“O Signora a cui sono diletti Golgi, Idalio e l’eccelsa Èrice,
o tu che ami scherzare fra l’oro, Afrodite (…)
Signora dai molti templi, Arsinoe, di Berenice la figlia (…),
offre doni d’ogni sorta ad Adone, per esserti cara.
Frutti maturi (…) e i cibi che le donne preparano sul tagliere,
mescolando fiori di ogni genere con la bianca farina,
e quelli che si fanno con dolce miele e nel liquido olio,
tutto è qui, in forma di uccelli e di animali…”
Teocrito, da Idillio XV
di Redazione FdS
Sono queste le parole rivolte alla dea Afrodite dalla soave ”cantatrice” che compare nel XV° Idillio del poeta siceliota Teocrito, celebre inventore della poesia bucolica nato a Siracusa nel IV secolo a.C. ma vissuto anche in Grecia e ad Alessandria d’Egitto. In quei “cibi che le donne preparano”, “si fanno con dolce miele” ed hanno “forma d’uccelli e d’animali”, offerti alla festa di Adone che fa da sfondo all’idillio“Le Siracusane”, diversi studiosi hanno ravvisato la più antica notizia dei mostaccioli (mastazzoli, nel dialetto locale), ossia quei dolci a base di farina e miele d’api o di fichi – e talvolta anche mosto cotto d’uva -, modellati in forme zoomorfe, antropomorfe, fitomorfe o più astrattamente simboliche, che ancor oggi incarnano uno dei più marcati tratti identitari di Soriano Calabro, borgo di poco più di duemila anime a valle delle Serre Calabresi, in provincia di Vibo Valentia. I mostaccioli sono inseriti da anni nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) della Calabria.
Ad asserire la tesi di una remota origine dei mostaccioli, da sempre utilizzati nelle principali ricorrenze festive, sono anche due linguisti, il tedesco Gerhard Rohlfs e il calabrese Giovanni Battista Marzano che, nel definirli “dolci casarecci fatti con farina e miele o mosto cotto”, ricollegano il loro nome al termine latino mustaceus o mustaceum che identificava un tipo di dolci a base di farina e mosto menzionati nel De Agri Cultura di Catone e nel De re coquinaria di Apicio.
Altrettanto fa, sul versante greco, Ateneo di Naucrati che nella sua opera I Deipnosofisti, rifacendosi al Libro del Panettiere di Crisippo di Tiana, usa l’espressione μουστακια εξ οινομελιτο, traducibile come ”mostaccioli al vino mielato”. Se è evidente – nota l’antropologo Martino Battaglia – che queste fonti ci riportano all’origine remota del nome ”mostacciolo”, oggi peraltro riferibile a diversi dolci del Sud Italia, non identificano però in modo chiaro la tipologia di Soriano, le cui caratteristiche e la cui funzione sono invece ben rappresentate nei versi di Teocrito.
LA TRADIZIONE “UFFICIALE”
A livello locale la tradizione, di chiaro influsso cattolico, li vorrebbe invece introdotti 500 anni fa dai frati del locale Convento dei Padri Domenicani, edificio legato alle origini stesse dell’attuale borgo. Eretto nel 1510, fu distrutto da un terremoto nel 1659; ricostruito in forme monumentali dal frate e architetto bolognese Bonaventura Presti, divenne uno dei più ricchi e famosi conventi domenicani d’Europa, per poi finire nuovamente raso al suolo dal sisma del 1783 e infine ricostruito, più modestamente, solo all’inizio dell’Ottocento, in un’area dell’antico edificio. Ebbene, un fantomatico “monaco” – termine che per antonomasia ha poi finito per identificare i mastazzolari più abili ed esperti – proveniente dalla vicina Certosa di Serra San Bruno, avrebbe passato la ricetta ai frati del posto, poi trapelata tra i sorianesi, molti dei quali cominciarono a tramandarsela di padre in figlio senza mai svelarne del tutto i segreti.
