Dalla Calabria un altro straordinario racconto di coraggio e di caparbietà, di quelli che hanno avuto il potere di cambiare il corso della storia. Un racconto che ancora una volta parla di persone che, per difendere la propria libertà, si oppongono ad un contesto molto difficile, fatto di pregiudizi, di obbedienza cieca a regole prestabilite e di rassegnazione. Una Calabria che, con le dovute differenze, somiglia parecchio a quella odierna. Ad imprimere una traccia indelebile nel fluire degli eventi storici, questa volta è una donna e il suo nome è Cecilia Faragò. Per raccontare la sua storia, occorre fare un grande salto a ritroso nel tempo, fino al lontano Settecento. I luoghi di riferimento sono Zagarise, il paese in provincia di Catanzaro dove Cecilia nacque e Simeri Crichi, la località dello stesso comprensorio dove la donna visse da sposata.
Un destino difficile le strappò via marito e figlio e poi l’accusa di stregoneria la gettò in un vortice di violenza ed ingiustizie dal quale riuscì, in qualche modo, ad uscire vincitrice, visto che fu la protagonista dell’ultimo processo per stregoneria del Regno delle due Sicilie.
Fu il giovanissimo avvocato catanzarese Giuseppe Raffaelli a credere nell’innocenza della donna e a farla assolvere, annullando tutte le prove fittizie presentate dall’accusa. È dalla memoria difensiva scritta in sua difesa che si è appresa la storia di Cecilia Faragò e il processo fece tanto scalpore da persuadere re Ferdinando IV ad abolire il reato di Maleficium nel suo regno.
Una storia di riscatto che mette in luce la difficile condizione in cui le donne erano costrette a vivere, condannate ad un destino di sottomissione e di obbedienza assoluta alle regole di un sistema che le poneva in una posizione di netta inferiorità rispetto all’uomo. Cecilia viveva nell’epoca dell’Inquisizione, quando chiunque intralciasse la chiesa nel mantenimento del proprio potere o nel perseguimento di nuovi possedimenti, veniva eliminato. Trattandosi di una donna, per di più “libera”, senza status e incline a sfidare il potere e i canoni sociali, non fu affatto difficile accusarla di essere una strega e farla incarcerare incolpandola anche di omicidio.
La storia di Cecilia ha ispirato scrittori e registi (le riprese di un film su questa vicenda si sono concluse appena qualche mese fa), ma l’antropologa, attrice e performer catanzarese Emanuela Bianchi ha dato vita a questo personaggio in modo estremamente originale, mediante il monologo teatrale “Lamagara” scritto da lei e da Emilio Suraci. Un lavoro tanto straordinario da aggiudicarsi il Premio della Critica “Gaiaitalia.com” al Fringe Festival di Roma.
Nel corso del monologo, l’attrice svela al pubblico l’animo del personaggio, una donna dai sentimenti puri, che rimasta senza affetti, vuole continuare ad occuparsi della sua fattoria, nel ricordo di ciò che era la sua vita passata. Durante questo racconto, gli spettatori sono portati a conoscere anche i lati “oscuri” di questo personaggio, ovvero l’uso di erbe curative, quelle pratiche, quei rituali ancestrali e poco consueti che la gente accettava solo nella misura in cui, di nascosto, poteva trarne beneficio, ma che poi non esitava a demonizzare.
Tutte le emozioni, la sofferenza, le paure di una donna privata di tutto ciò che le era rimasto solo perché “donna”, vengono portate in scena da una magnifica Emanuela Bianchi, che sembra fare suo il personaggio, rendendolo l’emblema non solo della condizione della donna, ma del diverso in generale, di colui che ha il coraggio di pensare ed agire diversamente rispetto al contesto in cui vive. Lo spettacolo è reso ancora più suggestivo ed unico dall’introduzione dell’uso scenico degli elastici, un momento performativo che contribuisce ad esternare meglio lo stato di disagio e sofferenza interiore del personaggio.
Dal palco, lo spettacolo riesce a trasmettere, senza mai annoiare, un profondo messaggio di riflessione su ciò che, di mostruoso, il pregiudizio verso le donne e la fame di potere e di ricchezza della Chiesa ha potuto generare in passato: milioni di donne furono torturate ed uccise in nome di accuse insensate.
Il monologo teatrale di Emanuela Bianchi ha aperto il Festival “Innesti Contemporanei”, che si è svolto dal 30 luglio al primo agosto nell’affascinante cornice del Castello Normanno di Squillace. Tre giornate di spettacoli e workshop per rivitalizzare e valorizzare una location mozzafiato, custode di una storia millenaria, quella di un territorio tutto da scoprire, terra di eroi di ieri e di oggi.
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