. Ferrari fu scienziato, umanista, artista e musicista, medico psicologo, studioso delle attività nervose superiori, in particolare dell’ “asistema in-assenza”. Lisetta ne condivise per alcuni anni l’esperienza di ricerca artistica ed umana, come la fotografa racconta nel libro presentato a Bari.
Ma eccoci arrivati alla sua “quinta vita”, quella che Lisetta sta vivendo in questo momento e che con un sorriso sornione definisce “della libertà”. “In questo momento, libera ormai da ogni impegno, posso dedicarmi a tante cose che amo, come lo studio dell’arte cinese, che mi ha sempre affascinato – ho imparato infatti a dipingere gli ideogrammi ispirandomi ai grandi maestri di quest’arte – o a tante altre cose che si addicono alla mia età, per quanto a volte io senta ancora l’energia di una donna di cinquant’anni”. Poi, mentre sullo schermo scorrono immagini di bambini afgani, parla del suo modo di concepire l’educazione: “I bambini, esseri meravigliosi, non vanno “educati” secondo il senso che comunemente si dà a questo verbo, quanto piuttosto va dato loro l’esempio. Bisogna essere dei modelli per i propri figli, i quali imparano solo ciò che vedono realmente fare agli adulti, e se l’adulto compie delle scelte di vita sbagliate è facile che finisca col condizionare negativamente il proprio figlio.” Torna quindi ancora una volta sulla fotografia e sul suo modo di concepire l’approccio a quest’arte: “Qualcuno ritiene che una fotografia debba nascere prima di tutto nella testa, ma io posso dirvi che in tanti anni che ho fatto foto non ho mai “pensato” un’immagine. Certamente avevo delle idee, ma sono sempre arrivata nei luoghi, mi sono guardata intorno, ed ho fotografato quello che c’era! Ho sempre cercato di fotografare l’anima delle persone e non solo il loro viso. Ho sempre cercato di fare in modo che una foto dicesse tutto quello che c’era da dire senza dover aggiungere altro.”
Finisce così il mio racconto dell’incontro di ieri con questa donna straordinaria, vissuto senza prendere appunti e rievocato affidandomi a ciò che la mia mente ha trattenuto delle sue parole. Un incontro emozionante che mi ha reso convinto una volta di più che questo nostro tempo ha perso tutto perchè non ci sono più “maestri” veri, ossia quelle figure che riescono a insegnarti che la verità della vita è molto più semplice di tanti discorsi e di tanto vacuo filosofeggiare. Di tali maestri Lisetta, a 89 anni, è uno degli ultimi sopravvissuti. Il pubblico sarebbe rimasto incantato a sentirla parlare per ore senza annoiarsi…E’ stato infine straordinario vedere come quella sottile forza di attrazione che si chiama carisma – nel suo caso fatta di semplicità e umiltà – sia riuscito, al termine della conferenza, a catalizzare verso di lei gran parte dei numerosi presenti, desiderosi di stringerle la mano come si fa con un amico che si conosce da sempre.
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LISETTA PROTAGONISTA DI UN FILM DI DANIELE SEGRE
Lisetta Carmi è stata protagonista del film-documentario di Daniele Segre* “Lisetta Carmi, un’anima in cammino” presentato in anteprima alle Giornate degli Autori-Venice Days 2010 a Venezia.
* Daniele Segre è docente di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia – Scuola Nazionale di Cinema di Roma (“Cinema e realtà”) e all’Università di Pisa (“Regia cinematografica”)
QUI DI SEGUITO IL TRAILER DEL FILM DI SEGRE:
QUI UNA BREVE INTERVISTA AL REGISTA:
INFO DANIELE SEGRE