Lo studio, che vede coinvolti istituti scientifici italiani e stranieri, è stato pubblicato sulla rivista Earth-Science Reviews. Oltre a ricostruire le varie fasi della storica eruzione esso contribuisce allo sviluppo di modelli previsionali per il futuro
di Redazione FdS
“Una nube si levava in alto, ed era di tale forma ed aspetto da non poter essere paragonata a nessun albero meglio che a un pino. Infatti, drizzandosi come su un tronco altissimo, si allargava poi in una specie di ramificazione; e questo perché, suppongo io, sollevata dal vento proprio nel tempo in cui essa si formava, poi, al cedere del vento, abbandonata a sé o vinta dal suo stesso peso, si diffondeva ampiamente per l’aria dissolvendosi a poco a poco, ora candida, ora sporca e nera, secondo che portasse con sé terra o cenere…”. È questo solo uno stralcio di una delle due epistole (VI, 16) che lo scrittore latino Plinio il Giovane – testimone oculare dell’evento – indirizzò allo storico Tacito per descrivergli la drammatica eruzione del Vesuvio del 79 d.C., quella che distrusse Pompei ed Ercolano e nella quale suo zio, il naturalista Plinio il Vecchio, perse la vita nel tentativo di recare soccorso alle popolazioni locali. Quella eruzione, una delle più indagate della storia, torna alla ribalta del mondo scientifico grazie allo studio multidisciplinare “The A.D. 79 eruption of Vesuvius: a lesson from the past and the need of multidisciplinary approaches for developments in volcanology”, pubblicato di recente sulla rivista Earth Science Reviews. A quasi 2000 anni dall’evento che devastò i territori circostanti cristallizzando nel tempo la vita di intere città ubicate all’ombra del grande vulcano campano, un team internazionale di ricercatori è tornato ad occuparsene per offrire un quadro più esaustivo delle conoscenze sulla famosa eruzione, a partire dalla sua vera datazione in merito alla quale pareri divergenti si sono confrontati per secoli.
Rilettura delle fonti storiche, raccolta e analisi critica della vasta produzione scientifica disponibile sull’eruzione, studio sul campo e analisi di laboratorio, sono stati i capisaldi della ricerca promossa dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) in collaborazione con il Centro Interdipartimentale per lo Studio degli Effetti del Cambiamento Climatico (CIRSEC) e il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa, l’Istituto di Geologia Ambientale e Geoingegneria del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IGAG-CNR), il Laboratoire Magmas et Volcans di Clermont-Ferrand (LMV) in Francia e la School of Engineering and Physical Sciences (EPS) della Heriot-Watt University di Edimburgo nel Regno Unito. Lo studio ha permesso di ripercorrere tutte le fasi dell’eruzione, dalle attività nella camera magmatica fino alla deposizione della cenere in aree lontanissime dal Vesuvio, come testimoniato dalle tracce ritrovate in Grecia.
“Il nostro lavoro ha esaminato con un approccio ampio e multidisciplinare diversi aspetti dell’eruzione del 79 d.C., integrando dati storici, stratigrafici, sedimentologici, petrologici, geofisici, paleoclimatici e di modellazione dei processi magmatici ed eruttivi di uno degli eventi più famosi e devastanti che hanno interessato l’area vulcanica napoletana” – spiega Mauro A. Di Vito, vulcanologo dell’INGV e coordinatore dello studio. “Lo studio pubblicato parte dalla ridefinizione della data dell’eruzione, che sarebbe avvenuta nell’autunno del 79 d.C. e non il 24 agosto come si è ipotizzato in passato, e prosegue con l’analisi vulcanologica di siti in prossimità del vulcano per poi spostarsi progressivamente fino a migliaia di chilometri di distanza, dove sono state ritrovate tracce dell’eruzione sotto forma di ceneri fini”.
“Fin dal XVIII secolo, la data del 24 agosto è stata oggetto di dibattito fra storici, archeologi e geologi perché incongruente con numerose evidenze, come ad esempio i ritrovamenti a Pompei di frutta tipicamente autunnale o le tuniche pesanti indossate dagli abitanti che mal si conciliavano con la data del 24-25 agosto” – chiarisce Biagio Giaccio, ricercatore dell’Igag-Cnr e coautore dell’articolo, che tra gli elementi di prova cita quello da ultimo emerso nel 2018: “Un’iscrizione in carboncino sul muro di un edificio di Pompei che tradotta cita ‘Il sedicesimo giorno prima delle calende di novembre, si abbandonava al cibo in modo smodato’, indicando che l’eruzione avvenne certamente dopo il 17 ottobre”, aggiunge Giaccio.
