di Enzo Garofalo
In una terra problematica come la Calabria, rivolgere lo sguardo alle sue radici plurimillenarie potrebbe apparire come un mero recupero romantico di miraggi, favole e sogni di favole. In realtà, riappropriarsi della propria storia – per una regione in cui le emergenze del presente hanno quasi annientato il senso di appartenenza, e con esso anche la consapevolezza del proprio patrimonio culturale e territoriale e del ruolo storicamente giocato nel contesto della cultura europea – equivale viceversa ad un importante recupero di identità, fattore imprescindibile per la costruzione di un futuro migliore. È come la ricomposizione di un puzzle a cui molti calabresi, soprattutto giovani, hanno scelto di dedicarsi, convinti che le radici per restare o per tornare contino non meno delle ali per volar via e che il passato possa rivelarsi spesso una fruttuosa fonte di ispirazione per originali spinte innovative.
Ciascuno, naturalmente, declina questa esigenza a proprio modo: si affida all’arte Angelo Ventimiglia, 32 anni, di Villapiana, l’antica Leutermia magno-greca, oggi piccolo e pittoresco borgo sulle colline dell’Alto Jonio cosentino, a pochi passi dal mare. Background atipico – è un ingegnere civile -, Angelo ha avvertito fin da giovanissimo una forte spinta creativa tradottasi in una ricerca artistica che ha nella civiltà della Magna Grecia la sua principale fonte di ispirazione. A influenzarlo soprattutto l’appassionata frequentazione dei vicini scavi della città di Sibari, luogo che per Angelo ha la sacralità di una dimora dell’anima: “da ragazzo ho sempre sognato, percorrendo i viottoli degli scavi, di trovare uno di quei meravigliosi stateri sibariti d’argento con l’effigie del toro, ma alla fine mi accontentavo di ammirarli nelle vetrine del Museo, almeno fino a quando non decisi di dargli forma con le mie mani…”
Da quella originaria suggestione e dalla convinzione che “c’è una ricchezza immensa che è la storia sepolta”, è scoccata la scintilla di un percorso formale coltivato da autodidatta, che ha trovato il suo primo elemento-chiave nelle antiche monete della Magna Grecia, reinterpretate in una inconsueta combinazione fra scultura e pittura, nella quale la “citazione” storica si carica di meta-significati all’interno di una riflessione più ampia sul rapporto con la propria terra e con le proprie radici. “Ogni momento è quello giusto per guardarsi intorno e lasciarsi ispirare dai profumi e dai colori della propria terra”, dice Angelo, affascinato non solo dalla cultura greca antica, ma anche dalle tracce della civiltà bizantina e di tutti quei popoli che con la loro presenza hanno alimentato la storia di una regione sorprendente. A cominciare dagli Arbëreshë, gli albanesi giunti in Sud Italia a partire dal XV secolo dietro la spinta delle invasioni ottomane: del piccolo borgo arbëreshë di Plataci è originario il padre di Angelo, circostanza che gli ha permesso fin da piccolo di intuire le radici multiculturali della Calabria. Una terra di cui l’artista, ormai da anni, diffonde l’immagine senza tempo nelle tante mostre personali e collettive che allestisce in Italia (suoi, ad es., il progetto MediArt che nel 2014 ha radunato 9 artisti del Mediterraneo per una esposizione a latere di un convegno dedicato al Mare Nostrum, e l’effigie di S. Francesco da Paola donata al papa nel VI centenario della nascita del santo), o nei concorsi d’arte in cui non manca di raccogliere riconoscimenti.
