Subiamo il fascino dei luoghi abbandonati perché rappresentano simbolicamente un tempo puro, l’astrazione del tempo, svincolato dalla storia, spiega Marc Augé*. È lì che si percepisce intuitivamente come la propria insignificante individualità possa trascendere dal singolo alla specie, legata dalla comunità di destino. Così i luoghi dell’anima si contrapporrebbero antiteticamente ai non-luoghi, secondo la celebre definizione che l’antropologo francese attribuisce agli spazi artificiali, del presente e del futuro, dove la vita transita e fluisce senza personalità.
Raggiungere e visitare Campomaggiore Vecchio (Potenza) richiedono tempi lenti. In estate, le rovine fanno da scenario alla “Città dell’Utopia”, uno spettacolo che suggestivamente ne racconta la storia. All’ingresso dell’area recintata, alcune sculture in pietra, opere di artisti contemporanei, rappresentano il trait d’union con l’attuale comune di Campomaggiore, da cui parte l’itinerario del Parco della Scultura.
Non so con quanto orgoglio si possa dire la Basilicata ricca di centri scomparsi o abbandonati, come Craco, Alianello o Borgo Taccone. La regione ha offerto e continua a offrire spazi di riflessione antropologica e di ispirazione artistica, che non risarciscono certo i danni e i dolori della piaga del decremento demografico. La popolarità e l’interesse che tali luoghi misteriosi e solitari destano come attrazione turistica e per la loro fruizione di location non possono certo che gratificare. Il cineturismo è un fenomeno consolidato in Basilicata e in considerevole ascesa: basti pensare al tutto esaurito di Matera durante i ponti di primavera, all’insegna della fortunata fiction di Rai1 “Sorelle”, che ha impegnato le guide turistiche nel soddisfare le richieste dei visitatori curiosi di fotografare la “casa di Elena” o l’impervia “rupe dei desideri” nel Parco della Murgia materana, che hanno di gran lunga surclassato le visite ai set di “The Passion” o “Ben Hur”.
Mentre la popolazione del mondo s’accresce in misura esponenziale, tra le rovine di Campomaggiore il pensiero corre alle proiezioni statistiche che qui prefigurano uno scenario demografico allarmante. La trama del tessuto insediativo italiano, fitta di paesi, villaggi e campagne abitate, dirada sempre più le sue maglie. In Basilicata i fili e i nodi si fanno sempre più sottili. Secondo i dati CRESME, la stima dei residenti nei prossimi 20-25 anni sarà di appena 450.000 persone. Non pochi validi progetti suggeriscono idee e pratiche per contenere o, nell’ipotesi più felice, invertirne la tendenza.
La parabola di Campomaggiore, in un momento in cui probabilmente si verificarono condizioni analoghe, ha inizio nel 1741. Un feudatario illuminato ne è l’artefice, il conte Teodoro Rendina. Sarà ricordato come colui che avviò la fondazione di un paese in cui fosse messa al bando la miseria. Le condizioni del feudo ereditato dovevano essere molto precarie: si rese necessario un intervento pioneristicamente filantropico, che le fonti locali hanno associato, addirittura anticipandole, alle idee del socialismo utopistico di Robert Owen, Charles Fourier e Pierre-Joseph Proudhon, facendo della nascente comunità, un microcosmo agro-pastorale ideale per viverci. Nei secoli XVIII-XIX era possibile sostentarsi con i due tomoli di terra concessi dal feudatario riformatore, a uliveto, frutteto o vigneto, e 25 mq di suolo per la casa. Un esempio di incentivo residenziale ante litteram volto al ripopolamento di un’area interna.
A riprova della cura riposta nell’assolvere all’impegno di incrementare il feudo di Campomaggiore, il Conte Rendina affida il progetto urbanistico-architettonico a Giovanni Patturelli, valentissimo architetto della Real Casa, discendente dall’omonima famiglia di architetti collaboratori di Luigi Vanvitelli. L’insediamento, destinato all’origine a un’ottantina di coloni, viene pianificato razionalmente, in una valle circondata da alture d’argilla a 400 m slm, ben riparata dai venti. A presidio dell’insediamento, distante circa 3 km, sorgeva il Casino della Contessa, una residenza secondaria del feudatario, ora Bene culturale protetto. L’organizzazione dello spazio risponde al criterio di equità con la pianta ortogonale del paese, dotato di una piazza centrale, che, a partire dal nome, ossia Piazza dei Voti, evoca il votum tanto come dichiarazione di una scelta politica egualitaria, quanto come espressione di un desiderio, una preghiera, un’aspirazione. È lo spazio collettivo, infatti, dove si fronteggiano la Chiesa diruta dedicata alla Madonna del Carmelo e il Palazzo del feudatario, insieme ad altri edifici pubblici e privati costruiti in pietra locale.
Lo sguardo si interroga su quelle rovine. Sono segni residuali di vita, lavoro, lotta, emozioni. Vorremmo ascoltare lo scampanìo dal campanile, il viavai di uomini e animali, i giochi dei bambini, le compravendite in un dialetto così singolare rispetto a quello dei comuni confinanti di Albano, Castelmezzano, Pietrapertosa e Accettura, i cui suoni e significanti lucani si sono fusi con quelli di una comunità trasferita da Bitonto.
Non sapremo mai, come avverte Marc Augé, cosa rappresentavano quei luoghi per chi li viveva prima che diventassero rovine. E non si tratta solo di un interesse “estetico” mosso dal senso dell’assenza che i ruderi comunicano, quanto di una consapevolezza dell’enigma del tempo.
Nel 1885 una frana decretò la fine del borgo. E quei segni sono la cicatrice di un trauma. Degli oltre 1500 abitanti una parte va a cercare fortuna in America, l’altra fa risorgere il nuovo paese a quota diversa (800 m), ma con gli stessi criteri nell’impianto urbano.
Campomaggiore è un monumento alla disillusione, all’ideale infranto, in questo senso all’utopia, e come tale deve restare, in quanto l’uomo è biologicamente e ontologicamente proiettato all’insoddisfazione, al cambiamento dei valori, all’abbandono.
Parto da Campomaggiore Vecchio con la consapevolezza che il paese sia fratello maggiore, insieme ai centri scomparsi tra tardoantico e età moderna censiti da Tommaso Pedio**, di un’altra piccola “città dell’utopia”, Borgo Taccone, su cui verte il mio interesse, e di altre comunità di villaggio sorte durante la Riforma Fondiaria.
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NOTE:
*Marc Augé, Rovine e macerie. Il senso del tempo, Torino, 2004, rist. 2015
**Tommaso Pedio, Centri scomparsi in Basilicata, Venosa 1990