Il geofisico e storico dell’Osservatorio Vesuviano, Giovanni P. Ricciardi, colloca la data dell’evento in autunno. Una nuova scoperta a Pompei conferma la tesi dello studioso
di Kasia Burney Gargiulo
Ogni anno con l’arrivo dell’estate, immancabilmente, c’è chi coglie l’occasione per evocare la catastrofica eruzione vesuviana del 79 d.C. che distrusse Pompei, Ercolano e altri insediamenti affacciati sul Golfo di Napoli, a suo tempo mete privilegiate dell’otium romano piĂą fastoso, vissuto in sontuose ville, ricche di giardini e opere d’arte. Com’è noto, la tradizione vuole che l’evento nefasto sia avvenuto nella bella stagione, e per la precisione il 24 agosto. Un dettaglio che da secoli fa parte dell’immaginario di generazioni di visitatori, complice l’immane dramma umano vissuto dagli antichi abitanti dell’area vesuviana, ancora in grado di turbare e di commuovere. Eppure quella data, almeno fino ad oggi, è sempre stata oggetto di controversia.
Nell’arco del tempo è infatti emersa una serie di elementi che hanno messo in discussione, in modo convincente, la datazione tradizionale, spostando l’eruzione nel cuore della stagione autunnale. A spiegarlo, in modo molto chiaro e documentato, è Giovanni P. Ricciardi, geofisico e storico, attivo presso l’Osservatorio Vesuviano di Napoli, il piĂą antico osservatorio vulcanologico del mondo. A Ricciardi si deve la monumentale opera in 3 volumi “Diario del Monte Vesuvio. Venti secoli di immagini e cronache di un vulcano nella cittĂ ” (ed. ESA, pp. 896),  che ripercorre l’intera vicenda eruttiva del vulcano, le descrizioni degli autori classici, le cronache medievali e moderne fino ai documenti piĂą recenti prodotti dall’Osservatorio, oltre a proporre una ricchissima sezione iconografica.
Premessa la certezza storica che nell’anno 79 d.C., pari all’832° dalla fondazione di Roma e al primo di Tito imperatore, il Vesuvio ha eruttato, e che di quell’evento ci rimane una sorta di reportage in tempo reale nella 16a e nella 20a delle Lettere ai Familiari di Plinio il Giovane, nipote omonimo del celebre naturalista che perse la vita per osservare da vicino il fenomeno eruttivo e portare soccorso alla gente in fuga, “per quanto riguarda invece il mese e il giorno della catastrofe – afferma Ricciardi – essi sono resi incerti dalla diversitĂ delle lezioni del testo di queste lettere, pervenuteci da manoscritti in piĂą di dodici varianti, per cui la data dell’evento oscilla tra il nono giorno delle Calende di settembre (24 agosto) e il primo giorno delle Calende di novembre (1 novembre)”. Come è infatti noto, sottolinea il geofisico, il codice Laurentianus Mediceus 47.36 (sec. IX), il piĂą antico pervenutoci, riporta “Non. Kal. Sept(ember)” ovvero il 24 Agosto, mentre altri codici riferiscono “Nov.(ember) Kal.” ovvero il 1 Novembre.
Da questi punti fermi muove la dotta argomentazione con la quale Ricciardi espone in modo puntuale e documentato le ragioni che suggeriscono un’ambientazione autunnale della tragedia che, riconsegnando alla storia i resti delle cittĂ vesuviane distrutte dal Vesuvio, ha drammaticamente aperto allo sguardo e alla conoscenza dei posteri uno straordinario spaccato di vita di circa due millenni fa. Ma vediamo nel dettaglio cosa scrive Ricciardi, fermamente convinti che presto o tardi qualche piĂą esplicita traccia archeologica finirĂ col confermare la sua tesi.
Il dubbio sulla data – scrive Ricciardi – sembrerebbe risolto confrontando i dati degli antichi codici “con un passo di Cassio Dione che, nel descrivere le vittorie militari di Agricola in Britannia (79 d.C.), colloca l’eruzione in Autunno, se non fosse che anche questo testo ci è arrivato con delle varianti. Carlo Maria Rosini, che nella sua “Dissertationis isagogicae” (1797) discute ampiamente questo punto e risolve il problema in favore dell’1° novembre sulla base del ritrovamento di tracce dell’autunno nelle suppellettili e nei cibi. Infatti, i tappeti, i bracieri attivi, l’uva passa, le castagne, le cataste di melagrane, le coccole di alloro (laurus nobilis), i tessuti pesanti indossati e altro, sono sufficienti per riconoscere le caratteristiche di una stagione volgente verso l’inverno. E a proposito di melagrane, Ricciardi specifica: “La raccolta del frutto avveniva tra fine settembre e ottobre, prima dell’avvento delle piogge. Sono state trovati ad Oplontis 10 quintali di melagrane, stivate in quattro strati tra stuoie di paglia intrecciata. Nella documentazione di scavo è segnalata la presenza di due noci carbonizzate ritrovate tra le melagrane, che conferma l’attribuzione dei reperti a tale periodo stagionale”.
