Era un locale in una zona malfamata napoletana, vicino al porto, però frequentato dai personaggi piu noti dell’epoca. Quattro uomini aggredirono a pugni e a calci il celebre pittore tornato a Napoli agli inizi del Seicento quando realizzò tre dipinti nella chiesa di Sant’Anna de’ Lombardi che andarono distrutti nel terremoto del 1805. Un taglio al volto e una misteriosa vendetta. L’ultimo quadro napoletano del Merisi fu “Il martirio di Sant’Orsola” dipinto nella primavera del 1610.
di Mariano Marmo
Alla fine del 1609 Caravaggio tornò di nuovo a Napoli. La notizia non tardò a diffondersi, seguita subito da offerte e commissioni. Bellori ci riferisce che egli dipinse “La Risurrezione” in Sant’Anna de’ Lombardi. Purtroppo l’opera fu distrutta dal terremoto del 1805 assieme ad altri due quadri: un “San Francesco in meditazione” e un “San Francesco che riceve le stimmate”. A giudicare dai documenti e dalle testimonianze oculari, “La Risurrezione” era un vero capolavoro dalle implicazioni emotive di Caravaggio, di grande impatto. Il committente era Alfonso Fenaroli che, nel dicembre 1607, aveva gia ottenuto i diritti sulla terza cappella a sinistra. Caravaggio deve aver cominciato a lavorarci intorno ai primi giorni del settembre 1609 per terminarla verso la fine del mese successivo.
Centocinquant’anni dopo il viaggiatore e connoisseur francese Charles Nicolas Cochin ne sarà entusiasta. Eppure la pala dipinta da Michelangelo doveva apparirgli annerita dal tempo e dal fumo delle candele votive. L’identità del suo creatore era stata ormai dimenticata. Cio nonostante Cochin descrivera, nel suo diario, quest’opera con grande ammirazione: «Nella terza cappella, a sinistra, si vede un quadro raffigurante la Risurrezione di Gesu Cristo. E’ un’immaginazione singolare; il Cristo non è nell’aria e passa camminando attraverso le guardie del santo sepolcro, il che dà una impressione bassa e lo fa somigliare ad un colpevole che scappa ai suoi guardiani. Inoltre ha il carattere di un uomo magro e che ha sofferto. La composizione, dal punto di vista puramente pittorico, è molto bella, e la maniera è ferma e sentita con gusto. E’ molto annerito. S’ignora il nome dell’autore. Questo pezzo è bello». Cochin non sapeva che quella che ammirava era una tela di Caravaggio. Non ne conosceva il drammatico peregrinare da una città all’altra, eppure ne intuì l’inquietudine. Michelangelo aveva ancora una volta dipinto i propri ricordi e i propri tormenti, finendo per ritrarre – anche in questo caso – se stesso nel Cristo che aveva assunto l’atteggiamento di “un colpevole che scappa ai suoi guardiani”.
IMMAGINI (v. Note a fondo pagina)
Una notte fonda, Michelangelo era in via Sedile del Porto nella Taverna del Cerriglio, la locanda piu celebre della città, nascosta nel reticolo tortuoso e maleodorante dei vicoli di quella zona del porto. La taverna era nota sia per la bonta della sua cucina e del suo vino – pari solo alla vivacità dei suoi avventori – sia per il gran numero di scrittori e artisti seduti ai suoi tavoli. E proprio le numerose e autorevoli testimonianze letterarie, che si moltiplicano nel corso dei secoli, fanno comprendere l’importanza del locale; un elenco da Nobel o giù di li: Giovan Battista Della Porta, Giambattista Basile, Giulio Cesare Cortese, Sgruttendio, Giovan Battista del Tufo, Carlo Celano, Emmanuele Bidera, Vincenzo D’Auria, Benedetto Croce.
Un luogo malfamato e pericoloso dunque? Molto probabilmente non più del resto della città e in particolare di quella zona, a pochi passi dal Porto. Di sicuro, però, le taverne napoletane erano considerate – al pari di molte altre in Europa – ad alto rischio, in particolare per l’usanza di farne un rifugio per balordi e criminali. Quella notte, si bevve e si rise. Quattro uomini, si intrufolarono in silenzio nei locali. Michelangelo forse era ebbro di vino. Cercò di fuggire facendosi strada tra tavoli e lanterne a petrolio, fu preso a pugni e a calci, sbattuto contro i muri umidi di muffa.