Si tratta – fa notare l’antropologo Martino Battaglia – di una leggenda che, per quanto diffusa a livello popolare, rivela la sua fragilità nel momento in cui non spiega come mai a Serra San Bruno, ipotetico luogo d’origine, questo dolce non sia stato mai visto (se non come prodotto di importazione) né sia mai stato oggetto di menzioni storiche, mentre sia tipico e caratteristico di Soriano. Ci troveremmo dunque di fronte a un ennesimo episodio di sovrapposizione di una ”narrazione” cristiana a una ”matrice” d’epoca pagana. Se un ruolo hanno avuto i domenicani, è probabile sia stato quello di contribuire a far assumere alla produzione di questi dolci la dimensione artigianale che ancor oggi li caratterizza, incidendo sull’economia di un paese un tempo molto vivace nei commerci se è vero, come tramanda padre Antonino Lembo, che nel XVII secolo vi erano negozi d’ogni genere di mercanzia, tra i più importanti del Regno di Napoli; una prosperità molto probabilmente favorita dal culto locale della Santa Immagine acheropita di san Domenico, misteriosamente apparsa 490 anni fa, con grande risalto nel mondo cristiano.
FORME E RITI ANCESTRALI
Ma veniamo agli aspetti che rendono particolari i mostaccioli di Soriano Calabro, collegandoli in modo affascinante con la tradizione votiva dell’antica Magna Grecia, sia quella alimentare evocata da Teocrito sia quella fatta di oggetti in terracotta offerti nei templi agli dei pagani; è il caso dei meravigliosi Pinakes, quadretti votivi a bassorilievo ritrovati in gran numero a Locri, nei cui particolari è difficile non scorgere sorprendenti analogie con gli amabili dolci di Soriano. Nelle sapienti mani dei mastazzolari, l’impasto di farina di grano tenero e miele – composto di una parte di acqua e tre di miele (solitamente da fiori di castagno e di arancio), amalgamati con la farina senza aggiunta di lievito – assume le forme, belle e gioiose, di pesce (pisci), capra (crapa), agnello, torello, cavallo, uccello, gallo, paniere greco (panaru), cavaliere (cavarcanti), palma (parma arricciata), fanciulla (dama), uomo, bambola (papa), cuore (con o senza scritte d’amore), e un simbolo a forma di S (esse), evocazione stilizzata – secondo alcuni studiosi – dell’agatodemone, il serpente protettivo degli antichi greci. Decorati con frammenti colorati (rossi, verdi e argento) di carta stagnola, i mostaccioli vengono cotti nel forno a legna assumendo alla fine un colore brunito che li fa sembrare di terracotta.
È un “giacimento variegato di figure – scrive Battaglia -, attraverso cui è possibile notare precise esperienze culturali, sociali e religiose”. A quell’originaria matrice magno-greca, si sono infatti intrecciati nei secoli numerosi altri elementi tra cui quelli giudaico-cristiani, bizantini e barocchi, mantenendo un ruolo di primo piano in momenti centrali della vita sociale come ad esempio il matrimonio, per la cui promessa era previsto che l’uomo portasse come dono-pegno alla donna, un fazzoletto di seta con su esposti quattro mostaccioli: un cuore, una “papa” (bambola), un pesce e una “esse”. Enigmatiche nella loro apparente semplicità, le forme dei mostaccioli rimandano alla vita del cosmo e alle pratiche agrarie, ai principi della fecondità, dell’abbondanza, della salute e dell’amore, da propiziarsi nella vita quotidiana.
