Intervista a cura di Enzo Garofalo (> leggi l’articolo correlato)
Maestro Calascibetta, da palermitano autentico, certo lei conosce l’evoluzione urbanistica e socio-economica della sua città ed avrà forse individuato nelle sue riflessioni, comprese quelle che ispirano la sua arte, le ragioni per cui una città come Palermo possa ancora ospitare delle sacche di degrado così consistenti. E’ solo una questione di fortuito mancato sviluppo economico, o ritiene ci sia dietro dell’altro?
Quando il sindaco Elda Pucci bloccò gli appalti che solitamente venivano concessi agli amici degli amici, gli operai dei cantieri sfilarono per le strade di Palermo con striscioni con su scritto: “la mafia ci dà pane la Pucci ci affama”. Erano gli anni ottanta, risiedevo già a Milano e stavo ostinatamente lavorando alla mia “Piazza della Vergogna” (quando sei lontano spesso certi luoghi ti vengono a cercare e a piantarsi nel cuore facendolo gonfiare, gonfiare finchè il tuo cervello non produce l’antidoto), e titolai l’opera Piazza della Vergogna numero 1, 2, 3 … ,il numero è ancora infinito, no? Inserii, non era assolutamente previsto, il volto del sindaco Elda Pucci volutamente riconoscibilissimo tra la folla dei miei personaggi come a guardia di quei luoghi che amavo. In seguito il sistema degli appalti cambiò: si concessero alle imprese del nord…(!) con garanzia che i subappalti si dessero a chi doveva averli. Oggi viviamo lo stesso dramma di sempre, impotenti di fronte alla sterilità di una città governata sempre da squali che ci costringono a vivere “dalle fogne sino al cielo stellato”.
Molti palermitani, soprattutto quelli che si trovano nella necessità di barcamenarsi in contesti difficili come il quartiere della Vucciria, sentendosi reclusi in casa propria, ingabbiati fra spaccio e consumo di droga, cumuli di spazzatura, scippi e taglieggi, denunciano ogni giorno la loro esasperazione. In alcune di queste denunce c’è chi segnala alcuni luoghi della città – e la Vucciria è fra questi – come aree in cui vigono leggi diverse da quelle comuni, alludendo chiaramente a forme di capillare controllo mafioso del territorio. Lei cosa si sente di dire in proposito?
La Sicilia è attraversata da un parallelo di un passo più basso di quello di Tunisi e finisce per partecipare clamorosamente, climaticamente, delle suggestioni africane. Orgoglioso, il siciliano, dotato di un senso atavico della sua “nazione”, povero, periferico, non pienamente consapevole della propria storia e cultura – privo, intendo, di quella consapevolezza da cui nasce l’autocritica che favorisce il distacco dalla contingente situazione sociologica in cui si trova e stimola il desiderio del cambiamento – finisce per considerare la sua terra una tana ritenendo di dover fare i conti col Nord e la cultura dei ricchi, e “la tana – diceva Gesualdo Bufalino – è per tutti ambivalente, è insieme carcere e trono”. Questo vedere se stessi all’interno di una tana è infatti un atteggiamento pericoloso perchè può portare a comportamenti molto irregolari o, per meglio dire, ad autodettarsi delle regole che quasi mai sono quelle giuste. Vedo la Vucciria come metafora della Sicilia. Ebbene si.
A proposito di “irregolarità”, vorrei soffermarmi meglio sul controllo mafioso del territorio: ci dice qual è stata la sua personale esperienza, avendo lei avuto un suo spazio artistico proprio nel quartiere della Vucciria? Ci spieghi anche come il quartiere è cambiato dal suo arrivo fino ad oggi…
Il mio soggiorno alla Vucciria dopo avere firmato il contratto d’affitto cominciò col bacio del padrone di casa ostentato nella piazza, e con questa sua frase: “mi scusi se la bacio, ma se siamo amici, il rispetto che devono a me lo devono anche a lei e cosi è tranquillo”. E si, fui tranquillo, ma capii anche le leggi che governano la Vucciria-tana! La prima volta che mi venne a trovare per riscuotere l’affitto, mi aggredì sornione e sorridente con quest’altra frase “Ah…ma a lei ci piace proprio dipingere tra i malavitosi…” La mia porta, le mie finestre erano accessibilissime, ma sentivo di vivere dentro una cassaforte protetta. La mia esperienza alla Vucciria è durata tre anni ed stata una delle più affascinanti della mia vita. La casa era solo di trenta metri quadri ma con altri trenta di terrazzo che si affacciava direttamente sulla piazza-teatro, dove vivevamo sempre anche in inverno e dove non siamo mai stati soli. Vecchi amici ritrovati di Palermo e nuovi venivano a trovarci: lo scrittore Vincenzo Consolo incontrato ad una mia mostra a Milano, il regista Wim Wenders (nella foto con l’artista) interessato alla Vucciria e alla voce di mia moglie mentre girava il film Palermo Shoting, il fotografo Giovanni Chiaramonte che ha storicizzato il nostro soggiorno fotografando ogni angolo della nostra piccola casa-atelier e del nostro terrazzo. Stavamo vivendo una avventura straordinaria. Una mia amica scesa da Milano guardando la piazza dal terrazzo, tra fumi di stigliole arrosto mi disse: “Momò mancano solo le vacche ed è India”.