Forse rimpianse la spada con cui andava in giro a Roma, da ragazzo. Cadde a terra sanguinante e stordito dai colpi. Si sforzò di gridare. Nel buio, sotto i tavolacci, tramestii di scodelle, qualche movimento felpato, forse topi: ce n’erano a centinaia in quelle strade luride, famelici e aggressivi, come quell’umanità disperata che viveva ammassata nella selva dei tuguri, nei sordidi bassi aperti sulle strade.
Caravaggio sopravvisse all’aggressione ma “nel viso cosi fattamente ferito, che per li colpi quasi non piu si riconosceva”. Chi erano gli aggressori? Parenti della famiglia di Ranuccio Tomassoni? I cavalieri del vendicativo Alof de Wignacourt? Le ipotesi formulate nel corso degli anni da numerosi autori appaiono senza fondamento, sia in termini di logica che di cronologia.
Erano trascorsi ormai tre anni dall’assassinio di Ranuccio Tomassoni e se i familiari avessero voluto organizzare un agguato, non lo avrebbero attuato nella lontana città di Napoli. L’ipotesi che la vendetta fosse stata ordita dai Cavalieri di Malta è altrettanto illogica. Con la sua fuga da Malta, Caravaggio non aveva personalmente offeso il Gran Maestro Alof de Wignacourt, nè attentato alla sua reputazione. Il carattere delle ferite subite dal Caravaggio era quello di un taglio al volto. Nel linguaggio della vendetta lo “sfregio” era una punizione per un insulto all’onore e alla reputazione. Vi e infatti un codice nella malavita di stampo camorristico per il quale esisterebbe una sorta di analogia fra l’oltraggio arrecato e la punizione da infliggere: “affronto” è un termine che congiunge etimologicamente l’insulto all’idea di un metaforico “perdere la faccia” (“affronto” deriva da “fronte”). Nella sua vendetta, il nemico del pittore aveva preso quindi, alla lettera, l’insulto e gli aveva sfregiato la fronte. Forse, l’episodio nella taverna del Cerriglio potrebbe essere banalmente legato a uno “sgarro” a qualche malavitoso che, platealmente, aveva punito il rissoso pittore. Il Gran Maestro di Malta non avrebbe mai approvato che ciò avvenisse in un locale di cattiva fama.
Tutto ciò rimane un mistero, che influirà anche sulla conclusione di questa breve storia. Molti hanno notizia che il Merisi sia morto: “Si ha avviso da Napoli che fosse ammazzato Caravaggio, celebre dipintore, altri lo dicono sfregiato”. Dopo l’agguato Michelangelo, forse controllato dalla polizia spagnola, lavorava intensamente, terminando diversi capolavori trai quali “La negazione di San Pietro” (1610) il “San Giovanni Battista” (1610) e “David con la testa di Golia” (1609-10). Quest’ultima opera sembra essere una sorta di testamento pittorico in chiave psicoanalitica.
L’ultimo quadro dipinto a Napoli, nella primavera del 1610, prima di partire, è “Il martirio di Sant’Orsola” (1610), eseguito per quel principe Marcantonio Doria, che lo aveva ospitato a Genova dopo l’aggressione di Caravaggio al notaio Pasqualone. Il dipinto concludeva quel conto in sospeso che l’artista aveva con il Doria per non avergli affrescato il casino di Sampierdarena come il principe desiderava. Il soggetto raffigurato nel quadro venne suggerito dallo stesso Marcantonio Doria in ossequio alla figliastra Anna, nata dalle prime nozze di sua moglie, Isabella della Tolfa, con il defunto Agostino Grimaldi, principe di Salerno, divenuta poi Suor Orsola. Il ricco principe Doria di Genova era molto affezionato alla figliastra e volle dedicarle il dipinto commissionato a Caravaggio e raffigurante il martirio della Santa, di cui la ragazza portava il nome. Lo conferma una lettera dell’11 maggio 1610 scritta al Doria da Lanfranco Massa, che a Napoli curava gli interessi del principe genovese: “Pensavo mandarle il quadro di Sant’Orzola questa settimana però per assicurarmi di andarlo ben asciutto, lo posi ieri al sole”. La fretta, però, generò un guaio: sotto il sole la vernice si ammorbidi ulteriormente e la tela comincio a creparsi rimanendo gravemente danneggiata.
