Il Museo del Bisso di Chiara Vigo, con sede in Sardegna sull’isola di Sant’Antioco (Carbonia-Iglesias), è un “museo vivente”, inteso cioè come spazio espositivo ma al tempo stesso come laboratorio che ha lo scopo di trasmettere al visitatore-ospite informazioni vive su una lavorazione millenaria, quella del bisso, tessuto naturale realizzato con fibra prodotta dal mollusco Pinna Nobilis, anticamente esclusivo appannaggio di re, imperatori e grandi sacerdoti. Maestro di quest’arte straordinaria è Chiara Vigo, unica depositaria di tecniche la cui origine si perde nella notte dei tempi nonché figura carismatica in grado di attrarre in questo particolarissimo spazio visitatori da ogni parte del mondo. Invitata a tenere conferenze in Italia e all’estero, Chiara intrattiene contatti con studiosi di varie università interessate a studiare questa antica e nobile arte. Il Museo è così diventato un polo capace di creare intorno a sè anche un indotto turistico di qualità stimolando il sorgere di attività collaterali finalizzate a promuovere la conoscenza del territorio in cui quest’arte si pratica da tempo immemorabile (Ph. Egisto Nino Ceccatelli).
Istituito a Cetraro (Cosenza) come esposizione museale di proprietà comunale, il Museo dei Brettii e del Mare è stato allestito ed impostato secondo un criterio didattico, con una disposizione dei materiali che segue un percorso topografico e cronologico insieme, dai siti con i reperti più antichi a quelli con i più recenti. Tutti riguardano in prevalenza la facies più significativa del comprensorio cetrarese, ovvero quella che illustra il momento più importante della presenza umana nell’antichità, tra IV e III secolo a.C. Interessanti sono pure le sezioni dedicate al mare con alcune anfore ritrovate lungo la costa antistante Cetraro e la sezione dedicata al fondo cartografico donato alla città dal prof. Raffaello Losardo. I reperti provengono da siti archeologici presenti nel territorio e costituiscono alcuni tra i più peculiari e diffusi oggetti della cultura materiale del popolo brettio. A completamento dell’offerta culturale, il museo è anche in grado di organizzare mostre temporanee e conferenze, e fornisce i consueti servizi didattici. Il museo, inoltre, si pone al centro di un itinerario di visita articolato in vari siti di interesse storico-archeologico lungo il tracciato montano che costeggia i fianchi del monte La Serra e comprende una serie di località che, grazie alla stretta collaborazione tra Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria ed Amministrazione Comunale, si ha intenzione di valorizzare. Nel 2013 il Museo si è dotato di una sezione miltimediale all’avanguardia consistente in un moderno laboratorio che consente ai visitatori di muoversi virtualmente nei siti archeologici di Cetraro e scoprire, attraverso la tecnologia 3D, la bellezza dei singoli reperti esposti. O ancora esplorare i fondali marini con i relitti che custodiscono preziosi tesori. Inoltre, è possibile tramite tablet in dotazione al museo o tramite i propri smartphone, grazie alla tecnologia dei codici QR e delle applicazioni gratuite già presenti su Apple Store e Android, ispezionare tutte le vetrine del museo con un semplice clic.