Lo “spettacolo” era continuo, tutto il giorno e la notte: bambini nudi rincorsi dalle madri intorno alla fontana perchè non volevano andare all’asilo…bloccati dagli uomini che là si trovavano e dall’urlo sempre più minaccioso di una madre: “arrivano i turchi, i turchi…” per farli intimorire. Trionfavano le abbanniatine degli ultimi pescivendoli rimasti, dell’abusivo con le verdure di campagna, le grida di “sciarre” tra i picciotti che là trafficavano…Quanti sacchetti di baccalà lasciati scorrere da una mano all’altra con tacito assenso e consenso di tutta la piazza! Più volte siamo restati svegli, dal tramonto all’alba, ad osservare la trasformazione dello spazio teatrale , da soli e insieme ad amici. La trasformazione della piazza, ora in mercato, ora in agorà (gli universitari la popolavano ogni notte dalle 11.00 alle 03.30 del mattino), ora in teatro ( si improvvisavano assordanti spettacoli musicali sempre diversi) e poi a partire dalle 05:00 del mattino la ricostruzione di quel poco che restava ancora del vecchio mercato tra cassette di frutta e cineserie e poi le siringate d’acqua fresca di mare ai grandi pesci scongelati per la vendita che avrebbero attratto come sirene i compratori…
Ora non abito più là, ho lasciato questo luogo tre anni fa per sperimentare nuove avventure e magici silenzi; mi alterno con Milano rifugiandomi in un luogo antico e pieno di suggestioni vicino alle saline di Marsala. Non ho però mai capito per quale motivo tutta questa massa di giovani si ostina ancora a passare la notte in Vucciria; non si può più dire che sia un posto caratteristico, il fascino di ciò che fu il mercato ormai è al tramonto, distrutto anche da speculatori immobiliari tra crolli e abbandoni. Ormai è frequentato da un covo di delinquenti, che vendono alcolici adulterati e altro tra la puzza di merda e piscio che comincia dal corso Vittorio Emanuele, da figli di papà, studenti, gente comune che si mescola in questa cloaca a cielo aperto, gli stessi che poi lamentano il degrado della città. Ormai le pietre della Vucciria si sono asciugate da tempo compresa anche la lingua barocca dei suoi abitanti, allenata al cuntu dei pescivendoli che cantavano la bontà della bella tunnina. Vorrei concludere con le parole della mia amica Nuccia Cesare dicendo che: “una città può essere visitata, desiderata, ammirata, sognata, persino detestata; Palermo in più può essere mangiata”. Il sapore non ne guadagna ma l’occhio sì; l’appeal ne gode ma il sapore è AMARUME.
Provando a guardare al futuro, secondo quali prospettive riesce ad immaginare la sua città…? Pensa ci siano margini di intervento costruttivo anche in aree difficili come la Vucciria?
Il “virus” del contrasto a Palermo è così minuscolo, silenzioso e tenace che riuscirà alla fine ad essere micidiale. Allora forse vivremo un nuovo umanesimo-rinascimento. Per me la tecnologia del cambiamento è stata la creatività: ANANKE-necessità di creare=essere artista. “Tutta l’espressione di quel volto è di ragione e d’ironia: equilibrio difficile e precario. Anelito e chimera in quell’isola mia, in Sicilia dov’è stata da sempre una caduta dopo l’altra, dove il sorriso dell’Ignoto si scompone e diviene sarcasmo, pianto, urlo…” Così scriveva Vincenzo Consolo nel libro Il sorriso dell’ignoto marinaio. Nell’isola mia, in Sicilia, il sorriso dell’ignoto di oggi si scompone e diviene ignavia, limbo, capriccio, ferocia, grasso untuoso che veicola liquami. Allora, se il sole dell’isola nei secoli si è fatto ancora più forte producendo ombre assassine, resta ai forti marinai sostare nella luce accecante e attendere vigili. Sono sicuro che qualcuno ancora crede che questa città possa diventare più moderna e civile mantenendo il suo fascino e la sua cultura. Lavoriamo tutti affinchè ciò accada!
Articolo bellissimo, io ero uno di quegli universitari a spasso che si andavano ad ubriacare di sangue di giuda in quel cacaio di piazza. Spero che l’ennesimo terremoto faccia pulizia di quel cancro urbano e di tutti i ratti a due e a quattro zampe che la infestano!