Ancora una volta, come era accaduto nel luglio di tre anni prima per raggiungere Malta, Michelangelo lascerà nuovamente Napoli nei primi giorni del luglio 1610 dal porto di Chiaia alla volta delle coste laziali, verso un destino oscuro, senza ritorno.
* Mariano Marmo è autore del libro “Caravaggio. Ho scritto il mio nome nel sangue”, Iuppiter Edizioni, 126 pagine, 12 euro. L’articolo proposto è tratto dal saggio dello scrittore.
FDS – Courtesy of L’ISOLA
NOTE IMMAGINI:
Ph. 1: Michelangelo Merisi da Caravaggio – Decollazione di S. Giovanni Battista (part.), 1608 – Concattedrale di San Giovanni, La Valletta, Malta – Realizzata nel 1608, grazie a questa opera Caravaggio ottenne l’onore della Croce di Malta. Il dipinto è conservata nell’Oratorio di San Giovanni Battista dei Cavalieri nella Concattedrale di San Giovanni a La Valletta (Malta). Essendo stato nominato Cavaliere di Grazia poco prima dell’esecuzione del dipinto, Caravaggio lo firmò col sangue che schizza dalla testa del Santo, come “F(rà) Michelangelo” (ma l’ultima parte della firma è illegibile a causa di una caduta di colore). Questo particolare, assieme alle grandi dimensioni (le più grandi dell’opus caravaggesco) rendono l’opera più che unica. Quando il pittore fuggì dall’isola poco dopo, la bolla con cui veniva radiato dall’ordine fu letta proprio davanti a questo quadro.
Ph. 2: Michelangelo Merisi da Caravaggio – “Davide con la testa di Golia” (1609-1610), Roma, Galleria Borghese. È noto che già i biografi seicenteschi individuano nella fisionomia del gigante sconfitto un autoritratto di Caravaggio, fatto questo che ha fornito lo spunto a numerose letture del quadro in chiave psicoanalitica – Il David con la testa di Golia viene dipinto a Napoli forse alla fine del 1609 ed è accluso alla domanda di grazia che Caravaggio invia al cardinale Scipione Borghese, il potente nipote di papa Paolo V. E a riprova dell’estremo atto di contrizione formulato dall’artista, sulla lama che il giovane stringe in pugno si leggono le lettere “H-AS OS”, sigla che riassume il motto agostiniano “Humilitas Occidit Superbiam” (l’umiltà uccise la superbia). È un quadro assai più violento e sconvolgente della versione di Vienna, generalmente datata 1606-1607, dove David incarna la fredda virtù che trionfa sui malvagi. Qui, invece, il giovane ha una espressione di umana compassione dipinta sul volto, e contempla la testa urlante di Golia senza baldanza.
Ph. 3: Michelangelo Merisi da Caravaggio – Part. del dipinto “Davide con la testa di Golia” (1609-1610), Roma, Galleria Borghese.
Ph. 4: Napoli – La Taverna del Cerriglio in una antica stampa. Qui si svolse la famosa rissa nel corso della quale Caravaggio rimase sfregiato e rischiò di essere ucciso – La Taverna del Cerriglio esisteva a Napoli almeno già dal Quattrocento e le sue tracce compaiono in diversi documenti. Era collocata alle spalle dell’attuale via Guglielmo Sanfelice e una delle più note commedie di Giambattista della Porta, La Tabernaria, è ambientata proprio fra le sue mura. Era famosa per essere molto frequentata, per la qualità della tavola, per l’ampia scelta di vini e per la particolare gentilezza dei proprietari. Era composta da una grande sala al pianterreno ed all’ingresso facevano mostra di sè una serie di massime scritte, ossia una specie di decalogo tra pungente ironia e saggezza popolare su come bisogna comportarsi in una taverna. Era anche locanda, avendo ai piani superiori delle camere da letto; inoltre era celebre per le numerose donnine allegre che la frequentavano per procacciarsi clienti. Nonostante avesse sede in un quartiere molto popolare era affollata da gente di ogni classe sociale, “dai mercanti agli usurai, dai cavalieri agli speziali, ma soprattutto dalle più affascinanti belle di notte della città” come precisa Achille della Ragione nel suo libro ‘Napoli e la napoletanità nella storia dell’arte’. In alcuni momenti della giornata vi era una tale confusione tra canti, rumori di piatti e bicchieri da sembrare una bolgia infernale. Il Basile, abituale frequentatore, la ritrasse nella quinta egloga delle Muse, dove vengono ritratte con scrupolo le caratteristiche degli avventori più affezionati. Ma l’episodio che la rese ancora più celebre fu quello che la vide teatro appunto dell’agguato di cui fu vittima Caravaggio da parte di alcuni sicari probabilmente inviati dai parenti di Ranuccio Tommasoni, l’uomo ucciso a Roma dal pittore dopo un diverbio per futili motivi. L’aggressione fu talmente violenta che per qualche giorno circolò notizia in città che il pittore fosse stato ucciso e non semplicemente ferito.
