di Redazione FdS
Vasi, statuette, teste votive, altari, elementi decorativi di templi: sono solo alcune delle forme che fra le antiche civiltà del Mediterraneo ha assunto la terracotta, materia umile ma estremamente malleabile; qualità che le ha consentito di essere plasmata nei modi più diversi, dando vita ad oggetti d’uso comune, puramente decorativi o legati al culto, spesso prodotti in serie, così come a meravigliosi capolavori, soprendenti nella loro unicità. A quest’ultima categoria possono ascriversi due piccoli ma straordinari altari (arulae) provenienti dall’antica città magno-greca di Medma, subcolonia tirrenica della più celebre polis di Locri, in Calabria. Proseguendo nella nostra rassegna di ”meraviglie” del Sud Italia finite nelle sale dei musei esteri, li abbiamo localizzati nel celebre Getty Museum di Malibu, in California, dove negli anni sono approdati in modi spesso molto discussi numerosi reperti provenienti dall’Italia. Al Getty Museum i due altari vanno ad arricchire una notevole collezione di opere in terracotta, alla quale lo stesso museo ha dedicato un ampio volume intitolato “Ancient terracottas. From South Italy and Sicily in the J. Paul Getty Museum” curato dalla studiosa siciliana Maria Lucia Ferruzza. Parliamo di una collezione che vanta tra i suoi pezzi migliori lo straordinario Orfeo con Sirene di Taranto, gruppo scultoreo in terracotta del IV secolo a.C. del quale ci siamo già occupati, anch’esso sospettato di essere di provenienza illecita e già rivendicato senza esito dallo Stato italiano circa 20 anni fa.
La coppia di altari, come si ricava dalla splendida figurazione da leggersi in modo unitario, rimanda al mito della morte di Adone, dio della vegetazione, e ai rituali celebrati in suo onore. Osservando l’altare di destra vediamo Adone – i lunghi capelli ricci trattenuti da una fascia e le gambe avvolte in un himation – che, apparentemente accasciato, si sorregge alla sua amante Afrodite, dea dell’amore, dando vita a una scena di ierogamia (nozze divine). Nato da un incestuoso amore tra il re assiro Teia e sua figlia Mirra, da bambino colpì Afrodite con la sua grande bellezza a tal punto da indurre la dea a rapirlo nascondendolo in una cista che affidò a Persefone, regina dell’Ade. Quando quest’ultima aprì la cista, si innamorò a sua volta del piccolo Adone e decise di non restituirlo. Ne nacque una lite, sedata da Zeus ordinando che Adone trascorresse un terzo dell’anno con Afrodite, un terzo con Persefone e l’ultimo terzo ovunque gli piacesse: il giovane scelse di dedicare anche quel tempo ad Afrodite, ma presto sarebbe morto, ucciso da un cinghiale aizzatogli contro dal gelosissimo Ares. Tra le figure dell’altare di destra, gli studiosi ipotizzano che Persefone possa essere la donna seduta in basso su una cista con espressione malinconica. Un’altra donna, seguace del dio ed elemento di connessione visiva tra i due altari, assiste invece in piedi alla scena toccandosi la testa in un gesto di dolore. Sull’altare di sinistra si vedono infine tre donne accorrere in processione, portando strumenti musicali – un timpano e uno xilofono – tipici della musica orgiastica legata ai riti del dio. Di esse colpisce in particolare l’espressione rapita e la forma del corpo che traspare dal peplo in un gioco di fluide pieghe.
Il tutto – fa notare Maria Lucia Ferruzza – è reso con notevole effetto pittorico grazie alla scelta del coroplasta di suggerire una profondità di campo attraverso le figure disposte su diversi piani, e in parte anche mediante l’uso del paesaggio roccioso. La resa formale mostra gusto per il movimento e il chiaroscuro, accentuato dai drappeggi svolazzanti e dalle acconciature delle figure, che conferiscono grande dinamismo alla composizione complessiva. Caratteristiche stilistiche che rimandano a un contesto attico della fine del V secolo a.C. reinterpretato con originalità in ambiente magno-greco e siciliano.