La data più verosimile sarebbe dunque collocabile all’incirca nell’ultima settimana di ottobre, superando così quella del 24 agosto riportata nella trascrizione medievale delle epistole di Plinio il Giovane eseguita da un monaco del IX secolo e riportata nel “Codex Laurentianus Mediceus” (nonum Kal. Septembres, il nono giorno prima delle calende di settembre). Del resto la tesi “autunnale” era già rintracciabile anche in altre fonti storiche: nel II-III secolo dC, uno scritto dello storico Cassio Dione sembra collocare l’eruzione nella seconda parte dell’autunno del primo anno dell’impero di Tito, dopo la sua quindicesima acclamazione (DCCCXXXII Ab Urbe Condita); altre trascrizioni della lettera di Plinio il Giovane, come quella del “Codex venetus” tradotto da Pier Alessandro Paravia nel 1827, portano la data del 1° novembre (Kal. Novembres) oppure quella del 24 ottobre (nonum Kal. Novembres). Per una sintesi delle prove a sostegno della datazione autunnale rinviamo i nostri lettori all’articolo Quel maledetto giorno d’autunno. La vera data dell’eruzione che distrusse Pompei.
L’eruzione – spiegano gli studiosi – avvenne in 8 fasi, a cominciare da quella, di enorme violenza, che sollevò una colonna di materiali alta fino a 8 chilometri con conseguente ricaduta nelle aree vicine e migrazione delle ceneri anche a migliaia di chilometri di distanza, come quelle ritrovate in Grecia. La caldera del vulcano, collassando, generò a sua volta altri fenomeni, come lo scorrimento di flussi piroclastici ad alta densità e colate di fango. La ricerca è stata integrata dalla valutazione quantitativa dell’impatto delle singole fasi dell’eruzione sulle aree e sui siti archeologici vicini al vulcano. “Lo spirito del nostro lavoro è stato quello di comprendere come un evento del passato possa rappresentare una finestra sul futuro, aprendo nuove prospettive per lo studio di eventi simili che potranno verificarsi un domani – spiega Domenico Doronzo, vulcanologo dell’INGV e coautore della ricerca – Questo studio, quindi, consentirà di migliorare l’applicabilità di modelli previsionali, dai fenomeni precursori all’impatto dei vari processi eruttivi e deposizionali, ma potrà anche contribuire a ridurre la vulnerabilità delle aree e delle numerose infrastrutture esposte al rischio vulcanico, non solo in prossimità del vulcano, ma – come ci insegna questo evento – anche a distanza di centinaia di chilometri da esso”.
“Negli ultimi anni è inoltre diventato sempre più importante comprendere l’impatto delle eruzioni sul clima anche per poter studiare l’origine e l’impatto di alcune variazioni climatiche brevi. Tuttavia, non conosciamo ancora molto – e con la risoluzione adeguata – delle condizioni climatiche al tempo dell’eruzione del 79 d.C.”, commenta Gianni Zanchetta dell’Università di Pisa e coautore della ricerca. “In questo lavoro abbiamo cercato di mettere insieme le conoscenze sulle condizioni climatiche regionali al tempo dell’eruzione per tentare una prima sintesi, anche per indirizzare le ricerche future su questo aspetto che ha ancora molti lati oscuri”, aggiunge Monica Bini dell’Università di Pisa.
I risultati di questo studio hanno ricevuto l’apprezzamento di un’autorità della vulcanologia mondiale come Raymond Cas, professore emerito presso la School of Earth Atmosphere and Environment della Monash University (Australia): “L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. è una delle più iconiche nel campo della vulcanologia fisica – dice il noto ricercatore australiano – Le osservazioni su questa eruzione, così come gli innumerevoli studi sui depositi e l’interpretazione dei processi eruttivi, sono alla base di molti dei concetti e della comprensione dei meccanismi delle eruzioni esplosive nella moderna vulcanologia. Una revisione di ciò che si sa sull’eruzione e sui suoi depositi è quindi molto importante per i vulcanologi e giustifica un documento completo e articolato, come questo articolo. Agli autori vanno fatte senz’altro le congratulazioni per i dettagli estremamente completi, estratti dall’enorme documentazione storica e dalla letteratura scientifica contemporanea su questa storica eruzione”.
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