di Redazione FdS
Una serie di indizi porta a ritenere che la storia che stiamo per raccontarvi – avente per protagonista una collezione di vasi antichi di straordinaria bellezza provenienti dal Sud Italia e oggi custoditi presso l’Altes Museum di Berlino – sia uno dei tasselli mancanti di un giallo internazionale, ambientato nel mondo del traffico illecito di reperti archeologici; un caso di cui nel 2020 vi abbiamo raccontato l’episodio principale, per fortuna pervenuto ad una felice soluzione, ovvero quello del trafugamento in Puglia e del recupero negli Stati Uniti del Trapezophoros e dei vasi marmorei di Ascoli Satriano (Foggia). La collezione di cui stiamo parlando è quella di 21 vasi apuli in ceramica del IV sec. a.C. esposti presso il museo statale tedesco che li acquistò nel 1984. La correlazione, altamente probabile, tra le due vicende si deve alle ricerche e all’intuizione di due archeologi forensi, Maurizio Pellegrini e Daniela Rizzo, a lungo impegnati, quali consulenti del compianto procuratore romano Paolo Giorgio Ferri, nella grande inchiesta che a partire dalla metà degli anni ’90 ha inferto un durissimo colpo al traffico internazionale di reperti archeologici. Tale mercato illegale trova da sempre nell’Italia il suo principale bacino di approvvigionamento grazie ad un saccheggio che, secondo una stima fornita dall’Università di Princeton, solo nell’ultimo cinquantennio ha privato il nostro Paese di almeno un milione e mezzo di reperti; “una vera e propria razzia”, come l’ha definita il giornalista Fabio Isman che a questo tema ha dedicato il libro-inchiesta “I predatori dell’arte perduta” (ed. Skira).
L’ANTEFATTO
A far emergere gli indizi che hanno consentito a Pellegrini e Rizzo di inquadrare in un possibile contesto unitario i due gruppi di reperti – gettando le basi per una azione di recupero da parte dello Stato italiano di cui, a distanza di anni, si cominciano finalmente a vedere le prime concrete iniziative – è stata la stessa brillante operazione compiuta nel 1995 dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale in collaborazione con la Polizia svizzera da cui prese le mosse il recupero dei marmi di Ascoli Satriano. Ci riferiamo al sequestro, compiuto presso il Porto Franco di Ginevra, del deposito di antichità appartenente a un noto antiquario romano finito alla sbarra per ricettazione e associazione per delinquere e condannato in via definitiva nel 2012 a 8 anni di reclusione e a 10 milioni di euro di provvisionale per avere commercializzato materiali archeologici frutto di scavi clandestini e per il danneggiamento di siti archeologici. Come lui finirono processati (ma alla fine sottratti alla giustizia dall’intervenuta prescrizione) anche altri due esponenti di spicco del commercio internazionale d’arte antica – Marion True, ex curatrice delle antichità del Getty Museum di Los Angeles, e il mercante americano Robert Emanuel Hecht – ritenuti dagli inquirenti figure-chiave di una rete che coinvolgeva tombaroli, intermediari, società di comodo, note case d’aste, collezionisti e musei stranieri quasi sempre compiacenti. Oltre ai circa 3800 reperti, il sequestro consentì il recupero di una ricca documentazione fotografica fatta di negativi, stampe e istantanee Polaroid, che raffiguravano innumerevoli reperti provenienti per la stragrande maggioranza dall’Italia. Un altro dettaglio notato da Pellegrini e Rizzo fu la presenza su molti oggetti di cartellini col marchio di una nota casa d’aste londinese: accertamenti disposti dal procuratore Ferri permisero di appurare come la messa in vendita dei reperti e il loro riacquisto attraverso società di comodo, servissero a dare a quegli oggetti una parvenza di provenienza legittima prima di farli approdare nei musei. Il seguito del lavoro certosino svolto dai due archeologi attraverso sopralluoghi in Svizzera ed esami degli oggetti poi rientrati in Italia, fu quindi quello di evidenziare le relazioni esistenti tra la documentazione ritrovata, i reperti e gli acquisti effettuati dai grandi musei, al fine di appurare l’eventuale illiceità di quelle transazioni. Un contributo importante all’indagine venne anche dalle foto private che mostravano i mercanti nei musei, accanto agli oggetti venduti, con sguardo conpiaciuto quasi fossero dei trofei personali.