Si ritiene che questo genere di altari fosse utilizzato per il culto privato, forse per bruciare profumi e incensi. I due reperti esposti al Getty, ricomposti quasi integralmente riassemblandone i frammenti, mostrano ancora tracce di bruciature sulle superfici superiori, così come si conservano tracce del pigmento (rosso, marrone rossastro e verde) utilizzato per decorare le figure in rilievo. Le caratteristiche stilistiche delle figure e dei loro panneggi, nonché il tipo di argilla utilizzata, hanno portato gli studiosi a ritenerli realizzati a Medma, l’odierna Rosarno, in Calabria. Ritenuti un importante documento sul culto di Adone in Magna Grecia, le due arulae si presentano di forma rettangolare, con le pareti leggermente rastremate, composte da cinque lastre di terracotta assemblate attraverso un legante liquido di argilla e acqua applicato prima della cottura. Su tutti e quattro i lati, in alto e in basso, presentano una modanatura decorata con motivo a uovo e dardo. All’interno sono cave con un tramezzo di rinforzo, mentre piccoli pezzi di argilla, aggiunti dal coroplasta, servirono a rinforzare i punti di sutura. Sulla maggior parte della superficie sono visibili striature riconducibili a uno strumento servito per lisciarla, così come all’interno si trovano segni di pressatura e lavorazione con le mani, tra cui alcune impronte digitali. I rilievi delle due scene correlate, presenti sul lato principale di ciascuno, sono realizzati a stampo, con interventi manuali del coroplasta su capelli e panneggio delle figure. Da segni rilevati sulla superficie si è dedotto che alcune grappe metalliche tenessero insieme i due altari, destinati così a formare una composizione unitaria non solo iconograficamente ma anche strutturalmente.
Questa tipologia di altari, dicono gli studiosi, non era particolarmente diffuso, ma è attestato in Magna Grecia e in Sicilia, come dimostrano oggetti analoghi ritrovati a Gela, Himera, e nella stessa Medma dove contesti funerari hanno restituito esemplari della fine del V sec. a.C. con scene tratte da tragedie attiche. Nel caso di questi altari, il soggetto riprende il tema del culto di Adone attestato nel Vicino Oriente, in particolare a Byblos, da dove approdò in Grecia già nel periodo arcaico, probabilmente attraverso le colonie fenicie e l’isola di Cipro, importanti crocevia culturali nei rapporti tra il Vicino Oriente e il mondo greco. Dalla Grecia il culto si è poi diffuso in tutto l’Occidente, soprattutto in Etruria, sensibile ai modelli orientali, e in Magna Grecia, luoghi nei quali il mito e le feste correlate subirono modifiche sostanziali nel contesto delle istituzioni politiche e religiose esistenti. Le sue prime testimonianze nel Sud Italia possono farsi risalire agli inizi del V sec. a.C. in una serie di pinakes (tavolette votive) ritrovate a Locri (dove nel IV secolo a.C. il culto di Adone soppiantò quello pubblico di Afrodite) e a Francavilla di Sicilia, così come, più diffusamente, in vasi apuli della fine del V secolo e degli inizi IV secolo a.C. Di questo culto persiste oggi traccia nei cosiddetti ”sepolcri” pasquali, gli effimeri germogli di grano che adornano il feretro del Cristo morto, riedizione cristiana dei piccoli ”giardini” pagani (kepoi) di erbe aromatiche di breve durata poste sui tetti delle case, in modo che con il caldo dell’estate potessero fiorire e poi appassire rapidamente, alludendo alla morte di Adone e alla brevità della vita stessa.
Non ci risulta, almeno finora, che i due altari di Medma siano mai stati oggetto di rivendicazioni ufficiali da parte dell’Italia, eppure, se si va a verificare sul sito del museo, si nota che i due oggetti non sembrano aver avuto alle spalle una storia collezionistica che ne giustificasse la presenza sul mercato prima del loro approdo al Getty, e inoltre leggendo alla voce “Provenance” (provenienza) si scopre che a vendere nel 1986 i due reperti al Getty è stata una società londinese facente capo a un antiquario, considerato il più grande mercante al mondo di reperti archeologici, e a un suo socio in affari poi scomparso prematuramente; dopo il fallimento della loro società la giustizia inglese scoprì che ai due erano riconducibili numerosi negozi e depositi, a Londra, New York e in Svizzera, con antichità valutate milioni di sterline. Un’attività fiorente che ha visto il titolare superstite più volte al centro di indagini sul traffico illegale internazionale di reperti archeologici. Stando alle cronache giornalistiche, dopo la morte del socio, l’antiquario avrebbe distrutto il suo archivio, ma a quanto pare la polizia sarebbe riuscita comunque a trovare e a sequestrare un ricco portfolio fotografico, con molti dei pezzi che i due avevano venduto tramite la loro galleria di Londra. E chissà che tra quelle foto non ci sia qualcosa di interessante, utile per futuri inequivocabili raffronti.
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