Tali simbologie ci rimandano a quello che è l’elemento più interessante dei mostaccioli dal punto di vista culturale, e cioè il loro utilizzo non solo alimentare, ma anche votivo, di omaggio alla divinità (e, in epoca cristiana, anche ai Santi), a scopo propiziatorio oppure di ringraziamento. Anzi, i due aspetti vanno letti in combinazione, dovendosi ravvisare nella consumazione del dono votivo l’espressione dell’atto sacrificale, sebbene non manchino casi di mostaccioli che, posti a contatto con il simulacro del santo e venduti all’incanto, vengono conservati integri dall’acquirente con funzione protettiva per la casa e la famiglia. Ecco allora aggiungersi altre forme al campionario dei mostaccioli, come i ritratti di madonne e santi (San Francesco da Paola, San Rocco di Montpellier, Sant’Antonio da Padova), che spopolano nelle varie feste patronali della Calabria, venduti dall’artigiano sorianese esponendoli nella sua tradizionale cassa di legno (cascia), e quelli che ritraggono parti anatomiche di cui si fa omaggio nei santuari per chiedere una guarigione o per ringraziare dopo averla ottenuta, secondo un uso che rispecchia in pieno quello degli ex voto anatomici (mani, piedi, braccia, organi genitali) ritrovati nei depositi dei templi della Magna Grecia. Talvolta i mostaccioli votivi vengono espressamente realizzati su commissione, soprattutto quando viene richiesta una dimensione fuori scala (se ne realizzano anche di 10 kg).
Prima ancora che nell’atto della loro offerta, l’aura di sacralità che circonda questi dolci la ritroviamo già nella gestualità magico-rituale che accompagna (almeno nella prassi tradizionale) i momenti della loro realizzazione: prima di procedere all’impasto e alla modellazione, che in origine avveniva su un piano di legno di noce (‘a tavula), poi sostituito dal marmo e dall’acciaio, il mastazzolaro si segna. Nel caso di ingresso di un estraneo in laboratorio durante la lavorazione dell’impasto, per evitare negatività, usa esclamare “Dio benedica!” (Dio lo benedica!) oppure un più superstizioso “fora malocchiu!” per respingere sguardi malevoli. Si procede quindi a unire la farina col miele, che funge da dolcificante e ammorbidisce la pasta, la quale non deve risultare né troppo molle né dura altrimenti mette a rischio la riuscita dei mostaccioli. Finita la lavorazione dell’impasto, nella quale fondamentale è l’azione dei dorsi delle mani e dei pollici (oggi sostituiti dall’impastatrice), si mette la pasta a riposare (dimurari) per una notte in una madia (majlla), allo scopo di rendere la pasta docile (umili) alle mani del modellatore; viceversa, se la pasta dovesse risultare non manipolabile (s’arrizza), bisognerà correggere l’impasto aggiungendo altri ingredienti, per poi rimetterlo a riposo. La modellazione dei mostaccioli avviene a mano, senza stampi, con gesto sapiente e veloce, e con l’unico supporto di una lama sottile (ferruzza), per incidere i particolari delle figure, e di una spatola (stecca).
ORIGINI MITICHE DI UNA PRATICA DEVOZIONALE
Come scrive la studiosa Marilena De Bonis, l’uso di modellare la pasta in sembianze antropomorfe o zoomorfe può farsi risale all’esempio di Ercole, che secondo il mito sostituì alle vittime umane destinate in sacrificio a Plutone e a Saturno, delle figure di cera o di legno. Un modello che trova riscontro, oltre che nei mostaccioli di Soriano, nei pani devozionali antropomorfi, come i Pupi di Pisticci, la Pupazza frascatana, o esemplari analoghi che ritroviamo in diversi paesi europei ed extraeuropei. Nel caso di questi pani e di questi dolci, modellati per “significare” una determinata festa, il valore di forma e la funzione di segno travalicano quella stessa di alimento e quindi di bene di sussistenza. Sono dunque sacrifici incruenti, offerte che – scrive Battaglia – si crede siano gradite alla divinità e dotate di virtù curative, “così come il pane intrecciato ricorda le offerte di chiome fatte agli dèi, in sostituzione del sacrificio umano” o, allo stesso modo, “il pane a forma di animali evitava di sacrificare le bestie e veniva consumato dopo l’oblazione”. Il mostacciolo – conclude l’antropologo – “è quindi sostanzialmente un’immagine arcaica che postula il suo sacrificio”, messo in atto attraverso la consumazione alimentare.