Il Castello di Corigliano Calabro (Cosenza) è una fortezza il cui nucleo primitivo risale all’XI secolo. La sua origine è legata alla figura del re normanno Roberto il Guiscardo (Roberto d’Altavilla). Il primo signore del castello di Corigliano fu un vassallo del Guiscardo, Framundo, proveniente da L’Oudon (Francia). In origine la fortezza era costituita solo dalla attuale torre mastio, molti anni dopo incorporata in un impianto architettonico più ampio e complesso, passato di mano in mano a varie famiglie aristocratiche, ciascuna delle quali apportò il proprio contributo di modifiche e miglioramenti: inizialmente i Sanseverino, famiglia destinata a diventare una delle più potenti del Regno di Napoli. A seguito della cosiddetta Congiura dei Baroni, ordita nel 1485 contro il re Ferdinando I D’Aragona, il castello fu confiscato. In questo periodo subì altre modifiche e nel 1495 tornò ai Sanseverino dopo la conquista del Regno di Napoli da parte del re francese Carlo VIII. Nel 1616, il feudo venne posto in vendita per sanare ingenti debiti della famiglia. Lo acquistarono i mercanti genovesi Saluzzo, che ne trasformarono e migliorarono radicalmente l’aspetto. Ad essi si deve l’aggiunta della cappella di S. Agostino. Con l’abolizione della feudalità imposta dal governo francese i Saluzzo persero potere e nel 1822 furono costretti a cedere tutte le loro proprietà a Giuseppe Compagna (1780-1834), uomo d’affari nato a Corigliano ma di origini longobucchesi, il cui figlio Luigi(1828-1880) vi apportò le ultime, definitive, modifiche. Rimasto ai Compagna fino al 1971, venne poi venduto alla Mensa Arcivescovile di Rossano. Nel 1979 è passato al Comune che nel 2002 lo ha riconsegnato alla pubblica fruizione dopo un lungo restauro. Oggi il castello è un monumento nazionale, un museo storico artistico culturale dell’intera comunità. E’ ricco di splendide stanze arredate e affrescate, tutte visitabili, come il Salone degli Specchi, la sala da pranzo, le cucine, i sotterranei, la torre mastio, il fossato ecc. Inoltre il piano superiore del castello viene utilizzato per mostre pittoriche, fotografiche, convegni e vari altri tipi di manifestazioni.
Il Museo della Civiltà del Vino Primitivo, ubicato all’interno della della Cantina Produttori Vini Manduria (Taranto), assomma rilevanza etnografica e importanza documentaria in merito alla civiltà contadina del Salento e all’evoluzione culturale e applicativa dei processi di produzione vitivinicola del territorio. Sotto le ottocentesche volte in pietra e nelle antiche cisterne, è possibile sperimentare due tipi di percorsi di visita al Museo. Da un lato, oggetti di vita quotidiana e attrezzi di lavoro del contadino di un tempo narrano la storia sociale e l’economia agraria della zona, mentre dall’altro, l’esposizione cronologica di vetusti torchi e contenitori di mosti e vini, unitamente a macchinari ed attrezzature per opifici vinari, testimonia l’evoluzione della tecnologia nei campi della vinificazione e dell’enologia. La ricca galleria di reperti e manufatti, collocabili tra la seconda metà dell’ ‘800 e i primi del ‘900 (il Museo ospita anche un imponente torchio su base in pietra del XVIII secolo), è accompagnata, inoltre, dall’esposizione di diversi documenti originali coevi, riproducenti scritti e immagini relativi al mondo dell’agricoltura e del vino, fra cui un editto di Ferdinando I di Borbone del 1823. Il Museo è anche un poliedrico contenitore di eventi ospitando meeting, convegni, concerti, rappresentazioni teatrali. Per i gruppi di visitatori, su prenotazione, la Cantina offre la possibilità di assaporare i piatti dell’autentica cucina tradizionale locale attraverso menù che riscoprono gli antichi sapori.
Il Museo della Fotografia del Politecnico di Bari è nato nel 2006 sulla scia di un Archivio Fotografico creato nel 1988 su iniziativa del Dipartimento di Architettura e Urbanistica del Politecnico di Bari per raccogliere e conservare le immagini di alcuni fotografi chiamati a leggere le identità del Territorio. La rapida crescita quantitativa e qualitativa dell’Archivio e l’interesse mostrato per l’iniziativa da parte di fotografi, critici ed attori dell’Area Metropolitana di Bari, spinsero infatti il Dipartimento alla costituzione del Museo. Esso vanta un patrimonio di grande interesse culturale e scientifico costituito da un Fondo di alcune centinaia di pezzi di immagini d’autore e circa 1200 pannelli dell’Architetto Prof. Apolloni Ghetti su Bari vecchia. Il 23 Luglio del 2010 con delibera del C. d. A. del Politecnico, Il Museo della Fotografia è diventato struttura dell’Ateneo. Il Museo, diretto da Pio Meledandri, si distingue per la sua costante attività di Seminari, Convegni, Mostre e Workshop con illustri esponenti del mondo della Fotografia.
