“La luna nova ‘ncopp’a lu mare
stenne na fascia d’argiento fino.
Dint’a la varca lu marenaro
quase s’addorme cu ‘a rezza ‘nzino…”
da Luna Nova, di Salvatore Di Giacomo e Mario Costa, 1887
di Redazione FdS
La canzone napoletana – quella classica, densa di sentimento e, non di rado, di autentico spessore poetico – è come la luna. Nella sua storia ormai ultracentenaria ha vissuto varie fasi: da quella crescente a inizi ‘800, all’indiscussa e piena affermazione durata oltre un secolo fino alla prima metà del Novecento, seguita da un interesse rimasto vivo fino al 1971, negli anni in cui fu in auge il Festival della Canzone Napoletana, un palcoscenico la cui importanza ha attratto anche numerosi cantanti italiani non partenopei. Ma proprio come la luna, la canzone napoletana non muore mai: nata su un terreno musicale già fertilissimo, è entrata in modo progressivo nel repertorio concertistico dei più celebri cantanti d’opera, non solo italiani, a riprova del rilievo da essa assunto quale vertice d’eccellenza della nostra canzone e simbolo, insieme all’opera lirica, dell’Italia musicale nel mondo. Ed è soprattutto grazie ai cantanti d’opera – basti citare nomi come Enrico Caruso, Beniamino Gigli, Giuseppe Di Stefano, Franco Corelli, Placido Domingo, José Carreras – se la canzone napoletana, coi suoi testi struggenti e le sue melodie raffinate, ha varcato gli oceani diventando nota ai quattro angoli del globo. Non è dunque un caso se continuano ancor oggi a non mancare interessanti progetti musicali intorno a questo ”classico” della nostra musica e della nostra cultura, ma pochi possono ascriversi ad artisti in grado di restituirne con forza lo stile e, ancor più, la fibra emozionale. Il tenore Francesco Pellegrino, campano da anni residente a Toronto, si colloca senza dubbio tra questi, disponendo, oltre che delle qualità vocali, del vantaggio di aver frequentato la canzone napoletana fin dalla prima adolescenza; un interesse rimasto vivo anche dopo il diploma di canto al Conservatorio di Benevento, il perfezionamento col celebre Carlo Bergonzi – che, apprezzatene le qualità, lo volle come allievo all’Accademia di Busseto e all’Accademia Chigiana di Siena -, e una pluriennale esperienza nel Coro del Teatro alla Scala di Milano.
È recente la pubblicazione del suo nuovo album, Luna Nova, col quale l’artista delinea un interessante itinerario nella canzone classica napoletana, muovendo da un brano di malinconica dolcezza che riporta ad una delle sue matrici più antiche, il teatro napoletano d’opera del Settecento, celebrato in tutta Europa. Si tratta di So le sorbe e le nespole amare, dall’opera Lo cecato fauzo del grande compositore calabrese Leonardo Vinci (1696-1730) tra i massimi rappresentanti della rinomata Scuola musicale napoletana. L’itinerario si snoda gradevolissimo tra le 14 tracce dell’album che include classici assoluti come Napulitanata (1884), Era de Maggio (1885) e Serenata napulitana (1896), tutti scritti dal poeta napoletano Salvatore Di Giacomo e dal musicista tarantino Mario Costa. Degli stessi autori anche il pezzo che dà il titolo alla raccolta, Luna Nova (1887), baciato da un successo tale da diventare – così raccontano le cronache – la canzone preferita dell’allora papa Leone XIII, che non perdeva occasione per farla eseguire al pianoforte dal cardinale tedesco von Hohenlohe. Dello stesso anno è anche la bellissima Scétate, sempre di Costa ma questa volta col testo del poeta Ferdinando Russo. Più tarda (1918), ma anch’essa tra le celebri, è la poetica Rundinella, di Rocco Galdieri e Gaetano Spagnolo.