LE POLAROID RIVELATRICI E IL DOCUMENTO RISERVATO DEL GETTY
La prima importante scoperta emersa dall’esame della documentazione fotografica sequestrata a Ginevra, fu il reperimento delle polaroid che mostravano il Trapezophoros ridotto in pezzi e riposto nel bagagliaio di un auto e il Podanipter (bacile rituale marmoreo dipinto) ancora sporco di terra; fu notato che le relative immagini riportavano tutte lo stesso numero di supporto fotografico (000577703532), segno del fatto che dovevano essere state scattate insieme o comunque in uno stretto arco temporale. A questa scoperta andò ad aggiungersi un documento riservato proveniente dagli uffici del Getty Museum e divulgato dai giornalisti americani Jason Felch e Ralph Frammolino che lo avevano ottenuto da una fonte confidenziale. La nota, scritta da Arthur Houghton, predecessore di Marion True nella sezione Antichità del museo, e indirizzata all’allora direttrice associata del Getty, riferendo il proprio punto di vista su tre capolavori marmorei acquisiti di recente di cui sosteneva l’identità di provenienza geografica, ma la diversità di contesto e di datazione, riportava quanto segue: “…ho avuto la possibilità di discutere la questione con il mercante che ha comprato i tre oggetti dagli scavatori. Questo individuo [il funzionario ne riporta il nome per esteso – NdR] ha venduto il bacile a Robert Hecht e i grifoni [il Trapezophoros – NdR] e l’Apollo a R. S. [noto mercante internazionale – NdR]. In seguito Hecht ha venduto la lekanis/bacile a R. S., che poi ha trasferito le tre sculture come un unico gruppo a Maurice Tempelsman [noto uomo d’affari e collezionista – NdR] dal quale noi le abbiamo comprate.” Nella nota Houghton aggiungeva che il mediatore italiano affermava non solo che il trapezophoros e il bacile rituale provenissero da una stessa tomba “non lontana da Taranto” ma che il contesto includeva anche “un discreto numero di vasi del Pittore di Dario”. Muovendo da questo documento – che non solo sembrava prestar fede alle affermazioni del mercante italiano, ma dimostrava quanto il museo fosse consapevole dell’origine illecita dei reperti – Pellegrini e Rizzo ebbero modo di fare un’altra importante scoperta.
LA COLLEZIONE DI VASI APULI DELL’ALTES MUSEUM
Le ricerche dei due consulenti di Ferri, messisi sulle tracce del Pittore di Dario e dei suoi vasi, approdarono infatti a una preziosa collezione di 21 vasi apuli del IV secolo a.C. custoditi all’Altes Museum di Berlino [lo stesso della controversa Persefone di Locri esposta nella medesima sala – NdR], indicati come provenienti da una stessa tomba ed attribuiti al Pittore di Dario e altri ceramografi della sua cerchia (nel gruppo sono presenti anche opere dei cosiddetti Pittore dell’Oltretomba, Pittore di Varrese e Pittore di Copenhagen); l’idea di un contesto unitario di provenienza fu sostenuta anche dall’archeologo italiano Luca Giuliani, della Fondazione Scientifica Ernst Reuter, che all’epoca dell’acquisto collaborava col museo. In una recente intervista rilasciata alla giornalista RAI Raffaella Cosentino, lo studioso ha spiegato come questi vasi fossero concepiti per essere “composti in coppia” e quindi “pensati per essere sistemati nella stessa tomba”. L’attenzione degli inquirenti – tra cui il luogotenente dei Carabinieri Salvatore Morando, particolarmente attivo in questa vicenda – si concentrò innanzitutto sui crateri a mascheroni e a figure rosse, con soggetto mitologico attribuiti appunto al Pittore di Dario, per poi passare sotto la lente d’ingrandimento l’intero complesso di vasi. È qui il caso di ricordare che il ceramografo legato al nome di “Dario” è stato il più importante del gruppo apulo della fine del IV sec. a. C., grazie alla produzione di vasi di grandi dimensioni (soprattutto crateri a volute) dipinti in uno stile elaborato (cosiddetto “ornato”), con figure disposte su più registri e l’uso di colori aggiunti come il giallo, il bianco e il rosso/terra bruciata, utilizzati nel rendere attributi o accessori del vestiario. Ebbe bottega a Taranto e fu un vero caposcuola. Il suo nome convenzionale deriva dall’enorme cratere a volute di Napoli con Dario tra i Persiani e altri episodi secondari che si fanno risalire al contenuto di una tragedia greca, forse i Persiani di Eschilo; un’opera che insieme al Vaso di Patroclo, anch’esso esposto a Napoli, si colloca tra gli esempi più celebri e pregiati di ceramica ellenistica in Italia.