Il Museo della Liquirizia “Giorgio Amarelli” insignito del “Premio Guggenheim Impresa & Cultura” e celebrato dalle Poste Italiane con un francobollo della serie tematica “Il patrimonio artistico e culturale italiano”, emesso in 3.500.000 di esemplari, è stato istituito a Rossano Calabro (Cosenza) per raccontare una storia davvero unica, quella della famiglia Amarelli e della sua azienda che da oltre 200 anni lavora e commercializza la liquirizia. Al 1500 circa risale la grande idea di commercializzare i rami sotterranei di una pianta che cresceva in abbondanza nel latifondo: la liquirizia, dall’allettante nome scientifico di glycyrrhiza glabra, cioè radice dolce. Nel 1731, per valorizzare al massimo l’impiego di questo prodotto tipico della costa ionica, la famiglia Amarelli dà vita ad un impianto proto-industriale, detto “concio”, per trasformare in succo le radici di questa benefica pianta. Nascono così le liquirizie, nere, brillanti, seducenti, gioia dei bambini, ma anche, soprattutto, di adulti che amano i piaceri di una vita sana e naturale. Dopo tre secoli la Amarelli, che fa parte dell’esclusiva associazione “Les Hénokiens” formata da circa 40 aziende familiari bicentenarie di tutto il mondo, produce ancora – con moderne tecnologie ed artigianale tradizione – liquirizia pura e gommosa, confetti e sassolini alla liquirizia, cioccolatini, grappa e liquore sempre alla liquirizia. Visitando il Museo della Liquirizia si può scoprire, fra oggetti del passato ed etichette d’epoca, un’esperienza di vita e di lavoro che si prolunga nel tempo sapendosi adeguare al suo divenire.
Il Museo Nicolaiano, con sede a Bari, raccoglie i pezzi di maggior valore legati alla secolare vicenda della Basilica di San Nicola ed è di grande attrazione per chiunque sia interessato al Santo come alla storia civile, artistica e religiosa della città di Bari. Partendo dall’antichità, le sue collezioni attraversano le epoche bizantina (876-1071), normanna (1071-1194), sveva (1194-1266), angioina (1266-1442), aragonese (1442-1501), vicereale (1551-1734), borbonica (1734-1861) e postunitaria. Epigrafi, pergamene e codici miniati (provenienti dal prezioso Archivio della Basilica), smalti, stemmi, reliquiari, calici e argenti (provenienti dal Tesoro), dipinti e paramenti sacri permettono al visitatore di venire a contatto diretto con capolavori e documenti che hanno fatto la storia del Santo, della Basilica e della Città.
Il Sistema Museale di Ugento (Lecce) viene istituito nel 2011, con una concessione di servizi stipulata tra il Comune e lo Studio di Consulenza Archeologica, al fine di promuovere un percorso di gestione integrato dei Beni Culturali del territorio. Comprende il Nuovo Museo Archeologico, la Collezione Archeologica “Adolfo Colosso”, il Complesso Monumentale della Cripta del Crocifisso e la Chiesa della Madonna di Costantinopoli. Il Nuovo Museo Archeologico, inaugurato nel 2009, è ubicato nel complesso conventuale S. Maria della Pietà dei Frati Minori Osservanti. I reperti esposti raccontano il passato glorioso di Ugento, l’antica città messapica di Ozan, uno dei centri più importanti nel controllo dell’attuale Salento. Il percorso espositivo si articola in sezioni cronologiche e tematiche, tra cui quelle dedicate alla Tomba dell’Atleta e ai culti della Messapia e la sezione numismatica. La Collezione Archeologica “Adolfo Colosso”, conservata all’interno dell’omonimo palazzo, in Via Messapica, conta circa 794 reperti databili tra il VII sec. a.C. e l’età altomedievale. Nella raccolta spiccano le famose trozzelle messapiche e un capitello dorico, simile a quello su cui era collocata la famosa statua bronzea dello Zeus di Ugento. Le pareti e il soffitto della Cripta del Crocifisso, piccola chiesa rupestre del X secolo, sono affrescati con un interessante ciclo pittorico di età bizantina. In prossimità dell’ipogeo si trova la piccola Chiesa della Madonna di Costantinopoli, inglobata in una struttura masserizia del XVII secolo.