di Kasia Burney Gargiulo
Candide o, a volte, d’un tenue color avorio, le sculture del mondo antico si ergono, spavalde o defilate, nelle sale e nei corridoi dello straordinario Museo Archeologico di Napoli. E non riesci a immaginarle che così, algide o sensuali, ma pur sempre nel loro rigoroso pallore, ignaro di quanto viceversa quello della statuaria antica fosse un universo in ”technicolor”. Giallo, rosso, oro, porpora, e numerosi altri colori sgargianti, fiammanti, brillavano in realtà sulle loro superfici, da cui l’azione del tempo li ha erosi così come spesso fa con la memoria degli uomini. E se provassimo a ricostruirli, quei colori? Così, giusto per sfatare l’immagine di un minimalismo cromatico in verità mai esistito nell’arte classica, come del resto affreschi e mosaici pompeiani abbondantemente ci dimostrano. E’ quanto ha pensato di fare il Museo Archeologico nazionale di Napoli che sarà il primo in Italia a realizzare un database sulla policromia antica rivolto sia agli studiosi che al pubblico. Il progetto “MANN in Colours” lavorerà infatti sulle tracce cromatiche, a volte impercettibili per l’occhio umano, presenti sulle sculture e punterà a un recupero visivo che non potrà non rivoluzionare la percezione estetica a cui queste opere ci hanno abituati da secoli. L’iniziativa è in linea col crescente interesse verso l’antica policromia che gli studiosi di vari Paesi vanno manifestando negli ultimi anni.
Le prime statue ad essere sottoposte all’operazione saranno quelle della celebre collezione Farnese, custodita nel museo di Napoli. A cominciare dall’Atlante, sono ben cento le opere individuate allo scopo, fra cui la Venere in bikini e la Venus Marina da Pompei, così come il Thiasos dionisiaco da Ercolano. Per la Venere in bikini, marmo del I sec.d.C. custodito nel famoso Gabinetto Segreto riservato alle opere antiche a soggetto erotico, il lavoro di ricostruzione virtuale della originaria policromia sarà agevolato dall’ottima conservazione della doratura i cui tratti delineano il succinto costume della dea. La statuetta alta 62 cm. raffigura Afrodite nel gesto di slacciarsi il sandalo del piede sinistro, sotto cui è accovacciato un piccolo Eros che, con la destra, sembra sorreggere la calzatura. E mentre la sua veste giace ripiegata su un tronco d’albero, la dea è appoggiata con il braccio sinistro ad un Priapo stante, nudo e barbato, posto su un piccolo altare cilindrico. Essa indossa solo un corsetto-gioiello dorato retto da due coppie di bretelle con corte maniche sulla parte superiore del braccio. Legata al corsetto, una catenella lunga fino ai fianchi si incrocia all’altezza dell’ombelico dove forma un motivo a stella. Dorato è il suo inguine, così come la sua collana a pendenti, l’armilla al polso destro, e anche il fallo di Priapo. Ma presto scopriremo anche il colore rosso le cui tracce persistono vaghe sul tronco d’albero, sulla capigliatura a chignon e sulle labbra della dea, oltre che sul capo del Priapo e dell’Eros.
Il progetto la cui cura è affidata all’archeologa Cristiana Barandoni, è stato presentato agli inizi di giugno da Paolo Giulierini, direttore del museo napoletano. In programma, a partire da luglio, una prima fase della durata di tre anni nel corso della quale, grazie alla collaborazione scientifica con la National Taiwan Normal University di Taipei, saranno impiegate nuove tecnologie e software digitali mai usati prima nel nostro Paese. Al di là delle sue valenze scientifiche, il progetta punta anche ad un coinvolgimento emotivo del visitatore attraverso la sollecitazione sensoriale: infatti in tutte le fasi della ricerca, una Expert Room aperta al pubblico consentirà di osservare da vicino le attività degli studiosi impegnati nella ricerca e ricostruzione delle antiche cromie che verranno rese fruibili con tecnologie di Realtà Virtuale e Realtà Aumentata e altri metodi di interazione, come ha spiegato Len Wang Yung-Luan, esperto dell’ateneo di Taipei. In parallelo, gli utenti della Rete potranno conoscere e apprezzare i risultati della ricerca attraverso un apposito sito web dedicato al progetto, con videocast e podcast delle sue fasi principali.
“Dopo la mostra dedicata lo scorso anno a Winckelmann – spiega Giulierini – uno dei teorizzatori del ‘candore’ delle statue classiche, interprete di una scuola di pensiero tenacemente impermeabile all’idea del colore, il Mann prosegue lungo la strada della ricerca concentrandosi appunto sulla policromia, che rende molto più vicini i capolavori antichi alla tradizione della statuaria lignea sovradipinta di età medievale e rinascimentale presente nelle nostre chiese. Lo straordinario effetto dei pigmenti mira ad una volontà di realismo e ci porta a riflettere su quanto parziali e decontestualizzate possano essere le esposizioni museali”.
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