Valore aggiunto di questo album è la particolare selezione dei brani, avendo Pellegrino scelto di proporre anche una serie di canzoni meno note al grande pubblico contemporaneo, alcune delle quali cronologicamente a noi più vicine, riferibili cioè alla fase più tarda della canzone napoletana, ma non meno belle dei grandi classici. Al 1918 risale la poco eseguita Presentimento, del pur celebre e prolifico paroliere e musicista E. A. Mario (sue le famosissime Tammurriata nera e Santa Lucia luntana); del 1923 è invece una vivacissima Tarantella sotto ‘e rrose, di P. Vento e F. Albano; tre brevissimi frammenti tratti da Bellu sciore, di Rendine e Bonagura, del 1950, sono un espresso omaggio a Giulia Sacco, tra le popolari interpreti dell’ultima stagione della canzone napoletana; al 1966 risale infine la romantica e malinconica Rose d’o mese ‘e maggio, scritta dal duo Ippolito e Mazzocco. Insomma, questo album è una full immersion nell’anima musicale di Napoli, città simbolicamente evocata dall’azzurro ed onirico paesaggio marino di Christophe Mourey che ne illustra la copertina.
I pezzi sono interpretati da Francesco Pellegrino su arrangiamenti per chitarra curati dagli stessi musicisti – Giulio Vetrone, Marco Cappelli, Enzo Sirletti, Antonio Grande, Tommaso Sollazzo, Isidoro Nugnes – che via via lo accompagnano in questo affascinante viaggio nella canzone napoletana ripercorso in una chiave fortemente intimistica. Unica eccezione il contrabbasso di Roberto Occhipinti (suo anche l’arrangiamento) che, raffinato, spicca in un’inconsueta rilettura jazz di Napulitanata.
Oltre al recentissimo Luna Nova la discografia di Francesco Pellegrino include Puccini’s Magnificat (2003), Serenata Napulitana (2004), Devozione (2009), e le incisioni In the Shadow of the Volcano (2010), La meglio giuventù (2014) e Christmas in Southern Italy (2019) realizzate con il trio Vesuvius Ensemble. Costituito a Toronto insieme ai musicisti Marco Cera – oboista e chitarrista italiano che vanta collaborazioni con alcune delle principali orchestre barocche europee – e Lucas Harris – liutista americano che ha esordito come chitarrista jazz approdando alla musica antica dopo gli studi in Italia e in Germania – il gruppo, di cui Francesco Pellegrino è art director, sta portando avanti da alcuni anni un progetto di preservazione e trasmissione dell’eredità culturale e musicale del Sud Italia, raccogliendo numerosi apprezzamenti da parte della critica. Oltre ad attingere dal vasto repertorio classico della Scuola Napoletana – dal periodo rinascimentale a quello barocco – esso segue infatti le tracce di musiche e canti popolari che si tramandano da generazioni e che importanti studiosi come Diego Carpitella, Alan Lomax e Roberto De Simone hanno documentato nel corso del Novecento.
Sebbene il nome Vesuvius rimandi alla tradizione musicale partenopea, e più in generale campana, sulla quale si incentra il suo repertorio principale, l’ensemble esegue anche musiche di altri luoghi di quello che fu l’antico Regno di Napoli, come la Puglia, la Basilicata, la Calabria e la Sicilia. Una delle peculiarità del Vesuvius Ensemble è il rigore filologico nella scelta degli strumenti, coerenti con la tradizione e col territorio di riferimento dei brani eseguiti. L’ensemble fa infatti uso, tra l’altro, di due chitarre battenti, un colascione, una ciaramella e diverse tammorre, tutti costruiti da artigiani italiani.
La formazione classica di tutti e tre i membri ha favorito la collaborazione del gruppo con diversi ensemble di musica antica, tra cui The Toronto Consort e la Tafelmusik Baroque Orchestra, compagine canadese considerata una delle orchestre barocche più importanti del mondo. Da quest’ultima partnership è nato il concerto-spettacolo Bella Napoli, che ha celebrato all’estero la musica tradizionale e quella classica del sud Italia – col loro ricco ventaglio di inflessioni, come quella spagnola e moresca, testimonianze di un dialogo storico con altre culture – riportando un grande successo di pubblico e critica che ha consacrato il ruolo del Vesuvius Ensemble quale ambasciatore della tradizione musicale italiana nel mondo.
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