Segni, figure, colori (come il viola intenso che fa da sfondo alla moneta sibarita e rimanda ai costumi femminili del paese paterno: v. foto in alto), tutto concorre a comporre il linguaggio allusivo dell’arte attraverso cui Angelo comunica la propria terra e la propria visione del mondo. La tela di lino, montata su legno di abete o castagno, è il supporto su cui l’artista stende materiche ed astratte campiture di colori ad olio o acrilici che convivono con inserti di sottilissima lamina metallica (alluminio, latta, oro a 20 carati) e di altri materiali la cui scelta risponde a precise esigenze espressive. Unico dettaglio figurativo, ma aggregato di simboli già nei modelli originari, le monete delle poleis magnogreche – che Ventimiglia ripropone fuori scala incastonandole sulla tela dopo averle scolpite a freddo nel metallo (alluminio, argento, ottone) lavorato a sbalzo con doppia battitura – o altri elementi che rinviano allo stesso contesto culturale. Sibari, Metaponto, Crotone, Siracusa, e altre colonie e sottocolonie della gloriosa Magna Grecia, rivivono così in oggetti in grado di riassumere straordinariamente arte, economia, religione, mito, vita quotidiana, in una parola la “civiltà” di un mondo lontano ma intimamente radicato in noi.
Obiettivo di Ventimiglia non è infatti limitarsi ad evocare le conquiste di quel mondo, ma imbastire una sorta di “contro-canto tra passato e presente e un possibile futuro che per realizzarsi ha bisogno di riscoprire il proprio passato. La massima greca “Conosci Te Stesso” – afferma l’artista – forse vale più che mai in questo momento storico per una terra così ricca di contraddizioni come la Calabria”. Come dire che questa terra ha bisogno di “ritrovarsi” per riuscire a “rifondarsi”, e in questo l’arte, con il suo potere liberatorio, può essere di aiuto. Ogni sua opera, lasciando dialogare classicismo e contemporaneità, vuole essere un richiamo ai mutamenti di quelle stesse città evocate dalle monete – “luoghi, afferma Ventimiglia, in cui convivono la parte storica e quella moderna, i crolli e i recuperi, i quartieri popolosi e i ghetti, le bellezze e le brutture, perchè in fondo le anime di una città sono tante” – e più in generale ai percorsi dell’uomo sulla terra e nella Storia.
Angelo Ventimiglia si definisce artista metamorfico, termine che allude ai mutamenti della realtà intercettati dalla sua arte, ma soprattutto alla propria capacità di “trasformare i materiali in opere d’arte, nobilitandoli e liberandoli dalla loro forma primigenia per farli nascere a nuova forma, continuando così il processo di trasformazione cui la terra sottopone ogni elemento, animato e non”. E parlando della terra, la definisce “la base di partenza di ogni creazione”, qualcosa che non si esaurisce in “quell’agglomerato di mantello, crosta e nucleo di cui ci parlano i libri di scienze, bensì quell’insieme di persone, piante, energia e mutamento che la rende un microcosmo in continuo fermento su cui poggiamo i nostri piedi, che ce ne accorgiamo o meno”.
“Fin da bambini – aggiunge Ventimiglia – ci sentiamo dire che bisogna guardare in alto per comprendere l’infinito e noi stessi, e che non si deve abbassare lo sguardo…Ebbene, io che non ho mai accettato passivamente i consigli come fossero dogmi, ho preferito guardare anche in basso ed ho scoperto un mondo sotto i miei piedi: è il passato di questa terra, che nei suoi mutamenti ha inghiottito culture antiche, memorie, ricordi…“
Angelo plasma dunque le sue monete con la sensibilità e la forza delle mani, in una sorta di magico rituale che le rende testimoni ancora vive di un passato ritrovato e, al tempo stesso, talismani per affrontare un avvenire incerto: “adagiandole su una tela, su una roccia, su un tessuto, racconto con esse ciò che siamo stati…racconto la Magna Grecia, le sue donne, i suoi uomini, la sua cultura e la sua lingua antica di cui si ha ancora traccia nei mille dialetti di questa terra. Racconto radici, tradizioni, sapori, accenti di cui andare fieri.”
E invita i giovani “a non essere vittime di vacue demagogie, ma a farsi costruttori di speranza, perchè grazie al recupero di tracce, di luoghi, di pensieri che ci hanno permesso di arrivare fino ad oggi, grazie alla riscoperta di questi gloriosi passati, potremo piantare nuovi semi su cui costruire le basi per nuove epoche, in un continuum infinito.”
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