UNA FAMA INTERNAZIONALE
Il valore culturale e gastromico dei mostaccioli di Soriano Calabro oggi fa sì che essi siano considerati come un patrimonio da difendere, un’eredità che nel corso dell’ultimo mezzo secolo è approdata, in rappresentanza della terra e delle tradizioni di Calabria, in contesti internazionali di rilievo come la “Mostra-mercato dell’artigianato internazionale” di Pittsburgh (USA) nel 1969, il “Museo nazionale delle Arti e delle tradizioni popolari” di Roma nel 1987 e, più recentemente, il Musèe National des Civilisation de l’Europe et de la Mediterranèe di Marsiglia e l’Expo di Milano nel 2015.
Se volete provare a realizzarli in casa, vi proponiamo la ricetta della famiglia De Nardo che realizza mostaccioli a Soriano fin dal 1700. Come ingredienti prevede: 500 grammi di farina 00; 500 grammi di miele (in alternativa è tradizionale anche combinare una parte di acqua e tre di miele da sciogliere a bagnomaria); 1 bicchierino di liquore all’anice o di mosto cotto; 1 cucchiaio di strutto per ungere la teglia. Preparazione: unire gli ingredienti in un composto ben amalgamato e compatto, lasciando poi riposare la pasta per un’intera notte. Il giorno dopo aggiungere all’occorrenza dell’altra farina per migliorare la consistenza della pasta e stenderne uno strato di un centimetro e mezzo su un tavolo di legno o di marmo, quindi dare la forma desiderata con le mani unte d’olio e l’aiuto di un coltello e infine decorare con pezzetti di carta stagnola colorata inumiditi con acqua. Ungere una teglia con lo strutto e disporvi i mostaccioli, che si faranno cuocere in forno preriscaldato a 180° per 20-30 minuti, aspettando che raggiungano il caratteristico colore dorato.
Bibliografia:Marco Gavio Apicio, De Re Coquinaria. L’Arte della Cucina (a cura di Clotilde Vesco), Scipioni Editore, Roma, 1990, pp. 174
Ateneo di Naucrati, I Deipnosofisti. I dotti a Banchetto, prima traduzione italiana commentata su progetto di Luciano Canfora, 4 Voll., Salerno Editore, Roma, 2001
Martino M. Battaglia, I Mostaccioli di Soriano Calabro: storia, miti e leggende, in Humanities, Anno IV, n.8, 2015, pp. 95-120
Marco Porcio Catone, L’Agricoltura (De Agri Cultura), versione italiana a cura di Luca Canali e Emanuele Lelli, Milano, A. Mondadori, 2000
Ottavio Cavalcanti, Le bambole che si mangiano, in “La ricerca folklorica. Contributi allo studio della cultura delle classi popolari. La cultura della bambola”, a cura di Silvestrini E. – Simoni E., Grafo Edizioni, Brescia, 1987, n. 16. p. 124
Marilena De Bonis, Il paniere delle offerte, origini e forme del mostacciolo, Le Nuvole, Litograf, Cosenza, 1999, pp. 110
Francesco Faeta, Le figure inquiete. Tre saggi sull’immaginario folklorico, Franco Angeli, Milano, 1989, pp.
Luigi M. Lombardi Satriani, La teatralizzazione della speranza, in Ex voto tra storia e antropologia a cura di Emilia De Simoni, De Luca, Roma, 1986, pp. 158
Stefano Rapisarda, Carmelo Spadaro, Pasquale Musso, Il “Ricettario di cucina di San Martino delle Scale” (Palermo, Biblioteca Comunale, 3QQB151), in Bollettino – Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani n. 21, Palermo 2007, pp. 245-321
Teocrito, Idilli e epigrammi, a cura di B. M. Palumbo Stracca, Rizzoli, Milano, 2013, pp. 496
Tucidide, Le Storie, a cura di A. Donini, 2 voll., UTET, Torino, 2000, pp. 1408
Domenico Zappone, Calabria nostra, Edizioni Bietti, Milano, 1969