La collezione tedesca, acquistata dal Museo nel 1984 per 3 milioni di marchi da un mercante svizzero, proveniva – a detta del venditore – da una tal famiglia elvetica Cramer che l’avrebbe posseduta fin dall’Ottocento (dunque, precedentemente all’entrata in vigore delle prime norme emesse in Italia a tutela del patrimonio storico, artistico e archeologico) quando un nobile avo avrebbe acquistato i reperti in Campania durante un suo viaggio. Questo racconto venne suffragato da due persone: una italiana residente a Ginevra, collezionista, restauratrice, funzionaria delle dogane elvetiche al Porto Franco, ma soprattutto collaboratrice di fiducia del succitato mercante romano – e l’allora direttore del Museo di Ginevra, sedicente nipote degli ultimi detentori dei reperti i quali, a suo dire, sarebbero stati in possesso di uno scritto del 1976 riferibile alla divisione ereditaria dei vasi apuli. Insomma due testimonianze tutt’altro che incontrovertibili, anzi ritenute completamente inattendibili dalla magistratura italiana quando finalmente venne il momento di districare i fili di questa vicenda.
A smontare infatti questa fantasiosa ricostruzione sono le Polaroid (provenienti dal già menzionato sequestro in Svizzera e analizzate da Pellegrini e Rizzo) che mostrano ben 4 dei 21 vasi oggi nel museo tedesco. Riconducibili al Pittore di Dario e alla sua cerchia, vi appaiono ancora in frammenti, quindi prima del restauro, e a mostrarli è un gruppo di 13 istantanee che portano lo stesso numero di serie (000577703532) già visto per i reperti di Ascoli Satriano e riconducibile a una stessa confezione di Polaroid “300 Instant Film” da 20 scatti.
Nelle immagini sono riconoscibili tra gli altri i frammenti dei Crateri di Persefone e della Gigantomachia attribuiti al cosiddetto Pittore dell’Oltretomba (suo anche l’omerico Priamiden-Krater, cratere a volute con anse a mascherone), sempre della cerchia del Pittore di Dario, al quale sono invece da ricondursi i Crateri di Phrixos (v. foto di apertura in alto) e di Rhesos (v. foto in basso), rispettivamente ispirati alla mitologia e al teatro tragico.
Tra queste istantanee anche la foto dei frammenti di un vaso apulo ancora oggetto di ricerca e un altro cratere del Pittore di Dario, decorato con scene dell’Iliade di Omero, individuato in una pubblicazione curata da un’associazione, esposto da una discussa galleria antiquaria di New York in una mostra tenutasi nel 2016 presso la TEFAF (The European Fine Art Foundation) e oggi finito in qualche collezione privata. Si comprende quindi come non sia affatto irrealistica l’ipotesi, avanzata da Pellegrini e Rizzo, che la tomba di provenienza potrebbe essere la stessa per entrambi i due gruppi di reperti (marmi del Getty e vasi dell’Altes Museum), ovvero una tomba d’alto rango in agro di Ascoli Satriano o nel suo circondario. Ma ammesso pure che gli oggetti provenissero da sepolture diverse, resta la circostanza che l’intero acquisto del museo tedesco fu fatto sulla base di notizie artificiose e senza alcuna documentazione che comprovasse la liceità della compravendita.
