di Redazione FdS
“Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”, diceva Socrate, alludendo alla ricerca esistenziale forse più difficile da compiere, quella su noi stessi, come ben sapevano gli antichi sapienti greci. «Conosci te stesso» era non a caso la massima incisa sul tempio di Apollo a Delfi, un motto che per secoli avrebbe influenzato i più importanti pensatori della cultura occidentale. La consapevolezza di ciò che sostianzalmente siamo, avendo ben chiari i nostri limiti, e anche di ciò che in realtà non siamo, è l’imprescindibile seme da cui germoglia ogni possibilità di crescita e di evoluzione personale. Rimuovere le ombre – come quella della luna che al termine dell’eclissi solare scorre via tornando a svelare il luminoso astro – è dunque l’atto primario da compiere per evitare che quelle stesse ombre si ingigantiscano man mano che aumentano le difficoltà dell’esistenza. Un processo di autopercezione non facile, perché spesso frenato da pregiudizi e sovrastrutture pronti a ostacolarci nell’acquisizione della parte più autentica di noi, al punto che essa, rimpiazzata da un alter ego fittizio, finisce talora paradossalmente con l’apparirci un’entità a noi del tutto estranea. Ma un aiuto in questa ricerca di noi stessi può venirci dagli altri, dallo sguardo di chi si accosta a noi con delicatezza e con reale intento conoscitivo. E’ questa una riflessione che abbiamo ritrovato nell’ultima opera dell’eclettico artista calabrese Angelo Ventimiglia, che di recente ha presentato a Bari – in occazione della terza edizione del festival “Lo Spettacolo dell’Arte” – l’installazione intitolata METAFORE – NODI, ispirata ad alcuni versi del giornalista e scrittore Gianluca Doronzo incentrati sui temi dell’essere, dell’apparire e del rischio di diventare oscure metafore di se stessi, con tuttavia la possibilità che gli “altri” – se attenti e sensibili – possano consentirci di ritrovarci nel loro sguardo, che diventa per noi una sorta di ideale specchio della verità.
Ogni individuo, nella sua complessità, è dunque “un nodo da sciogliere” la cui soluzione passa attraverso l’acquisizione della piena consapevolezza di sè. Non par dunque casuale che l’installazione di Ventimiglia sia formata da un tubo flessibile in alluminio, verniciato in un vitalissimo colore rosso e modellato in foggia di nodo, con all’interno un’immagine discoidale che incarna in modo plastico la vera essenza di sè; tale immagine coincide in prima battuta con ciò in cui l’artista si identifica con assoluta chiarezza, ossia la propria matrice culturale magnogreca col suo portato di valori filosofici simbolicamente sintetizzato dal profilo di Atena – dea della conoscenza e della saggezza – scolpito a rilievo su lastra di alluminio. Ma l’obiettivo dell’opera non è quello di mostrarci la consapevole identità dell’artista, quanto quello di rivolgersi all’osservatore invitandolo ad affrontare il proprio processo di autoconoscenza.
E proprio a simboleggiare quanto lo sguardo dell’ “altro” possa contribuire a rivelarci a noi stessi, ecco collocati al suolo tre specchi circolari nei quali – proprio come nella sequenza di un’eclissi – l’ombra progressivamente scompare rivelando ciò che copriva, ed è così che il “nodo” iniziale si “scioglie” in quell’immagine di Atena riflessa nello specchio, che da simbolo mitico dell’artista e della sua poetica post-classicista si fa metafora universale dell’anima umana che prende coscienza della sua vera essenza grazie al rapporto con gli “altri”, pronti a porgerle lo “specchio” rivelatore. Man mano infatti che l’osservatore si accosterà all’opera di Ventimiglia per contemplarla nei dettagli finirà col ritrovare il proprio volto riflesso nell’ultimo specchio, chiudendo simbolicamente il cerchio della sua ricerca.
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