“Michele Ruggiero –  aggiunge Ricciardi – nel suo saggio sugli scavi di Pompei (1879), per risolvere la questione, pensa di indagare in quale stadio si trovassero la raccolta delle olive, la coltivazione della vite e la lavorazione del vino. Gli scavi evidenziano che la vendemmia era da tempo terminata e il mosto era stato riposto nei dolia, come evidente nella villa rustica in localitĂ Villa Regina a Boscoreale, vasi giĂ in gran parte pieni e sigillati con il doppio coperchio, sicuramente in uno stadio di avvenuta fermentazione, prova ulteriore del periodo non estivo dell’eruzione. Infatti, Scrive Plinio il Vecchio nelle Storie Naturali ( Libro XVIII, 319): “il periodo giusto per vendemmiare va dall’equinozio di autunno al tramonto delle Pleiadi ed essa dura 44 giorni”; egli precisa inoltre che le Pleiadi tramontano il 3° giorno prima delle idi di novembre (cioè l’11 novembre). Quindi il periodo giusto per la vendemmia è tra il 24 settembre (giorno dell’equinozio) e l’11 novembre. Il vino rimaneva sigillato nei dolia fino a raggiunta maturazione. Successivamente veniva immesso alla vendita in cittĂ dopo un’altra festa (le Vinalia priora), che si celebrava il 23 Aprile.”
“Un altro indizio, non estivo, lo ricaviamo nella I lettera di Plinio il Giovane. Per portare soccorso a Rectina e agli altri abitanti vesuviani, l’ammiraglio Plinio fa armare e scendere in mare (deducit quadriremes; deduco= scendere in mare) la flotta rostrata. La flotta tirrenica, in questo periodo di pace – spiega Ricciardi –  era addetta alla scorta delle navi annonarie che si dirigevano a Puteoli; si ritirava, all’approssimarsi dell’equinozio d’autunno nei quartieri d’inverno nel porto di Miseno (Mare clausum dal 24 settembre), mentre l’altra flotta si ritirava a Ravenna nel porto di Classe. La navigazione riprendeva poi il 5 marzo con la festa detta “Isidis Navigium” in onore della dea egizia Iside, patrona del mare, dei marinai e delle attivitĂ marinare. Per superare l’ostacolo legato alla brutta stagione bisognerĂ aspettare che intervengano modifiche tecniche nella costruzione degli scafi e nell’assetto del timone. Queste modifiche subentreranno così lentamente che ancora nel 1569 a Venezia erano proibiti i viaggi “nel cuor dell’invernata” (dal 15 novembre al 20 gennaio). La circostanza che le navi si trovassero ancorate nel porto di Miseno, depone ancora una volta per l’inizio dell’eruzione in autunno“.
Ma non è ancora tutto. L’archeologia arriva in soccorso della tesi “autunnale” con quello che Ricciardi considera un ritrovamento in grado di fare “chiarezza definitiva”, e cioè “un recente rinvenimento numismatico che ha permesso di accertare l’effettiva infondatezza della datazione estiva. Il 7 giugno 1974 vicino ad un calco femminile eseguito a Pompei nel sottoscala 10 della Casa del bracciale d’oro (Insula Occidentalis) si rinvennero: un anello con gemma; 46 aurei e 181 monete d’argento concrezionate. Tra queste monete, un denario d’argento con effigie di Tito (inv.14312/176) porta sul retto impressa l’iscrizione: «IMP TITVS CAES VESPASIAN AVG PM TR P VIIII IMP XV COS VII PP», cioè «Imperatore Tito Cesare Vespasiano Augusto Pontefice Massimo, Nona volta con la Tribunicia PotestĂ , Imperatore per la Quindicesima, Console per la Settima, Padre della Patria».
Questo ritrovamento – ne deduce Ricciardi – permette di affermare che l’eruzione avvenne, ovviamente, dopo l’emissione di questa moneta, quindi nell’anno in cui l’imperatore Tito ricopriva il VII consolato (79 d.C.), dopo l’assunzione per la IX volta della PotestĂ Tribunicia, cioè dopo il 1° luglio del 79 d.C. L’indicazione della XV acclamazione a Imperatore permette di posticipare ancor di piĂą questo limite cronologico. Infatti altre due iscrizioni, conservate a Siviglia, Spagna e al British Museum, con a margine la data del 7 e 8 settembre, riportano ancora la XIV acclamazione. Questo termine post quem ha permesso di accertare che l’eruzione del Vesuvio avvenne sicuramente dopo l’8 settembre, data, comunque, posteriore al 24 agosto. L’eruzione è avvenuta dunque in una data successiva all’8 settembre.” Conclusione? “La versione pliniana del 24 agosto è dunque da respingere”.Â
“Tale data – argomenta Ricciardi – sembra allora un errore nel codice Laurentianus Mediceus, ad oggi, il piĂą antico (IX secolo) ma non per questo il piĂą attendibile. Un’ipotesi plausibile per giustificare la data del 24 agosto potrebbe essere quella di una retrodatazione simbolica, avvenuta durante il Medioevo ad opera di alcuni cronisti monasteriali e dotti, interessati a raccontare di eventi eruttivi come supporto religioso o politico. In epoca medievale era infatti pratica comune datare gli eventi a proprio piacimento, modificandone sia l’inizio che la durata in modo da farli coincidere con il fenomeno eclatante (mirabilia), oggetto della narrazione agiografica. A titolo di esempio, basta ricordare l’adattamento della data del Natale di GesĂą spostata al 25 dicembre per farla coincidere con il solstizio d’inverno e per sovrapporla al culto del dio Mitra. Il 24 agosto i Romani festeggiavano i Vulcanalia e l’uscita delle anime dall’oltretomba attraverso il “mundus”.