DUE DECRETI DI CONFISCA
Da qui l’iniziativa della magistratura italiana di disporre due decreti di confisca, il primo emesso dal Gip di Foggia, e il secondo dal Gip di Roma Alessandro Arturi su richiesta della Procura del Tribunale capitolino. I provvedimenti, adottati allo scopo di pervenire ad una definitiva restituzione dei reperti da parte del museo tedesco, sono stati legittimamente adottati nonostante l’intervenuta prescrizione dei reati consumati ai danni del patrimonio culturale italiano. L’atto più recente risale a fine gennaio 2022, quando è stato inviato un ordine europeo di confisca attraverso la Direzione Generale Affari Internazionali e Cooperazione Giudiziaria del Ministero della Giustizia che lo ha fatto pervenire all’omologo ministero tedesco. Non è la prima volta che l’autorità giudiziaria italiana si mobilita: le recenti iniziative sono state precedute da due rogatorie internazionali, una della Procura di Roma del 2003 e un’altra della Procura di Foggia del 2018 con la quale si chiedeva anche il sequestro dei vasi, ma entrambe sono finite su un binario morto.
Nel più recente provvedimento di confisca inanzitutto si evidenzia come le Polaroid raffigurino quattro dei crateri del museo di Berlino “prima allo stato di meri frammenti cosparsi di terra, poi nelle successive fasi di restauro, fino alla loro attuale ricomposizione integrale”; quindi si contesta la scelta dell’allora direttore del museo, “di non avvertire le competenti autorità italiane, facendo affidamento sulla implausibile ipotesi secondo la quale quei beni archeologici erano stati introdotti nel territorio svizzero nel corso del XIX secolo” e quindi il fatto “che i responsabili del museo archeologico di Berlino non abbiano affatto prestato la dovuta diligenza nella verifica della liceità dell’esportazione e della provenienza dei vasi acquistati alla sua collezione, appagandosi di spiegazioni inverosimili e prive di adeguati riscontri documentali”.
Ora non resta che attendere gli sviluppi di questa storia alla cui positiva soluzione il museo tedesco sembrerebbe ben disposto, almeno stando alle recenti dichiarazioni del vicedirettore Martin Maischberger, che ammettendo gli “errori” dei vecchi dirigenti ha dichiarato la volontà del museo di ottemperare alle richieste ufficiali delle autorità italiane magari sulla base di accordi bilaterali con le istituzioni tedesche (in altri termini restituzione dietro promessa di prestiti di lunga durata). Intanto la ricerca di Maurizio Pellegrini e Daniela Rizzo sull’archivio delle Polaroid prosegue nel tentativo di individuare in musei o case d’aste altri reperti sospetti e dal loro racconto emerge come già in passato altri vasi del Pittore di Dario siano finiti all’estero tra il 1984 e il 1991 ma poi intercettati e restituiti all’Italia: è il caso dell’anfora a figure rosse con la morte di Atreo venduta da Hecht al Museum of Fine Arts di Boston; della pelike apula a figure rosse con il ritorno di Andromeda venduta al Getty Museum (di questo vaso esiste una foto nell’archivio di Polaroid sequestate in Svizzera); della loutrophoros apula a figure rosse con Niobe in lutto venduta al Princeton University Museum of Art; del cratere a volute apulo a figure rosse venduto al Cleveland Museum of Art; e del deinos apulo a figure rosse con Ercole e Busiride venduto al Metropolitan Museum of Art di New York. Difficile dire – afferma Pellegrini – se anche questi vasi facessero in origine parte del corredo funerario, supposto come unitario, attualmente in possesso dell’Altes Museum, “sebbene questa rimanga un’ipotesi molto suggestiva”.
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