di Redazione FdS
Il 29 ottobre torna a Pompei l’appuntamento con la vendemmia delle uve coltivate nei vigneti delle antiche domus, impiantati nei luoghi originari grazie a un progetto scientifico di studio degli impianti e delle antiche tecniche di viticoltura pompeiana. Una ricostruzione filologica che ha consentito di ottenere il pregiato vino Villa dei Misteri. Un risultato straordinario nato dagli studi di botanica applicata all’archeologia, condotti dal Laboratorio di Ricerche Applicate del Parco archeologico di Pompei, e da una convenzione con l’Azienda Vinicola Mastroberardino, che nel corso degli anni si è occupata delle ricerche preliminari, dell’impianto e della coltivazione dei vigneti dell’antica città vesuviana, fino alla produzione finale del vino.
L’idea è nata nel 1994 e dapprima ha riguardato un’area limitata degli scavi, per poi ampliarsi e giungere oggi a interessare 15 aree a vigneto ubicate tutte nelle Regiones I e II dell’antica Pompei (tra cui Foro Boario, Casa del Triclinio Estivo, Domus della Nave Europa, Caupona del Gladiatore, Caupona di Eusino, l’Orto dei Fuggiaschi, ecc.) per un’estensione totale di circa un ettaro e mezzo e per una resa potenziale di circa 40 quintali di uve per ettaro. Questo progetto rappresenta un modo unico per raccontare e far conoscere Pompei con la sua cultura e la sua tradizione antica e quale luogo di valorizzazione e, al tempo stesso, di difesa del territorio, del paesaggio e dell’ambiente.
A dominare la scena dei vigneti pompeiani è senza dubbio il vitigno Aglianico. Risale infatti al 2007 l’ampliamento del progetto con l’individuazione di ulteriore aree da ripristinare a vigneto, destinandole integralmente alla coltivazione di questo nobile vitigno – una delle varietà più rappresentative della viticoltura dell’antichità – naturalmente adatto alla produzione di grandi vini rossi da lungo invecchiamento. A partire dal 2011 l’Aglianico è stato inserito in blend, come nel Villa dei Misteri Annata 2012 che, frutto dell’uvaggio storico di Aglianico, Piedirosso e Sciascinoso, è stato scelto quest’anno per la degustazione, considerati gli elevati livelli qualitativi conseguiti e la percezione, in misura ancora maggiore rispetto al 2011, del contributo dell’Aglianico nel delineare buona concentrazione, intensità aromatica, vellutato patrimonio di tannini, densità e particolare eleganza. Dopo un lungo periodo di affinamento, si presenta con colore rosso rubino e offre un profilo olfattivo molto complesso con note che ricordano la prugna, la marasca, la mora, il tabacco, la liquirizia, la vaniglia, le erbe officinali, il pepe e i chiodi di garofano. Al palato si caratterizza per buona densità e persistenza con sensazioni sapide, acide e morbide molto decise. Tutti gli aspetti sensoriali sono ben equilibrati tra loro e di particolare finezza.
La forma di allevamento selezionata per l’Aglianico è stata l’alberello, che meglio si adatta a questo vitigno nel microclima di Pompei, in un connubio perfetto tra il vitigno di origine greca (“Vitis Hellenica”) e la tipica potatura corta ellenica. La sua coltivazione, così come quella di altri vitigni antichi, è il frutto di un approccio all’area archeologica di Pompei come a un grande laboratorio a cielo aperto. Grazie alle ricostruzioni del verde nelle domus, passando per i vivai e l’orto botanico, e quindi per la messa a dimora dei tanti vigneti, soprattutto nelle Regiones I e II, è stato possibile comprendere l’importanza di questi spazi rurali all’interno della città antica. Le ricostruzioni di queste aree sono iniziate diversi anni fa e sono andate via via fondandosi su una sempre più cosciente e approfondita conoscenza scientifica basata sulla documentazione archeologica , sugli studi archeobotanici e palinologici (studio dei pollini) e sulle fonti antiche a disposizione.
Tra gli studi più importanti sull’individuazione e l’interpretazione degli spazi verdi pompeani, nonché delle tecniche colturali delle aree produttive, sono da menzionare quelli della studiosa Wilhelmina Feemster Jashemski, che dal 1950 si è occupata anche delle pratiche vitivinicole delle aree in cui sorgono i nuovi vigneti. Gli studi si sono basati sullo scavo sistematico, e sull‘analisi di tutti i reperti e le tracce naturali portati in luce durante lo scavo, sulla loro interpretazione e, a seguire, sull’intreccio di questi dati archeologici con le fonti scritte. Questo modo di procedere ha reso possibile ottenere le prime informazioni sulla viticoltura romana-pompeiana, prima note quasi esclusivamente attraverso le fonti scritte.
Procedendo nell’individuazione, analisi e disposizione delle tracce lasciate dalla disgregazione degli apparati radicali che, solo nelle Regiones I e II, vantano piu’ di 2000 elementi, è stato possibile riconoscere le ampie aree destinate a vigneti urbani. “Scavo e studio scavo all’interno di questi spazi – spiega l’archeobotanica Chiara Comegna – hanno permesso di ricavare ulteriori informazioni riguardanti la viticoltura romana-pompeiana, scoprendo che i vigneti urbani erano coltivati a mano, dato che le tracce lasciate dalla disgregazione delle radici erano distanti ogni 4 piedi romani, poco più di un metro, proprio come riportato dagli scritti di Plinio e Columella, i quali sottolineano come a quella distanza la coltivazione fosse possibile soltanto a mano”.
E’ stato possibile, in particolare, stabilire che – come riportato nelle fonti scritte – la vite era sostenuta mediante supporti come paletti e graticci, di cui sono stati individuati gli alloggiamenti accanto alle buche lasciate dalla disgregazione delle radici delle viti; la presenza di sistemi di drenaggio che consentivano il defluire dell ‘acqua nel momento in cui vi fosse sia un eccesso oppure di trattenerla per i momenti di siccità; la presenza all’interno del vigneto di sentieri che consentivano l’accesso e il trasporto dei prodotti agricoli verso l’esterno, collegati ai punti di accesso del vigneto; la presenza di alberi da frutto (fichi, peri e ulivi), dedotta dallo studio dei reperti archeobotanici, ovvero delle buche lasciati dagli apparati radicali. Una curiosità: tra i filari erano presenti dei bauli, cioè rincalzi di terra nei quali sono stati individuati dei semi di legumi; caratteristica che trova riscontro anche nelle fonti scritte e che potrebbe testimoniare oltre alla pratica dell’ intercoltura (con presenza di alberi da frutto, viti, prodotti orticoli ) anche quella dell’utilizzo di legumi come fertilizzanti dei terreni.
© RIPRODUZIONE RISERVATA