Ph. 6: Un’antica taverna del sud in una stampa d’epoca
Ph. 7: Michelangelo Merisi da Caravaggio – Le 7 opere di Misericordia (1606-1607), Napoli, Pio Monte della Misericordia – Il dipinto fu realizzato a Napoli tra la fine del 1606 e l’inizio del 1607 e fu consegnato ai committenti il 9 gennaio di quell’anno. L’opera è conservata al Pio Monte della Misericordia di Napoli ed è la rappresentazione delle “sette opere di Misericordia corporali”. L’opera in questione si rivelerà un vero cardine per la pittura nel sud Italia e per la pittura italiana in genere; la sua composizione, rispetto alle pitture romane, è più drammatica e concitata, non esistendo più un fulcro centrale dell’azione. Presso il Pio Monte della Misericordia è conservato, inoltre, il contratto originale che il Caravaggio stipulò con l’istituto. Sullo stesso è riportata la firma del pittore ed il suo compenso per l’opera eseguita, 470 ducati.
Ph. 8: Michelangelo Merisi da Caravagglio – Il Martirio di Sannt’Orsola, Palazzo Zevallos, Napoli – Il dipinto fu eseguito nel 1610 ed è conservato presso la galleria di palazzo Zevallos a Napoli. L’opera è di fatto l’ultima pittura del Caravaggio, essendo stata realizzata poco prima della sua morte. Commissionato dal banchiere genovese Marcantonio Doria (la cui famiglia aveva per protettrice proprio Sant’Orsola), il dipinto fu eseguito dal Caravaggio con molta rapidità, probabilmente perché questi era in procinto di partire per Porto Ercole, ove avrebbe dovuto compiere le formalità per essere graziato dal bando capitale. È ben noto che durante quel viaggio il pittore trovò la morte. La fretta fu tale che la tela non era perfettamente asciutta alla consegna: per accelerare l’asciugamento degli incauti servi la esposero al sole. Nelle fattezze di uno dei personaggi che circondano la santa, ossia quello che si trova alle sue immediate spalle, Caravaggio ha raffigurato se stesso con la bocca dischiusa e l’espressione dolorante: egli sembra ricevere la trafittura insieme a lei.
Ph. 9: La copertina del libro di Mariano Marmo “Caravaggio. Ho scritto il mio nome nel sangue. La vita, la fuga, la morte, il mistero, il genio”, Iuppiter Edizioni – Sullo sfondo cupo dell’Italia violenta e tormentata dal peccato – esacerbato quanto praticato dalla corrotta Roma papale del Seicento – l’autore segue le tracce di un genio enigmatico della pittura di tutti i tempi: Michelangelo Merisi detto “Caravaggio”. Da Roma a Napoli, poi a Malta e in Sicilia, tra taverne, liti, chiese, prostitute, prelati, cavalieri dell’Ordine di Malta, la vita di Caravaggio appare come un turbinio di eventi, in cui creazione artistica, morte, senso di colpa e voglia di riposo si sovrappongono, avvolgendo la storia dell’uomo in un’inestricabile ombra, la stessa che lo ha reso immortale nelle sue tele. Quali demoni hanno funestato le ultime notti dell’artista? Come e dove è morto? Che fine hanno fatto alcuni capolavori? Queste sono solo alcune delle domande che alimentano l’enigma Caravaggio.