“La fondazione di una cittĂ , o di qualsiasi colonia romana – comportava una particolare azione rituale: l’escavazione del “mundus”, una sorta di profonda e vasta fossa nel centro della cittĂ , che rappresentava un punto di collegamento fra gli Inferi e il mondo dei vivi. La pietra di chiusura del “mundus”, è detta “lapis manalis”. Il 24 agosto di ogni anno, veniva aperto il “lapis manalis”, e si compiva il rituale del “mundus patet” (il mundus è aperto), durante il quale si aprivano le porte degli Inferi e le anime dei defunti potevano ritornare nel mondo dei vivi e aggirarsi a loro piacimento per la cittĂ . Dopo tre giorni quando il “lapis manalis” veniva richiuso, tutto ritornava alla normalitĂ . La data del 24 agosto, quindi, enfatizza la convinzione medievale che un’eruzione vulcanica apra la porta dell’Inferno. Quale data migliore del giorno del “mundus patet” dell’antico rituale etrusco-romano dei Vulcanalia, per aprire il cratere del Vesuvio, considerato il “fumaiolo dell’Inferno” per tutto il Medioevo?”
L’ULTIMA CONFERMA ARRIVA DALL’ARCHEOLOGIA
Stavamo per pubblicare questo articolo quando l’archeologia – con sorprendente tempismo – è arrivata a dare conferma alla tesi del geofisico e storico Giovanni Ricciardi. Un’iscrizione a carboncino è venuta alla luce dagli scavi nella Regio V di Pompei, da mesi fonte di straordinarie sorprese, ed è stata così decodificata: “XVI (ante) K(alendas) NOV(embres) IN[D]ULSIT / PRO MASUMIS ESURIT[IONI]” che corrisponderebbe a “XVI° giorno prima delle Calende di Novembre. Lui indulse al cibo in maniera smodata”. Come si può notare, al di lĂ della frase attribuibile forse allo humour di taluno degli addetti alla ristrutturazione della casa,la data indicata corrisponde al 17 ottobre, quindi a una giornata di pieno autunno, precedente di poco il grande cataclisma che avrebbe distrutto Pompei. Si potrebbe obiettare che la scritta possa risalire a qualche anno prima, ma secondo gli studiosi ciò è impossibile per una semplice ragione: il carboncino, materiale fragile ed evanescente, non avrebbe resistito a lungo all’aria aperta, diversamente da una scritta tracciata pochi giorni prima che il flusso piroclastico del vulcano piombasse su Pompei a ‘sigillare’ tutto, evento che potrebbe essere avvenuto appena una settimana dopo e cioè il 24 ottobre, come a questo punto si è propensi a ritenere. L’iscrizione è riemersa in un ambiente in corso di ristrutturazione, all’interno di una casa (denominata Casa del Giardino) per il resto giĂ restaurata al tempo dell’eruzione. Oltre infatti a stanze con pareti e soffitti affrescati, e pavimenti in lastre marmoree o a mosaico, sono stati rinvenuti alcuni ambienti, come l’atrio e il corridoio d’ingresso, lasciati a intonaco semplice e ancora privi di pavimento, segno evidente di lavori in corso. E proprio da questi ambienti sono tornati alla luce vari graffiti, ora all’attenzione degli studiosi, alcuni dei quali con disegni licenziosi e caricature, tracciati con calce, gesso o, come nel caso dell’iscrizione datata, anche nel fragilissimo carbone. “Una scoperta straordinaria”: così il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli, ha definito il ritrovamento dell’iscrizione che sembra ormai inequivocabilmente supportare la tesi dell’eruzione in data successiva al 24 agosto del 79 d.C.
UNA NUOVA TRADUZIONE DELL’ISCRIZIONE
A pochi giorni dalla scoperta di quella che sembrava una ‘boutade’ di taluno degli operai o dei capimastri addetti alla ristrutturazione della villa, è giunta una nuova traduzione dell’iscrizione rinvenuta a Pompei. A proporla è Giulia Ammannati, docente di paleografia latina alla Scuola Normale di Pisa. Secondo l’epigrafista toscana, dopo l’indicazione della data, corrispondente al 17 ottobre “XVI (ante) K(alendas) NOV(embres)”, l’iscrizione proseguirebbe in questa forma: “IN OLEARIA / PROMA SUMSERUNT”, da leggersi “hanno preso nella dispensa olearia”, e non piĂą dunque IN[D]ULSIT / PRO MASUMIS ESURIT[IONI], che in italiano sta per “lui indulse al cibo in maniera smodata”.
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